Dal Giappone case di polistirolo in grado di resistere a qualsiasi terremoto

Fiero edificio un tempo appartenuto a Kato Kiyomasa, signore samurai capace di trionfare sui molti campi di battaglia della sua Era, il torrione sopra il terrapieno parzialmente integro lascia l’impressione di aver visto tempi migliori. L’alto castello di Kumamoto nell’isola occidentale del Kyushu, dalle mura scure come l’orsacchiotto che oggi rappresenta l’omonima regione del Giappone, ormai sgretolate in vari punti. Le tegole non pienamente parallele, alte impalcature e per finire una svettante gru, in grado di superare in altezza la ponderosa magnificenza ereditata dai nostri tempi. Poiché nulla può resistere, come alle cannonate o i colpi di trabucco di un esercito nemico, dinnanzi all’incontenibile ferocia della Terra, quando libera d’un tratto tutta l’energia di mesi o anni di pressione, traslazione, flessione e accumulo preparatorio, verso l’inizio di un terribile jishin – 地震 dal grado 7.0, quello che all’estero chiamiamo un vero, grosso terremoto.
Eventi come il qui trascorso del 2016, capace di costare la vita a 50 persone (e l’equivalente di 7,5 miliardi di dollari di danni) anche senza uno tsunami, lasciando nel contempo un chiaro segno sulla ricca eredità culturale e il patrimonio infrastrutturale di questi luoghi: distrutto il grande ponte di Aso sul fiume Kurukawa, parte delle antiche fortificazioni, la galleria commerciale di Kengun al centro della capitale regionale e l’iconica Janes’ Residence, primo edificio in stile occidentale cronologicamente costruito nella grande città.
Ma quando ancora non si erano posate le polveri di un simile disastro, tra l’ansia e la tristezza della gente, una strana presa di coscienza prese posto prepotentemente piede tra le cognizioni collettive: che un solo luogo, nei dintorni, sembrava non aver subito nessun tipo di danno. Niente vetri rotti, mura fessurate, infissi scardinati o il benché minimo ferito, nonostante la vicinanza all’epicentro del fenomeno che aveva appena dissipato la sua forza. Tra tutte le evenienze, forse la più inaspettata? Sto parlando del famoso (oggi, più che mai) resort denominato in lingua inglese Aso Farm Land benché non abbia alcuna implicazione agricola, rappresentando piuttosto l’essenza di un resort turistico dedicato “alla salute del corpo e della mente” e costituito da niente meno che 450 casette a forma di cupola, apparentemente progettate dalla Capsule Corporation di Dragonball, ancorché i Puffi, i Flintsones o altri membri di fantasiose società alternative. Per cui l’aspetto estetico, a conti fatti, non è neanche quello maggiormente sorprendente, quando si considera quale sia il materiale di cui sono fatte: nient’altro che il candido, leggero e (convenzionalmente) friabile conglomerato di molecole semplici, spesso usato come confezione per gli elettrodomestici e il cibo. E che invece mostra, in questo luogo ben preciso prima che altrove, tutto il suo inusitato ed architettonico potenziale…

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Sette saltatori nel deserto sotto il segno del parkour

Totale mancanza di riguardo nei confronti della propria stessa incolumità. Poco rispetto per le istituzioni. Agilità commisurata al desiderio di spiccare tra la gente cosiddetta “comune”, incapace di seguire, neanche con lo sguardo, le vertiginose evoluzioni sopra i tetti del più tipico contesto urbano. Questi ed altri sono gli stereotipi, evidentemente accantonati a pieno titolo, nel corso dello svolgersi dell’ultima fatica degli STORROR, gruppo inglese di atleti dediti alla sublime arte in divenire di quel flusso di vettori, il susseguirsi di reazioni o tecnica dei movimenti concatenati che dir si voglia, cui viene convenzionalmente attribuita la definizione francofona di parcours. Meno una S e con l’aggiunta della K, che non fa mai male. Eppure per chi ha ancora in mente quale sia l’origine di tale disciplina, nell’ormai remota prima decade del ‘900, ad opera dell’insegnante di educazione fisica della Marina Georges Hébert, non può esserci proprio niente di strano oppure disallineato dalla convenzione, in questa esplorazione a ritmo accelerato di un ambiente come le distese brulle del deserto del Negev, in Israele, teatro di una serie di sequenze che non sembrerebbero di certo fuori luogo in un film di James Bond. Sopra e sotto, dietro, dentro, le insolite caratteristiche di un paesaggio frutto di millenni d’erosione, le cui serpeggianti depressioni tendono a incrociarsi l’un l’altra, offrendo ottimi presupposti per quel fondamentale proposito del “muoversi con efficienza” (risultando, quindi, maggiormente utili) tanto lungamente teorizzato dall’inconsapevole creatore di un punto d’incontro tra l’Europa ed il Giappone dei subdoli ninja, battaglieri acrobati con il costume nero. Esattamente così come appaiono Toby Segar, Joshua Burnett-Blake, Drew Taylor, Max e Benj Cave, Callum e Sacha Powell, con l’aggiunta di essenziali occhiali per difendersi dal polverone, qualche fazzoletto per cercar l’anonimato e in taluni specifici frangenti, anche la mascherina con i filtri tipica del graffitaro, che fa tanto post-industrialismo vagamente cyberpunk. Due coppie di fratelli più altri amici, che si sono conosciuti nel corso della seconda metà degli anni 2000, per arrivare alla formazione del loro team al volgere dell’iconico giorno 10-10-10 scegliendo come nome una parola in lingua inglese probabilmente riconducibile al concetto di “pastore”, dal termine “stor” comunemente riferito ai bovini o pecore, a seconda del contesto.
Strana scelta per un ancor più eclettico collettivo, notoriamente abituato a viaggi verso le destinazioni internazionali più diverse, verso la creazione di un’antologia infinita di vertiginosi exploit, su alcuni degli edifici più alti, vecchi e almeno qualche volta, potenzialmente scivolosi dei più variabili contesti d’appartenenza. Detto ciò, sarei propenso a definire l’ultima particolare creazione come quella più pura degli ultimi anni, dove in assenza di ogni possibile elemento di distrazione e/o distruzione, potendo fare affidamento sul naturale fascino di un paesaggio al limite dell’Oltremondo, i sette tornano al cuore e il nocciolo stesso di una simile faccenda: quale possa essere, in effetti, l’obiettivo posto sulla cima alla ripida montagna del parkour.

