Fluida e non del tutto prevedibile, risulta essere la strada che conduce alla grandiosità nella creazione degli ambienti architettonici con uno scopo estremamente definito. Così alto e ponderoso, sormontato da una letterale foresta d’antenne, pieno di finestre… Sono qualità di tipo prettamente urbano, che figurano alla base di una lunga ed ampiamente coltivata scuola di pensiero. Ma fuori luogo esse possono apparire, come treni, strade, piste di decollo nel bel mezzo della giungla balinese. Dove la realizzazione di una certa misura spirituale, nell’umana progressione dei giorni, può essere considerata il fondamento e la chiave stessa di un diverso tipo di realizzazione spirituale, personale, pubblica e privata. Della fondamentale tipologia impiegata, in un’ampia gamma di contesti, come base dell’insegnamento stesso, ovvero sfondo di un’educazione delle prossime generazioni che non sia del tutto conforme, a linee guida provenienti dalla parte della solida della montagna. Bensì fluida ed implicitamente scorrevole, alla maniera di un grande fiume che può essere deviato all’occorrenza. Uno studio di materie forse non così diverse sulla base delle aspettative, ma filtrata dalla situazione stessa in cui vengono impartite, o dettate per osmosi, ad un’intero gruppo d’individui che potrebbero anche diventare “i leader di domani”. Frase inflazionata, forse. Che abbiamo già sentito un alto numero di volte. Eppure sembra possedere, quando pronunciata dall’ex disegnatore di gioielli canadese John Hardy e sua moglie e collega Cynthia, un qualche tipo di significato segreto ed ulteriore, soprattutto nelle multiple interviste condotte entro i confini del complesso architettonico che si ha finito per configurarsi come lascito alle prossime generazioni più importante e significativo della loro esistenza. Sto parlando della Green School, ovviamente, prestigiosa (e costosa) istituzione scolastica privata presso una delle isole più culturalmente rilevanti e caratteristiche dell’Indonesia, con studenti multiculturali, un corpo docenti multiculturale ed il più notevole campus d’edifici, costruiti secondo linee guida che s’integrano perfettamente con un particolare modo di vedere l’esistenza passata, il tempo che stiamo vivendo ed un probabile futuro del mondo. Tutti rigorosamente, interamente e senza eccezione, grazie a un materiale che idealmente simboleggia l’Asia nella mente collettiva delle persone: il bambù stesso, erba più alta ed omni-pervasiva del pianeta Terra.
Per un effetto finale che compare la centro di ogni materiale comunicativo dell’azienda (perché dopo e nonostante tutto, pur sempre di questo si tratta) a partire dal “Cuore” stesso, il nome dato all’edificio centrale costruito al centro della cittadella nata a partire dal 2008, con forma tanto caratteristica e riconoscibile, persino tra i molti costrutti adiacenti, da essere successivamente diventato il logo stesso dell’intera Green School (Scuola Verde) idealmente il prototipo di quello che dovrebbe diventare un nuovo (o ritrovato) tipo e metodologia d’arricchimento pedagogico per le prossime generazioni, frutto di un particolare metodo, ma soprattutto il fondamentale rispetto per l’ambiente che potrebbe, idealmente, conservare intatto il poco che ci resta delle risorse imprescindibili necessarie a preservare l’attuale stato delle cose. Così che permane molto poco, d’industriale ed impersonale, nel complessivo aspetto delle molte aule disseminate sul vasto terreno acquistato dalla coppia, ciascuna essenzialmente una struttura indipendente, costituita da poche aree chiuse con pannelli rimuovibili, ma soprattutto vaste aree aperte alla densa giungla che si spinge fin sopra i vialetti costruiti rigorosamente in pietra locale, così come localmente sono stati prelevati i molti fusti incrociati e sovrapposti di Dendrocalamus Asper, la specie di bambù gigante alta fino a 20-30 metri, utilizzata come principale materia prima del progetto decennale. Ancor più resistente del cemento e parità di dimensioni, e proprio per questo adattabile alla costruzione di alcuni degli edifici in legno più estesi del mondo, tra cui la nuova ed incredibile palestra denominata The Arc, costruita come un vero e proprio padiglione dalle aguzze punte simili a cime di cipressi, ma interconnesse da una versione ultra-perfezionata del tradizionale metodo per costruzione dei tetti con foglie di canna da zucchero e palma, alang alang, che si adatta facilmente all’estensione e funzionalità di una quasi-cattedrale. Ove vige la regola di un’espressione personale ragionevolmente libera, poiché questo è il fondamento stesso, nonché ultima finalità, di una così moderna e prestigiosa istituzione…
