1945: l’ultimo ruggito della rondine nei cieli di Berlino

Sembrò l’alba di un giorno uguale a tutti gli altri. Esattamente come avevano profetizzato poeti, musicisti e i nuovi sacerdoti di una religione ormai completamente inconsapevole del ruolo degli Dei. Poiché dopo l’ora del Crepuscolo di quel 18 marzo, più niente avrebbe avuto lo stesso significato che aveva acquisito nei lunghi, lunghi mesi ed anni di guerra. Il primo segno della fine fu il rumore che cresceva in lontananza, capace d’indicare chiaramente la venuta delle dame in armi ed armatura, i cui nomi suggerivano la provenienza d’Oltremare: Leading Lady, Tailwind, Sweet La Ronda, Calamity Jane, in groppa a draghi alati con un carico di bombe sufficiente a radere completamente al suolo una città. Accompagnate, come altrettante api regine, dai più piccoli e scattanti fuchi che potessero desiderare in quel contesto di una vittoria fosca e non del tutto priva di rimpianti: P-47 “Thunderbolt” e l’ultimo modello di Supermarine Spitfire, pochi istanti prima liberati da quel peso addizionale dei serbatoi esterni, che potevano finalmente trovare l’impiego al fine di accompagnare i massicci B-17 fin sopra il bersaglio, piuttosto che doverli abbandonare proprio nel momento del bisogno; e quel giorno, si sapeva, quei cannoni avrebbero sparato. Fino all’ultimo proiettile, nell’ultima e potenzialmente più importante tra tutte le loro battaglie.
Proprio mentre le numerose formazioni sovrapposte, composte da un numero complessivo di oltre 1500 aerei, raggiunsero l’apice del tragitto segnato sulle loro carte di navigazione, tra le onde radio rimbalzò il segnale: “Aprire i portelloni delle bombe, prepararsi all’ora della fine” di una nazione che voleva essere un impero, di una dittatura ingiusta, dell’ultimo e più doloroso dei tre Reich. Ma la guerra, questo è noto, può riuscire a rimuovere ogni significato ai concetti ed alle ideologie che ne avevano causato la deflagrazione. Finché all’ora e nel momento della verità, lo scontro tra individui in uniforme si trasforma unicamente in un confronto tecnologico ed ingegneristico, finalizzato a dimostrare la superiorità di una particolare idea. Poniamo il caso, ad esempio, che l’approccio al volo non dovesse sottintendere a partire da quei tempi, e per quelli ancora da venire, nessun tipo di elica rotante situata innanzi al muso dei velivoli o nel punto centrale delle loro ali. Bensì un nuovo tipo di motori, capaci di convogliare e spingere l’aria stessa mediante la soluzione del turbogetto. Ne avevate mai sentito parlare? Sentite quell’acuto grido di vendetta? Conoscete la leggenda di Schwalbe, la rondine grigia?
Molto può essere detto, e criticato, del rapporto con l’arte praticato dal regime nazista, spesso usato al fine di veicolare specifici messaggi o discutibili idee (übermensch, über alles, etc…) benché resti innegabile come gli addetti alla propaganda sapessero ingrandire e pubblicizzare la figura dei loro eroi. Un approccio spesso usato con successo per ispirare le truppe sui numerosi fronti aperti dal loro comandante in capo ed altre volte, fonte di un approccio assai particolare alla concezione d’implementi bellici di vario tipo. “Diffidate del venditore di sostanze stupefacenti” si usa del resto dire, “che fa uso della sua stessa droga” e resta indubbio che il supremo, asserragliato nel suo bunker sempre più profondo e inespugnabile, avesse ceduto più di una volta alle lusinghe delle cosiddette wunderwaffen, “armi delle meraviglie” capaci di ribaltare l’esito di una guerra che sembrava destinata a protrarsi fin troppo a lungo. Cannoni enormi, carri armati spropositati, sommergibili sfuggenti, razzi in grado di attraversare i continenti ed altre simili diavolerie, che se fossero state prodotte in quantità persino superiori, avrebbero infine dimostrato la propria utilità nell’influenzare il flusso degli eventi. Mentre i costi e la logistica, come qualunque specialista avrebbe avuto la capacità d’intendere, continuavano a limitarne l’impiego su vasta scala. Esiste tuttavia almeno un caso, nel vasto catalogo delle nebulose illusioni così continuamente attratte dalla figura hitleriana, di un velivolo talmente avanzato, così fuori dal contesto della propria epoca, che avrebbe riportato ben 700 vittorie, dal momento della sua tardiva entrata in servizio nell’estate del 1944. Del resto, di Messerschmitt Me 262 ne furono prodotti ben 1.433. E in quell’ora dell’ultimo conflitto quasi un anno dopo, sembrava che una valida percentuale dei superstiti avesse visto la sua base spostata proprio lì, presso i dintorni di una Berlino prossima a bruciare.