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Ai confini di New York, ossa di cavallo e sogni smarriti nel mare di spazzatura

Per lunghi anni schiere di sociologi hanno teorizzato l’esistenza, da qualche parte, di un nucleo centrale nel vasto contesto iper-urbano della città di New York. Il mozzo della ruota, o se vogliamo, il torsolo della (grande) Mela, ove trovare finalmente sublimato quel principio estremamente pervasivo che sin dall’alba dei tempi porta l’uomo, in ogni suo momento, a perseguire l’utile finalità dell’aggregazione. In luoghi come Manhattan, Brooklin, Queens… Presso i viali ordinatamente alberati, all’ombra dei grattacieli, tra i recessi zigzaganti del sempre affascinante Central Park. Ove la gente è più felice o in qualche modo, pronta a condividere i propri momenti nel tentativo di amplificare la soddisfazione generale del momento presente e tutto ciò che in qualche modo, può derivarne nell’immediato o più remoto futuro. Mentre nel frattempo, un consorzio maggiormente eclettico di studiosi, filosofi, artisti e cacciatori di tesori, hanno scelto di porsi un differente tipo di domanda. Con la finalità di comprendere, dal canto loro, il Come piuttosto che il Perché, giungendo in forza di ciò presso i recessi non propriamente gradevoli di un Dove dall’aspetto estremamente diverso. Luoghi come Barren Island (l’Isola Desolata) e il braccio di acqua salmastra che la fronteggia inondato d’inconoscibili rifiuti e chiamato convenzionalmente: Dead Horse Bay (la Baia del Cavallo Morto).
Ora immagino, comprensibilmente, che l’impiego di nomi carichi di suggestioni tanto inquietanti possa lasciare sorpreso un abitante come noi, del paese più bello e assolato del mondo, benché all’interno della concezione pragmatica di una soluzione urbanistica statunitense, dedicata a risolvere un problema estremamente reale, una simile cognizione assuma le tinte di una ben più plausibile verità. E dire che fino all’inizio del XVII secolo, l’intero piccolo arcipelago d’isolette note come Outer Barrier (Barriera Esterna) facenti parte dell’originale terreno “acquistato” dai coloni europei dietro risibili concezioni alle popolazioni native dei Lenape, erano rimaste l’area maggiormente incontaminata tra tutti i recessi dove l’Uomo Bianco, per presunto diritto divino, aveva scelto d’edificare le proprie svettanti strutture architettonicamente rilevanti. Finché attorno al 1850, alla brava gente di questi luoghi non venne in mente il modo in cui un luogo simile potesse costituire a tutti gli effetti l’ideale per confinarvi tutte quelle attività industriali che, in un modo o nell’altro risultavano sgradevoli nei confronti della popolazione. Luoghi come concerie di pelli maleodoranti, macellerie d’interiora, impianti per la processazione dei menhaden (Brevoortia patronus) tipici pesci di queste coste considerati così poco pregevoli da essere impiegati, comunemente, in qualità di fertilizzanti e soprattutto, più d’ogni altra cosa, tutte quelle industrie incaricate, in un modo o nell’altro, di trattare le carcasse d’animale recuperate per le strade della più importante città costiera dell’Est dopo la fine dell’epoca bostoniana. Verso la fine di quel secolo, quindi, l’Isola Desolata diventò la base di un’attività industriale a suo modo florida, benché le continue inondazioni del territorio paludoso, frane impreviste e tempeste provenienti dall’Atlantico avessero la problematica abitudine di spazzare via gli edifici barcollanti costruiti a tal fine. Venne quindi costituita una sorta di casta composta da circa 1.500 persone all’apice, largamente immigrati o persone di colore, incaricata di preservare l’antica eredità di tutto quello che una città poteva chiedere, purché rimanesse appropriatamente lontano da occhi, orecchie e naso dei pari contributori di una più appariscente quotidianità. Attorno agli anni ’20 del Novecento quindi, mentre simili attività venivano spostate ancor più lontano dalla città per arginare le lamentele dei quartieri limitrofi e i gli abitanti forzosamente spostati altrove (non che avessero granché da lamentarsi, considerata la natura malsana della loro sistemazione avìta) al potente ufficiale pubblico Robert Moses, all’epoca capo della Commissione Parchi nonché detentore di una piccola collezione di altre cariche fondamentali per l’amministrazione di New York, non venne la prototipica idea geniale: raccogliere tutte le montagne di spazzatura capaci di arginare i suoi progetti di miglioramento per il centro luminoso dei distretti cittadini e scaricarla sul territorio ormai diventato inutile di Barren Island. Non soltanto creando la più vasta discarica che gli Stati Uniti avessero mai costruito a un tiro di schioppo da zone tanto demograficamente rilevanti, ma provvedendo in una fase successiva a ricoprirla di sabbia e ghiaia prelevata dalla vicina Jamaica Island, al fine di unire le due terre emerse nella creazione di quello che sarebbe diventato Floyd Bennett Field, il primo aeroporto municipale della città. Non fu necessario attendere fino all’inizio della decade successiva, tuttavia (quella del 1930) per rendersi conto di come le cose non fossero destinate ad andare esattamente nel modo che era tanto accuratamente pianificato…

