Le cospicue battaglie dell’antilope dal muso trapezoidale

Nelle regioni occidentali del KwaZulu-Natal, al sopraggiungere della primavera, un suono roboante può essere sentito che riecheggia lungo i margini semi-abitati della savana. Come un rombo dal profondo, ripetuto ed insistente, che penetra il silenzio catturando e monopolizzando l’attenzione degli escursionisti. Terribile ed al tempo stesso affascinante, spaventoso almeno quanto sa essere caratteristico, esso è il segno udibile di un’impressionante battaglia: quella condotta tra due esemplari maschi adulti dell’Alcelaphus buselaphus caama, volgarmente detto alcelafo rosso o del Capo. Un’imponente gazzella dal muso lungo e le zampe sottili, il corpo muscoloso ed un distintivo paio di corna ritorte, spesse e aerodinamiche, che puntano diagonalmente all’indietro. Creatura dal peso che si aggira normalmente tra i 100 e 200 Kg, in un’espediente dell’evoluzione assai probabilmente motivato dal bisogno di resistere ed allontanare i predatori, risultando effettivamente totalmente impervia dal punto di vista di sciacalli, ghepardi o iene, a meno che i suddetti siano inclini a mettere in pericolo la propria incolumità personale. Una capacità d’autodifesa ulteriormente accresciuta dalla statura considerevole dell’animale, che con la sua altezza al garrese di 1,1-1,5 metri riesce facilmente a scrutare l’orizzonte, rispondendo con largo anticipo ad ogni possibile pericolo incipiente. Potendo comunque ricorrere ad una velocità di fuga che si aggira tra i 70-80 Km/h in campo aperto, dimostrando una capacità di sfruttare i propri muscoli decisamente al di sopra della media. Al che può risultare inaspettato, e per certi versi stupefacente, che una creatura come questa pur costituendo vasti branchi di fino a 300 esemplari mostri un’inclinazione nettamente stanziale, rifiutandosi generalmente di spostarsi più di qualche chilometro dal proprio territorio elettivo, in un approccio all’esistenza che potremmo collegare strettamente alla progressiva riduzione del suo areale d’appartenenza. Laddove anticamente, in base ai fossili ritrovati, gli alcelafi (in lingua inglese hartebeest) erano diffusi nell’intero continente africano, mentre al giorno d’oggi si trovano distribuiti in una pluralità di popolazioni diversificate dal punto di vista genetico ed impossibilitate a mescolarsi tra loro. Otto per la precisione ed includendo quelle tassonomicamente controverse, oltre a un’altra recentemente estinta, l’A. b. buselaphus di Bubal originario dei territori marocchino ed egiziano. Ciascuna sottospecie in uno stato di conservazione nettamente distinto, con la variante sudafricana risultante ancora di gran lunga la più diffusa, mentre l’etiope A. b. swaynei costituisce una delle antilopi attualmente maggiormente rare al mondo. Il che non significa, d’altronde, che la popolazione complessiva di questa intera specie sia attualmente in condizioni migliori, con una perdita percentuale misurabile annualmente, in forza dell’inevitabile e costante riduzione del suo habitat. Oltre ad un tipo di caccia purtroppo non sostenibile, condotto per parecchie generazioni dalle popolazioni locali e visitatori provenienti da settentrione, in forza di una particolare facilità nel rintracciare, avvistare ed abbattere questi grandi erbivori nel loro ambiente naturale. Un’esperienza, quanto pare, tenuta particolarmente in alta considerazione all’interno di determinate cerchie di umani…

In questa singolare scena ripresa in una non meglio definita riserva naturale, alcune zebre particolarmente aggressive intendono accanirsi su un cucciolo di hartebeest. Esse non avevano fatto i conti, tuttavia, con l’indole protettiva della madre e le sue compagne.

