Per chi ha versato le sue lacrime la fontana più drammatica della Grande Mela

Nell’occasione del suo primo anniversario, nonché data della rimozione dal contesto pubblico in cui era stata posizionata, una delle poche opere monumentali dell’artista danese Nina Beier ci offre nuovamente l’occasione di riflettere sul significato effimero dell’interpretazione delle immagini, il loro contenuto più profondo e l’inalienabile logica della figura umana. “Donne” afferma il titolo di tale gesto “…e bambini” facendolo nella maniera tipica, in lingua inglese, della chiamata da parte dell’equipaggio durante un naufragio, al fine d’evacuare anticipatamente le persone considerate maggiormente vulnerabili dal ponte condannato della nave. Laddove nel caso specifico, nessun cassero, castello o ciminiera circondavano le nove figure bronzee piangenti e in vari stati di conservazione scelte dall’artista, esperta collezionista d’oggetti dimenticati, bensì le ordinate aiuole ed i sentieri sopraelevati dello High Line, il parco newyorchese designato sopra la struttura del vecchio binario ferroviario urbano, abbandonato a partire dagli anni ’80. Un luogo utile a distrarsi o fare una piacevole passeggiata, in aggiunta a prendere visione di talune collaborazioni artistiche, tra la città più popolosa degli Stati Uniti ed alcuni degli artisti più stimati a livello internazionale. Creando giustapposizioni singolari, come quella del momento di profonda introspezione interpretativa potenzialmente derivante dalla presa di coscienza di una tale composizione: convincenti raffigurazioni di possibili persone, in piedi, sedute e sdraiate, reciprocamente poste in modo da non guardarsi negli occhi o in alcun modo in grado di offrirsi conforto. Mentre l’acqua scrosciante, in diciotto zampilli senza posa, scorre impetuosa dalle piccole aperture poste in corrispondenza dei loro occhi, a suggerire uno stato d’animo d’assoluta e inalienabile sofferenza interiore. Una profonda e sintetica disquisizione, se vogliamo, in merito al ruolo dei sentimenti che si fanno monadi senza un chiaro termine né cessazione evidente, per sempre cristallizzati all’interno del nostro carattere o sistema di valori interpretativi dell’evidenza. Nonché un discorso, per chi è incline a prestargli orecchio, in merito al ruolo di queste figure collaterali della storia dell’arte scultorea, le Women & Children (per l’appunto) eternamente ritratte privi di abiti o alcun ruolo professionale, a tentar d’essere soltanto un mero e improduttivo studio della figura umana. Così come molte altre opere di quest’artista di fama internazionale, dimostratasi capace di partire dalla forma fisica di una singola categoria d’oggetti per stravolgerne il significato, trasformarlo tramite connotazioni sintattiche derivanti dal trascorrere delle ore infinite. Mentre l’acqua, imperturbabile, continuerà a dirigersi verso l’unica direzione possibile continuando a lambire i piedi senza scarpe della sapienza…

Il netto contrasto tra la composizione dinamica e quella malinconica dei due gruppi statuari costituisce un’importante ausilio interpretativo all’interpretazione dell’intento d’artista. Non che sia impossibile, volendo, individuarne degli altri…