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Rilassante passeggiata con gli anelli avvitati nel fianco della montagna

C’è un qualcosa di straordinariamente precario e al tempo stesso accattivante, nell’esperienza di un video ripreso in soggettiva di arrampicate da cardiopalma, capace di ricordare il funzionamento di un videogame installato su un hard drive difettoso. Che da un momento all’altro rischia di bloccarsi, riportando la fantasia dell’unico fruitore verso le ripide pendici della severa, implacabile quotidianità. L’inquadratura che oscilla nel vento, così come gli altri attori visibili, di tanto in tanto, all’interno dell’insolita contingenza. Che possono essere, a seconda dei casi, altri esseri umani oppure semplici oggetti, come la memorabile borsa con gli attrezzi dondolante durante l’intero svolgersi dell’‘intramontabile classico di YouTube “Climbing the world’s tallest Radio Tower”. Eppure, sarebbe difficile negarlo: che questa nuova opera in presa diretta del misterioso autore almeno apparentemente appassionato di sport estremi, Aitor Leal (persino il nome è insolito) riesca a veicolare un tipo di fascino ancor diverso, in qualche modo in grado di coinvolgere il senso di vertigine che sempre si annida, subdolo, nel profondo delle nostre sinapsi semi-addormentate. Forse per la foschia montana sulla distanza, che sembra nascondere ruvide rocce distanti una quantità ignota (nonché sufficiente) di metri. Magari per il dettaglio con cui ci è dato di prendere atto delle precise movenze inscenate dall’attore principale/nostro alter-ego per i quattro minuti della sequenza, mentre si assicura per quanto possibile di non precipitare nel vasto baratro sottostante. Ma sicuramente, almeno in parte, per l’appiglio almeno apparentemente precario che sceglie d’utilizzare come contromisura nei confronti di un tale fato: la serie di pioli e d’anelli, infissi verticalmente non si sa da chi e quando, lievemente rugginosi, che dovrebbero costituire una sorta di superstrada verso l’agognata vetta del massiccio antistante.
Benché un’analisi maggiormente approfondita risulti trovarsi, nei fatti, a due soli click di distanza, visto il nome gentilmente fornito nel titolo di quella che costituisce una delle più recenti, nonché originali, attrazioni turistiche situate nei pressi del comune Corçà (Lleida) sulla cordigliera dei Montsec da cui trae l’origine l’intera catena dei Pirenei. Feliz Navidad (Buon Natale) di nome e di fatto, come orgogliosamente proclamato dai creatori di questa via ferrata dall’escursione verticale di 684 metri, i rinomati scalatori Urquiza e Olmo, al faticoso completamento della stessa giusto il 24 dicembre del 2010, dopo le molte domeniche trascorse a calarsi lungo il fianco della montagna, trapano alla mano, per posizionare gli orpelli capaci di renderla “accessibile” pressoché a chiunque. Affermazione che sembrerebbe trarre un grande vantaggio dall’uso delle virgolette, almeno per questa volta, visto l’inserimento della location in questione nella rara categoria K5, capace di renderla nei fatti la singola più difficile di tutta la Spagna…

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