Crolla tra le fiamme in Russia il gran castello apotropaico del Covid

A fronte dell’introspezione retroattiva ed approfondite analisi oggettive, non sussistono particolari dubbi: per chi lavora tutti i giorni da un progetto, sia di tipo artistico che funzionale ad uno scopo logico e risolutivo, la figura crudele ed imponente del demonio trova posto nelle più incrollabili minuzie, tutti quei dettagli che costituiscono gli ostacoli, attraverso vie tortuose, per il raggiungimento dell’obiettivo finale. Ma secondo Nikolay Polissky, l’artista russo che nasce come pittore a Mosca e si realizza a partire dal 1989 costruendo il Villaggio di Babele presso la comunità di Nikola-Lenivets nella regione di Kaluga, il Diavolo alberga anche nel quadro generale delle cose. Quella condizione, prolungata e opprimente, che ha portato le nazioni a chiudersi come le foglie di una felce, posta sotto assedio dall’assalto reiterato di un qualcosa di minuscolo e insistente. Sanguinario; sferoidale; bitorzoluto; capace di proteggere se stesso oltre ogni limite apprezzabile dagli apprezzabili confini del raziocinio. “Come un re cannibale sopra il suo trono” afferma nelle sue interviste, girate dalle agenzie internazionali, riferendosi forse alla figura folkloristica di Koschei, l’antagonista d’innumerevoli fiabe pre-cristiane, che nascondeva la sua anima in un ago, contenuto all’interno di un uovo, trasportato in cielo da un’anatra capace di sfuggire ai cacciatori. Horcrux dall’alto del quale, come altri stregoni oscuri dei nostri tempi, era solito opprimere la popolazione, rapirne i figli e le figlie, ampliando i confini del suo terribile dominio. Almeno finché un eroico bogatyr, il “guerriero itinerante” della tradizione slava, non giungesse fino all’ingresso della sua torreggiante residenza; armato di una torcia magica, per arderla fin quasi dalle fondamenta nascoste nelle profondità del mondo.
Una visione apocalittica, e catartica, quella offerta da una simile visione, che si vive nuovamente ogni anno in occasione della quaresima ortodossa, tramite la festa popolare della nostra signora Maslenitsa o “settimana del burro”. L’ultimo momento di svago senza la precisa disciplina imposta dalla tradizione, quando il popolo s’incontra celebrando ciò che è stato un tempo, fino all’evento culminante della costruzione, e successiva distruzione, di un’effige in rami e sterpaglia secca rappresentante i molti tentacolari mali della nostra Era. Ma c’è un qualcosa di diverso, e proporzioni decisamente maggiori, nell’annuale interpretazione offerta di tale pratica presso il regno dell’artista Polissky, come esemplificato dalle riprese in campo lungo dello spaventapasseri in questione, in realtà configurato nello specifico come un vero e proprio edificio alto 25 metri. Con tre torrioni disposti attorno ad uno spazio centrale, appuntiti come lame di altrettante spade, lungo cui risalgono le fiamme tramite l’espletamento di un copione ben preciso. E di certo, qualcuno potrebbe intravedere in tale prassi l’ispirazione diretta sulla base del festival statunitense del Burning Man, le cui installazioni effimere secondo il metodo espressivo della land art ritrovano del resto corrispondenza nelle molte meraviglie costruite presso il parco di Nikola-Lenivets. Ma c’è qualcosa di molto più personale, ed a suo modo pregno, nella precisa interpretazione offerta di quei modelli presso l’innevato spazio del momento corrente, ricolmo per l’occasione di uno sguardo carico d’ottimismo verso il futuro ancora oberato d’incertezze. L’alba di un nuovo giorno, in cui il calore dell’astro solare si accompagni a quello della forza naturale sottomessa al volere dell’uomo, quel fuoco per sua massima eccellenza, che è trasformativo ed a suo modo altrettanto fecondo. Perché carico di un profondissimo significato ulteriore…

Alcune delle opere del parco di Babele, come “Universo personale n. 5” di Dmitry Zhukov (2015) parlano del dramma personale di coloro che sfuggono alla stringente interconnessione della comunicazione contemporanea. Avvolgendosi in un “nodo” che li isola dai propri simili in attesa.