Verso un dialogo e continuazione tematica che in effetti esiste, ed accresce il significato dell’opera, se soltanto ci fermiamo a guardare la produzione maggiormente pertinente nel lungo curriculum d’artista di Nina Beier (nata nel 1975) anch’essa temporaneamente collocata in un luogo molto significativo: il bagnasciuga sulla spiaggia di Nieuwpoort, in Olanda, dove le maree lambiscono dal 2020 le doppie coppie di zoccoli poste a sostenere l’altrettanto significativa collezione dei suoi protagonisti di turno. “Uomini”, stavolta (Men) raffigurati in groppa alle cavalcature simbolo del potere dirompente attribuito ai membri di quel genere, da millenni incaricati di determinare il passo e l’obiettivo ultimo della società indivisa. Così l’equites antico romano, il cavaliere britannico medievale, il giocatore di polo ed il fantino si rincorrono di nuovo indifferenti ai contrastanti stili della propria raffigurazione, poiché l’autrice non si preoccupa d’alterare i singoli elementi costituitivi delle sue creazioni, bensì ne utilizza le reciproche differenze per accrescerne le opportunità di contrasto reciproco, come linee intersecate nella genesi di uno schema d’introspezione vigente. Energia e potenza, disperazione inconsolabile, ma anche una vasta e ininterrotta gamma di altri stati d’animo ragionevolmente effimeri, suscitati nella maggior parte dei casi in maniera maggiormente indiretta nell’animo dei suoi fruitori, tramite l’impiego di strumenti concettuali dalle provenienze imprevedibili e discordanti. Così come racconta entusiasticamente nelle sue interviste, in cui si mostra “all’opera” cercando tra i vasti cataloghi di eBay, alla ricerca di singole categorie di cose da integrare nelle proprie installazioni cariche di un imperturbabile surrealismo latente. Come nelle gabbie per uccelli con all’interno composizioni di piatti e porcellane danesi dei primi del Novecento (Empire, 2019) o nei lavandini coricati su un fianco, con sigari cubani che fuoriescono dal foro degli scarichi (Plug, 2021). Verso la ricerca di quell’attimo “vibrante”, come lei stesso ama definirlo, in cui l’osservatore viene trasportato fuori dal suo mondo, nel tentativo di raggiungere un prezioso attimo di comprensione finale, capace di espandere per pochi attimi la portata della propria coscienza. Un obiettivo, quest’ultimo, che si realizza nella lunga serie di opere performative iniziate nel 2015 con la mostra Anti-Ageing ad Oxford, consistente in stanze lussuose di appartamenti o alberghi dentro cui persone reali, o animali, si trovavano collocate in situazione statica ed apparentemente immutabile, intenti ad aspettare il realizzarsi di un’imprescindibile condizione liberatoria: l’asciugatura della vernice, la maturazione della frutta, l’inizio di un programma televisivo. Risalendo nel catalogo alla scena più terribile e frequentemente riproposta dell’opera Tragedy (2011) in cui un cane addestrato giace fingendo di essere morto al centro di un tappeto persiano per alcuni minuti, contagiando apparentemente ogni singolo avventore del museo con il suo stato d’immobilità latente, mentre il tempo sembra rallentare fino al ritmo inverosimile della geologia terrestre.

Non è propriamente difficile, nel moto ricorsivo dei performers al galoppo sulle loro belve, individuare il singolo momento gestuale in cui un punto di vista soggettivo diventa leggenda. Destinata ad esser tramandata come il codice di tanti cavalieri, alle prese con gli ostacoli che interrompono l’ordinata savana degli eventi.

Un ruolo in qualche modo epico e trascinante attribuito alle creature del regno naturale, quest’ultimo, che ricompare anche nell’impiego reiterato dei guardiani leonini in diverse altre creazioni della Beier, tra cui l’iconico All Fours (2022) nel quale una troupe di ballerini, principalmente donne ma anche qualche uomo, esegue figure plastiche ad un ritmo rallentato, mentre si trovano a cavalcioni delle statue marmoree equidistanti all’interno di una vasta sala rigorosamente priva d’arredi. In netta contrapposizione con l’installazione “The Guardians” in cui statue feline simili sono state disordinatamente coricate sul fianco sopra il tetto della fabbrica torinese della FIAT, l’iconico Lingotto, presso un letto ghiaioso dove dovranno essere lambite e connotate dall’apporto corrosivo degli elementi.
Un’evidente e dolorosa presa di coscienza, quest’ultima, del prosieguo verso l’entropia di ogni singola opera d’artista, anche se iniziata col reimpiego e la rinascita di oggetti che hanno superato il termine del proprio ciclo d’utilizzo principale. Poiché non c’è Alpha senza Omega e non può nascer nulla, che non sia già implicitamente condannato alla disgregazione o rimozione dal suo originale contesto d’appartenenza. Così ancora una volta, sul vistoso palcoscenico dello High Line plinth (piedistallo) l’opera di Beier dovrà essere sostituita da qualcosa di nuovo al termine di questo mese d’aprile, uno spettacolare albero rosso fuoco creato dalla svizzera Pamela Rosenkranz, il cui significato potrà essere l’oggetto di un’approfondita trattazione futura. E chi può dire se, o dove, queste donne e bambini ritrovati verseranno i fiumi di lacrime che hanno caratterizzato scrosciando il loro prolungato attimo di gloria…

Lascia un commento