La Green School nasce come più importante investimento della grande quantità di risorse economiche accumulate già da John Hardy e la sua prima moglie Penny Berton, nonché loro figlia Elora, che a partire dal 2004 ha offerto il suo contributo dal punto di vista del design e le significative competenze architettoniche, acquisite durante i lunghi anni di studi trascorsi negli Stati Uniti ed in Canada, presso il collegio artistico della Idyllwild Arts Academy e poi l’Università delle Belle Arti di Tufts. Ciononostante, lungi dall’essere il prodotto di una singola mente, il campus della Green School fu la complessiva risultanza, negli anni immediatamente a seguire, di una grande quantità di personalità creative, inquadrate nelle compagnie ingegneristiche ed operative create dichiaratamente a tale scopo, tra cui la Fondazione Meranggi e la PT Bambù. Oltre alla IBUKU (da IBU – Madre (Natura) e KU – Mia) fondata da Elora Hardy e che avrebbe continuato ad applicare le specifiche metodologie e soluzioni tecniche del progetto paterno ad un’ampia selezione di edifici destinati a fare la loro comparsa negli ultimi anni lungo l’intero territorio balinese ed anche il resto dell’Indonesia, tra cui un ristorante, un complesso di alloggi, una seconda scuola a Sumba per categorie disagiate. Dimostrando la flessibilità della serie di valori perfettamente esemplificati dalle prime e più internazionalmente note creazioni, tra cui l’auditorium Mepantigam, supportato da due archi larghi 15 metri, o la notevole aula della tartaruga, spazio di studi più volte ricostruito e tra i più amati dagli studenti della scuola verde. Senza poter tralasciare l’alto ponte del Millennio, costruito come contributo infrastrutturale alle sette comunità rurali o banjar (villaggi) che si trovano nell’area circostante il suolo scolastico, e l’attraversano senza problemi nell’assolvimento delle proprie mansioni quotidiane. Il che rientra nel messaggio di fondamentale integrazione ed inclusività promosso dalla famiglia dei suoi amministratori, assieme a un gruppo di docenti provenienti da ogni angolo del mondo, con l’esplicita finalità di poter seguire i propri specifici valori e visioni in materia d’insegnamento. L’intera Green School, dal punto di vista ideologico, si dichiara infatti fondata sul sistema della pedagogia antroposofica di Rudolf Steiner o metodo steineriano, spesso accomunato a quello Montessori ma che presenta alcuni significativi punti di distinzione. Tra cui l’importanza niente meno che primaria data allo sviluppo di un senso critico e capacità nel campo dell’arte, oltre all’assenza di voti o valutazioni formali, nell’interesse di non rallentare la crescita del bambino suddivisa in oggettivi cicli della durata di 7 anni. Ma senza mai dimenticare, in aggiunta ad un simile approccio, il punto fermo ricorrente di materie finalizzate all’elaborazione di un preciso piano ideologico, fermamente considerato come l’unico possibile per evitare la più volte paventata estinzione dell’intera collettività umana.
Così riciclo, ingegneria verde, soluzioni ecologiche sono al centro del curriculum di studi, che comprende la coltivazione da parte di ciascuno studente di un appezzamento di terra autogestito, accompagnato dalla possibilità di vivere all’interno di un’intera istituzione capace di operare con un’impronta carbonica particolarmente ridotta, se non prossima allo zero. Finalità di certo favorita dal clima caldo e tropicale dell’isola balinese, ma anche da accorgimenti tecnologici avanzati e sperimentali, come il generatore idroelettrico a vortice, creato deviando uno dei molti fiumiciattoli che attraversano la scuola. Mentre l’essenza stessa dell’intera serie delle “aule” mostra evidenti metodi di sostenibilità e riduzione dell’impatto paesaggistico, con il cemento utilizzato unicamente nelle fondamenta e l’opportunità di rimuovere potenzialmente ogni parete o tetto al di sopra del livello del terreno, qualora in un futuro remoto dovesse cessare l’attività della scuola. Una concessione valida e innegabilmente meritoria, per quello che resta un importante segnale in merito all’effettiva adattabilità di particolari scuole architettoniche in forte crescita nel panorama internazionale.
Ciò detto, il principale ostacolo che resta a un’effettiva divulgazione omni-direzionale dei valori promossi dalla famiglia Hardy e il prezzo non propriamente popolare necessario a far salire i propri pargoli su un così nuovo ed importante treno. Con una retta annuale che si aggira tra i 20.000-30.000 euro annuali a seconda dell’età e risulta perciò largamente al di fuori delle possibilità finanziarie di quegli stessi addetti ed operai locali che, veicolando molti millenni di sapienza architettonica pregressa, hanno concesso il proprio contributo ad una simile creazione duratura nel tempo. Il che può essere interpretato in varie possibili maniere, ma è forse soprattutto una risultanza dello stesso sistema economico che tali linee di pensiero tendono programmaticamente a voler demolire. Una precisa scelta di voler operare dall’alto, fornendo soltanto il meglio a quel gruppo di privilegiati che dovranno, un giorno, guidare il passo inarrestabile del cambiamento? O un più diretto intento di realizzare un certo grado di profitti? Che non è del resto in alcun modo una colpa, visto il chiaro intento di continuare a reinvestirli coerentemente alla missione programmatica di partenza…
Qualunque sia la chiave interpretativa, resta indubbio che la scuola verde di Bali costituisca un modello da tenere chiaro al centro dei nostri pensieri. Mentre pianifichiamo un piano possibile ma di sicuro niente affatto facile, per riuscire a riformare questo campo dell’insegnamento ormai stanco e irrigidito su scala internazionale. In base a valori non meno anacronistici di un dinosauro che dovesse trovarsi a spiegare, con la voce di Jack Black, il mutamento climatico alle Nazioni Unite.