Scrutando fuori dal finestrino di un magico drone decollato a Volgograd, diretto verso il settentrione e la città un tempo nota come Stalingrado, sarà possibile notare la muraglia che parrebbe separare le due metà del mondo: da una parte l’entroterra di un grande “mare” lacustre, lo splendente Caspio. E dall’altra le frondose distese del più vasto continente, l’Eurasia. In modo molto significativo rappresentato, sulle arbitrarie mappe disegnate dall’uomo, da quel paese e questo fiume, che fin da tempi immemori gli abitanti della Russia hanno chiamato Volga-Matushka: Madre Volga. Una risorsa il cui valore non può essere sovrastimato, nella costituzione di un’economia pre-moderna basata sull’agricoltura e soltanto successivamente, ovvero dopo l’introduzione di una società industrializzata, la fonte inesauribile di un’importante quantità di preziosa energia idroelettrica. Un cambio fondamentale delle priorità, così efficacemente espresso dalla costruzione d’importanti opere, che riguardano il cambiamento dell’aspetto sostanziale di un corso d’acqua, la sua velocità, il suo stesso ed oggettivo scopo d’esistenza. Spesso a discapito di tutte le altre creature che, fino a quel momento, avevano fatto affidamento sulla sua esistenza.
La Volzhskaya HPP o Impianto Idroelettrico del Volga del XXII Congresso del CPSU fu dunque la diretta risultanza, come lascia intendere il suo nome per esteso, di un’iniziativa di rinnovamento infrastrutturale e grande opere varate dal Partito, messa in atto negli anni ’50 sotto la definizione collettiva di Grande Opere del Comunismo. Massicci progetti nel campo dell’irrigazione, la navigazione e l’energia idroelettrica, sostanzialmente classificabili in una serie di modifiche al sostrato idrografico del territorio, tra cui la diga in questione può essere individuata come una delle opere maggiormente dispendiose e caratterizzanti. Ipotizzata già a partire dall’agosto del 1950, figurando in un’ordine del piano di fattibilità firmato dallo stesso Joseph Stalin, essa avrebbe dovuto effettivamente costituire il letterale fiore all’occhiello della catena di dighe dislocate lungo il fiume simbolo, costituendo al tempo stesso il contributo più importante fino a quel momento, ed in un certo senso l’iniziatore formale, dell’ormai rinomato UES o Sistema Energetico Unificato russo. La rete di distribuzione che attraverso fonti anche significativamente diverse tra di loro, avrebbe garantito l’approvvigionamento energetico della parte centro-meridionale del paese all’inizio dell’Era Contemporanea, trasformando le sconfinate distese disabitate nazionali nel terreno florido in una superpotenza tecnologica al pari di chiunque altro. L’Unione Sovietica, in altri termini, aveva individuato il suo Mississippi e non aveva intenzione di lasciarsi sfuggire neanche una goccia del suo magnifico, largamente inesplorato potenziale generativo…
Ancora oggi, nonostante la sua relativa antichità che si avvicina ormai agli 80 anni di lavoro ininterrotto, la Volzhskaya costituisce la maggiore diga della regione geografica europea, con i suoi 725 metri di lunghezza e 44 di altezza. Per non parlare dei 2.734 MW d’elettricità prodotti annualmente, pari a quasi una volta e mezza quelli della seconda in classifica, la Grande Dixence del cantone svizzero di Valais. Grazie al volume impressionante di acqua che vede passare oltre le sue turbine, in buona parte deviato e contenuto nel bacino di Volgograd, un lago artificiale di 540 x 17 Km di ampiezza, la cui creazione negli anni dopo l’accensione della centrale compresi tra il 1958 ed il 1961 avrebbe portato all’abbandono forzato d’innumerevoli comunità e cittadine, per un totale di trasferimenti necessariamente imposti a 15.157 famiglie. Una scelta almeno apparentemente priva di pietà e che rientrava a pieno titolo nella trasformazione del territorio intrapresa in quegli anni, che mirava ad accentrare la popolazione nei grandi centri industrializzati e produttivi a discapito delle campagne progressivamente