Il tutto come parte della serie d’installazioni ed iniziative facenti parte dell’evento annuale di Archstoyanie, usato da Polissky come pretesto per riunire i creativi della sua regione agli artisti provenienti da tutta la Russia, con il fine di confrontarsi e trovare un terreno comune su cui organizzare le proprie iniziative future. Benché sia chiaro come nel caso appena condotto al suo ultimo ed ardente coronamento, l’appeal comunicativo possa trascendere ampiamente il suo artistico ambiente di provenienza, attraversando intonso l’etere per portare a tutti un vago ed aleatorio messaggio di speranza. Che possiamo agilmente riassumere nell’affermazione proverbiale: “Non ci credo, ma…”
La pubblicità è parte dell’equazione, quindi. E come potrebbe essere altrimenti? Per un luogo costruito letteralmente dal nulla e che soprattutto negli ultimi mesi è sembrato prossimo a farvi ritorno, dato il calo drastico delle persone disposte a mettersi in viaggio sotto l’autocratico regno del crudele re cannibale Koschei. Quel Villaggio dal nome prepotentemente biblico, dove lavorando verso la realizzazione della sua visione d’artista, l’autore moscovita ha coltivato e portato alla realizzazione tangibile una vasta varietà di opere, alcune delle quali chiaramente destinate a durare nel tempo. Vedi il caso del suo “Bobur” (2013) una struttura in legno composta da una serie di tubi o tromboni, realizzata con materiali raccolti esclusivamente sul posto, che ispirandosi in maniera programmatica al museo d’arte moderna di Parigi Georges Pompidou vuole ricordare la creazione naturale di un qualche tipo d’animale o insetto, offrendo nel contempo un punto di riferimento significativo per il consorzio dei suoi fruitori umani. O la “Mente universale” (2012) ovvero il cervello visitabile costruito in legno, con maestoso colonnato d’ingresso, che vuole connettere la mente degli artisti alla visione collettiva della drammatica epoca corrente, già prima che il Covid complicasse ulteriormente le cose. Un tema ripreso anche nelle opere di coloro che hanno partecipato alla costituzione del parco artistico, vedi Vasily Shchetinin con il suo “Toro dorato”, una riproposizione del celebre bovino di Wall Street capace di diventare, con la giusta prospettiva, una vera e propria imbarcazione o caravella, con la finalità di traghettare i popoli oltre la tempesta della crisi economica che mantiene in scacco ormai da almeno un mezza generazione.
Commenti sociali e significati altamente simbolici dunque, per un tipo d’espressione quasi monumentale che continua tuttavia a configurarsi, secondo le precise direttive del fondatore, mediante modalità spontanee e risorse di facile procura, il prodotto di un ritorno volontario alla natura e le sue naturali implicazioni di contesto. Ed è anche una funzionalità ripresa direttamente dalla corrente nata tra il 1967 e ’68 della land art americana, che trova la sua più naturale realizzazione nella tipica attrazione artistica a bordo strada, concepita per attrarre l’attenzione dell’automobilista e se possibile, portarlo ad una sosta chiarificatrice. Almeno finché, tramite l’acquisizione di un valore analitico nei confronti dell’epoca e la situazione correnti, simili strutture non iniziarono ad invadere gli spazi urbani a partire dai quartieri museali, tendendo ad offrire l’ottimo riflesso di uno specchio offerto a vantaggio della comunità indivisa.

Il Pompidou di Polissky appare molto diverso da quello di Parigi, architettonicamente assai più funzionale a quello che potremmo definire il suo scopo “di superficie”. Ma operare per l’arte, dal punto di vista di un edificio, non è soltanto offrire spazi per esporla e proteggerla. Quanto accrescerne i valori di contesto.

C’è tuttavia qualcosa di ancor diverso, nel gesto magico portato a compimento nel bruciore del frangente ricomparso sulle pagine digitali di mezzo mondo, che potremmo individuare come valido, o persino necessario, per condurci in salvo oltre le pandemiche regioni del pessimismo. Forse il desiderio di distruggere? Annientare tutto quanto? E dopo il crollo del castello, costruire un qualche cosa di nuovo. Che non sia, soltanto, la stolida riproposizione dei modelli precedentemente acquisiti.
Un messaggio che rinasce dalle fiamme come l’alta cresta di quell’araba fenice incoronata. Il cui epico ornamento sopra il capo, fulgido grazie alla luce della nuova Alba, potrà anche rivelarsi conforme ai presupposti di un apprezzabile Bene risolutivo. Ma non potrà in alcun modo, secondo le precise leggi della comunicazione digitale e la natura stessa, fare a meno di essere altrettanto virale. Perché come diceva Dobrynya Nikitich, l’uccisore del mostruoso drago tricefalo Chudo-Yudo: “Per annientare una grande bestia, devi pensare allo stesso modo. Essere come lei. Agitare la tua coda ricoperta d’aculei. Sputare fuoco e ardenti fiamme, dagli occhi, la bocca ed il naso…”

In qualche modo ironico che in occasione dell’evento, complici le gelide temperature, una grande quantità di persone abbiano finito per radunarsi assieme a distanza estremamente ravvicinata. Molte delle quali, per quanto possiamo facilmente notare, totalmente prive di dispositivi di protezione personale (a.k.a. “mascherine”)

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