Incontrata una sera per strada casualmente, mentre si aggirava senza un obiettivo preciso: la lunga casacca verde, i capelli biondi legati in una crocchia elegante. “Natura, che ci fai da queste parti? Natura, sei ubriaca?” Domande lecite da porre a un’entità la quale, per quanto possa possedere un aspetto antropomorfo, tende a risolvere i problemi lavorando all’inverso. Consideriamo per esempio il tipico contegno di un anuro… Così. Rappresentante tipico del genere Breviceps o “dalla testa corta”, benché per il popolo di Internet sembri preferibile chiamarlo rana palla o piccola polpetta o ancora, in determinati ambiti dall’elevato grado di confidenza, la patata magica del sottosuolo sudafricano. Un vero classico di questi lidi digitali, in effetti, per video memetici e brevi sequenze ad effetto, generalmente culminanti con l’emissione da parte della protagonista del suo tipico verso squillante di protezione e definizione del territorio, non troppo dissimile dal suono di un giocattolo a trombetta per cani o gatti. Ragion per cui non si può fare a meno di restar colpiti quando ci si rende conto di come, per anni ed anni ed anni, alla maggioranza non sembri essere venuta in mente la questione fondamentale: poiché gli anfibi di questo ordine mangiatori di formiche, scarabei e termiti nella stragrande maggioranza dei casi, al fine di accoppiarsi necessitano di rimanere attaccati. Per un periodo di ore o giorni, addirittura! Il che sarebbe già sufficientemente arduo per il maschio di una creatura dalle zampe anteriori tanto gracili e corte, senza neppure prendere in considerazione la rilevante problematica di un pronunciato dimorfismo sessuale. Tale da rendere la potenziale partner dalle proporzioni simili a un boccia per giocare a raffa, laddove lui è più prossimo a una palla da biliardo. 50-60 cm vs 30, dunque ed il bisogno, in qualche modo, di aggrapparsi. Oppure no, d’altronde, grazie allo scaltro metodo risolutivo figlio del processo noto come pressione evolutiva. Giacché per secoli ed eoni, sotto la supervisione della nostra amica/demiurgo in abito da sera, le rane a palla della pioggia sono giunte a implementare una solida metodologia alternativa. Consistente nel restare appiccicate, come per l’effetto di una colla, grazie al muco che producono in apposite zone della propria epidermide mimetizzate. Il tipo di fluido utile in questa categoria di esseri, generalmente, con finalità di acquisizione di un sapore fetido e conseguente repulsione dei predatori. Il che resta un importante fattore, nel caso specifico, dell’equazione. Ma di sicuro non costituisce il suo risultato finale…
“Nuova incredibile scoperta” e “Straordinaria rivelazione degli scienziati” furono ovviamente i titoli, o quanto meno il loro tenore generico, nelle riviste di divulgazione scientifica verso l’inizio del 2022, quando il biologo Atsushi Kurabayashi dell’istituto di Nagahama di Bio-Scienza e Tecnologia pubblicò il suo studio sulle secrezioni della rana della pioggia comune, alias B. adspersus o rana di Bushveld, come denominata originariamente dal suo scopritore nel contesto sudafricano (Peters, 1882). Un approccio alla questione, questo, non del tutto onesto e d’altra parte c’è ben poco da meravigliarsi, benché Internet ci abbia insegnato, negli anni intercorsi, ad approfondire e verificare le nostre fonti. Così come fatto dallo stesso autore ove menziona, nell’articolo originariamente pubblicato sulla rivista Salamandra, di come le gloriose capacità adesive della creatura in oggetto fossero state ampiamente noto ed oggetto di discussioni accademiche almeno a partire dal 1979, quando all’autore J. Visser capitò d’ipotizzare che la riproduzione di tale animale possedesse un principio di funzionamento analogo alla colla epossidica, in cui maschio e femmina producessero sostanze in grado d’interagire vicendevolmente, generando allora l’efficace effetto capace di attaccarle saldamente assieme. Il che appare già poco probabile dalla mera osservazione pratica, per il modo in cui le rane della pioggia appaiono frequentemente ricoperte della sabbia sotto cui vivono, accentuando ulteriormente la casuale somiglianza al loro termine di paragone dalla prospettiva antropocentrica, una chiassosa polpetta ricoperta di pan grattato. Non che tale notazione aneddotica potesse risultare sufficiente alla forma mentis di un vero scienziato, così che allo sperimentatore giapponese è venuto in mente di mettere alla prova l’ipotesi attraverso l’utilizzo di un avanzato strumento tecnologico, lo stimolatore anfibio transcutaneo (TAS). Nient’altro che un elettrodo in effetti, per fortuna del tutto incapace di arrecare un danno fisico alla rana, ma piuttosto concepito al fine di sottoporla ad una lieve tensione capace di stimolare le sue ghiandole di produzione del muco. Un processo utilizzato al fine di comprendere non soltanto come esso fosse effettivamente prodotto egualmente dal maschio e dalla femmina, benché in zone diverse (le zampe di lui, la schiena di lei) ma anche misurare il suo effettivo potere d’adesione alla ricerca di possibili imitazioni future da creare in laboratorio per il massimo vantaggio della civilizzazione umana. Mediante l’utilizzo di un rettangolo di legno di cedro, rimasto attaccato grazie al muco ad una superfice in acrilico per periodi di fino a 24-72 ore. Ottenendo un risultato eccezionale di resistenza a 43,14 Newton di pressione per centimetro quadrato, benché i valori mediani fossero esponenzialmente più bassi e piuttosto paragonabili a quelli di un foglietto post-it facente parte del tipico contesto della cancelleria contemporanea. Questa intera famiglia di rane, d’altronde, ha un peso molto ridotto e difficilmente potrebbe trovarsi in difficoltà anche potendo affidarsi nell’accoppiamento ad una colla dal potere così contenuto.
Segue dunque il lungo e articolato amplesso, durante cui le uova vengono fecondate per un periodo di ore o giorni. Mentre la femmina rotondeggiante, apparentemente indifferente al proprio partner incollato sulla schiena, scava laboriosamente la tana. Ove procederà, poco dopo, alla deposizione in un sostrato secco e sabbioso, del tipo diametralmente opposto alla classe di ambienti che generalmente associamo alla categoria biologica dei girini. Ma poco importa, poiché le Breviceps, tra le loro molte doti, possiedono anche la capacità di sopravvivere alla nascita nella minuscola lacrima di umidità contenuta all’interno del proprio stesso albume. Affrettandosi, per ragionevole necessità, a sviluppare le zampe iniziando a muoversi agilmente nella tana, fino al momento di scaturirne finalmente nelle ore serali. Ove potrebbe pur capitargli, per un mero caso ironico o transitoria contingenza, d’incontrare Madre Natura in persona. Ed offrirgli un candido per quanto stridulo ringraziamento, squillante tra i versi degli uccelli ed il richiamo dei pochi pipistrelli rimasti.
Poiché ad animali come questi non importa, fondamentalmente, il fatto che possa esistere in linea di principio una soluzione “migliore”. Quando tutto quello che conoscono è il successo, senza mani e senza l’uso degli artigli necessari ad afferrare saldamente il proprio destino. Perseguendo la collosa prosecuzione ininterrotta della propria linea di discendenza, fin dalle origini e verso l’ultimo dei giorni di questo pianeta dai molti misteri.