fatte scivolare in secondo piano. Così che l’impressionante cantiere, destinato a restare operativo per un periodo totale di otto anni, sarebbe diventato esso stesso una città, in buona parte popolata dai detenuti fatti traslocare da innumerevoli prigioni e gulag, utilizzati come manodopera per l’implementazione del rilevante progetto. Dal punto di vista tecnologico, siamo oggi di fronte dunque ad un sistema di flusso dell’acqua a bassa pressione, mantenuto mediante la soluzione ibrida di due dighe di terra costituite in sabbia e ghiaia, rinforzate con lastre di cemento armato spesse 0,5 metri. Con al centro la struttura idroelettrica propriamente detta, una struttura integralmente in cemento a pressione gravitazionale, con 27 stramazzi a pelo libero di tipo artificiale, con una capacità complessiva di 63.060 metri cubi di acqua al secondo in condizioni di operatività normale. Il tutto veicolato in modo tale da riuscire a mantenere in funzione 22 turbine idrauliche verticali, costruite all’epoca mediante approcci tecnici del tutto innovativi. Per quella che alla metà del secolo scorso sarebbe risultata, per qualche fugace anno, la singola diga idroelettrica maggiore al mondo, le autorità russe avevano in effetti implementato tecnologie mai messe alla prova prima di quel momento, tra cui le pale idroelettriche dei generatori costruite in lega Babbitt (stagno, rame, antimonio) che nonostante la resistenza si piegarono ben presto sotto l’impressionante volume di carico capace di generare il fenomeno distruttivo della cavitazione, richiedendo entro gli anni ’80 un rivestimento in fluoroplastica ed acciaio inossidabile che dura tutt’ora. L’impianto poteva inoltre vantare la presenza di un certo numero di trasformatori da 500 kV, i maggiori mai costruiti fino a quel momento nella storia dell’uomo. Concludeva l’offerta pratica l’inclusione di un canale laterale per l’ascesa dei pesci, teoricamente implementato a beneficio della migrazione degli storioni produttori di caviale, a quell’epoca un importante prodotto per l’economia gastronomica della regione. Benché sotto quel punto di vista le cose non sarebbero andate, in alcun modo rilevante, nella maniera sperata.
Il problema della trasformazione del Volga in grande centro di erogazione energetica, dislocata attraverso 13 stazioni tra cui svariate di capienza comparabile a quella della Volzhskaya, non sarebbe stato d’altra parte unicamente a danno di specie come l’Acipenser Huso Huso, fonte del prezioso e costosissimo caviale beluga, bensì l’intero ecosistema collegato al corso un tempo bucolico della Matushka. Oggi disseminato di numerosi insediamenti produttivi collegati alle industrie più diverse, nonché destinazione ultima, attraverso il canale di Mosca, delle acque reflue di una città di 12 milioni di abitanti; abbastanza da renderla, in base a numerosi studi effettuati, il singolo fiume più inquinato di tutta la Russia. Un triste primato che non dovrebbe in alcun modo inficiare l’importanza dei traguardi tecnologici raggiunti, ed il beneficio che questi ultimi hanno portato al tenore di vita di una quantità notevole dei suoi abitanti più lontani dal centro pulsante della modernizzazione post-bellica del Novecento.
Faremmo meglio a renderci conto, a tal proposito, che se i paesi dell’Europa Occidentale non hanno costruito immense dighe o altri progetti dal comparabile impatto sul territorio, l’unica ragione è che il paesaggio non ne offriva l’opportunità abbastanza remunerativa. Favorendo l’importazione proprio dall’Oriente di quei carburanti fossili ed il gas naturale, in eccedenza nel paese dei sovietici grazie all’utile strumento dello UES. Il che non significa che un tale approccio sia infinitamente sostenibile. Come qualsiasi altro su cui possiamo, allo stato dei fatti attuali, contare per la produzione dell’imprescindibile energia terrestre. A meno d’iniziare l’auspicata, ed ormai in grave ritardo, colonizzazione di pianeti in trepidante (o tremebonda) attesa del nostro arrivo.