Nello schema generale del suo ecosistema di riferimento, l’alcelafo costituisce dunque un tipico esempio di grosso erbivoro, che si nutre nelle ore diurne e riposa all’ombra con il proseguire del pomeriggio. Gregario e socialmente coeso, esso riesce a trarre giovamento dal ruolo assegnato di una singola vedetta per ciascun gruppo, incaricata a rotazione di vegliare sui dintorni mentre i suoi compagni possono assolvere all’acquisizione del proprio fabbisogno alimentare quotidiano. Finché inevitabilmente, alla reazione allertata della suddetta l’intero branco si affretta a seguirla, costituendo lunghe e ininterrotte file indiane d’esemplari, indifferenti alla necessità di compiere particolari evoluzioni per sviare la cattura. Come un treno che si estende all’infinito, pronto a suddividersi in gruppetti “armati” e pronti ad abbassare le proprie corna contro i gruppi dei famelici aggressori. Certe volte in modo niente meno che epico, vedi il caso registrato nel 1963 di un branco in Botswana composto da 10.000 di queste gazzelle, probabilmente inavvicinabile anche per la più fiera ed imponente delle leonesse. Il che d’altronde non protegge necessariamente i nuovi nati, troppo lenti per essere incorporati in qualsivoglia strategia di battaglia, risultando effettivamente condizionati da un rateo di mortalità tra i più elevati della propria intera sotto-famiglia. Per un periodo anche piuttosto lungo, vista la dipendenza almeno parziale dalla madre fino ai 2,5 anni di età, una parte significativa dei 12-15 vissuti in condizioni ideali da questa particolare specie animale. Aggiungete a questo la maniera in cui i maschi adulti siano soliti ferirsi anche gravemente, o allontanarsi a vicenda dai pascoli più verdeggianti come risultanza dei loro frequenti combattimenti finendo per morire di fame, ed avrete il quadro di una prospettiva di sopravvivenza piuttosto variabile, del tutto conforme allo stereotipo largamente dato per scontato quando si parla di gazzelle. Una difficoltà, quest’ultima, almeno in parte scongiurata dalla versatilità gastronomica di simili creature, capaci di digerire agevolmente anche l’erba secca e molto corta, fagocitata grazie alle loro bocche particolarmente agili, che preferiscono inaspettatamente anche alle foglie o bassi cespugli della savana. Il che tende a porle in un problematico stato conflittuale coi bovini addomesticabili, tra le principali ragioni della riduzione del loro habitat, eternamente favoriti nella gerarchia ideale dei mammiferi creata e mantenuta dall’invadente società civilizzata. Fatta eccezione per alcuni casi molto particolari, come le tradizioni del popolo Oromo in Etiopia, dove il ferimento o uccisione di una rara hartebeest della sottospecie di Swayne viene attualmente equiparato al crimine commesso ai danni di una persona. Inclinazione particolarmente utile agli odierni propositi di conservazione, che ha permesso la riuscita creazione di una serie di riserve utili a massimizzare la riproduzione dell’animale.
Aggiungete a tutto ciò il problema, nient’altro che trascurabile, della difficoltà con cui queste creature possono essere allevate in cattività: gli alcelafi hanno infatti bisogno di notevoli spazi dove correre e sfogarsi, in assenza dei quali tendono a diventare pericolosi per se stessi e gli altri. Una situazione diametralmente all’opposto rispetto a quanto avviene per altre tipologie di gazzelle.

Nel branco degli alcelafi sussiste una precisa divisione in caste, composte da maschi adulti territoriali, maschi adulti non territoriali, maschi giovani, e le femmine coi cuccioli della congrega. Ciò detto, le rispettive aggregazioni sono solite disperdersi o rimescolarsi, senza una particolare fedeltà ad un gruppo ben definito.

Perfettamente capace di difendersi dai rischi naturali del suo ambiente di provenienza, all’interno del quale si è potuta adattare per un periodo approssimativo di 4,4 milioni di anni, l’alcelafo ha perciò un singolo ed inevitabile avversario. Colui che inevitabilmente, fin dall’alba dei suoi primi insediamenti stanziali, ha fatto di tutto per ampliare in modo esclusivo i propri spazi di riferimento. Il che non può prescindere, d’altronde, dal bisogno di un accesso senza compromessi a determinati spazi e risorse, pena l’estinzione o quanto meno sofferenza di gruppi umani insediati tradizionalmente sul territorio. E chi ha detto che l’estendersi di tal diritto inclusivo dell’uccisione arbitraria a chi viene da fuori, all’interno di situazioni attentamente controllate, debba essere necessariamente un male… Oggi la gazzella springbok (Antidorcas marsupialis) rappresenta un raro caso di successo nell’ambito della conservazione, con una popolazione in significativo aumento proprio grazie all’allevamento sistematico praticato a beneficio dei cacciatori.
E se determinati propositi di armonia tra uomo e natura sono ormai venuti meno, anche ammesso che abbiano mai avuto l’opportunità di sussistere, non è per questo necessario deprecare ogni situazione o circostanza che ne deriva. In altri termini, se quattro corna cozzano nella foresta e non c’è nessuno che le ascolta, hanno cozzato davvero? Mentre ogni giorno la gazzella che si sveglia sa che dovrà correre, finché non scopre un’altrettanto valida alternativa. Abbassare la sua testa e puntare in avanti le armi ben appuntite da millenni d’evoluzione. Aspettando che il nemico faccia la sua ultima mossa, nel bene o nel male.

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