L’esperienza di pilotare un qualcosa che poteva sfuggire alle leggi stesse della fisica doveva essere, all’epoca, del tutto indimenticabile per i piloti. Lo stesso pilota e generale Adolf Galland ebbe modo di dire, a tal proposito, che il suo aereo “Sembrava spinto verso l’alto da un angelo” durante le prime prove del ’42.

Chiunque abbia un’idea per quanto vaga delle caratteristiche di un simile aereo, il primo caccia a reazione della storia umana nonché il frutto forse più fecondo delle molte sperimentazioni tedesche in materia di razzi, sa che il suo allestimento di maggior successo e con il nome proveniente dal più prototipico uccello primaverile aveva sopratutto un ruolo, e soltanto quello: distruggere le Fortezze Volanti B-17 americane. Facendo uso dei suoi impressionanti 8,8 kilonewton di spinta (equivalenti a 900 Kg/s) capaci di tradursi in una velocità massima di 878 Km/h; praticamente, il DOPPIO di qualsiasi altro aereo militare della loro stessa era. Una velocità tale che durante i primi casi del loro utilizzo i piloti, letteralmente, non sapevano come approcciarsi alle ordinate e lente formazioni dei bombardieri statunitensi, senza sorpassarle mancando di riuscire a infliggergli neppure un colpo. Finché le dottrine elaborate, in larga parte, dal famoso Distaccamento Sperimentale Operativo dell’Ekdo 262 a Lechfield, composto principalmente da piloti veterani di altri bimotori tedeschi come il Me Bf 110 ed il Me 210 non elaborarono un particolare avvicinamento dal basso, in grado di sorpassare alla velocità del fulmine la scorta armata, culminante quindi con una vertiginosa cabrata verso il ventre dei bombardieri, finalizzata a dare sfogo all’energia residua con tutta la rapidità offerta dalla loro sagoma con le caratteristiche ali a freccia. Per scatenare, quindi, tutta la potenza dei quattro cannoncini MK 108 montati nel muso appuntito, con un calibro 30 mm che assomigliava nei fatti a quello di un lanciagranate, la cui cadenza di fuoco relativamente bassa veniva compensata dall’effetto assolutamente devastante di ciascun singolo colpo che riusciva a colpire il bersaglio.
Ciò che restava, ad ogni modo, il vero asso nella manica di un simile armamento quasi anacronistico era la sua coppia di motori Junkers Jumo 004, progettati nell’ormai remoto 1939 da Anselm Franz e attorno ai quali, per tutto il resto della guerra, gli ingegneri del Reich avrebbero tentato in qualche modo di costruire un aereo. Finalità perseguita, in maniera per lo più parallela, dalle due grandi aziende della Messerschmitt AG e la Heinkel flugzeugwerke, finché la seconda, giungendo per prima alla meta, non propose il sofisticato bimotore con doppia coda He 280, ben presto dichiarato troppo complesso per essere costruito in serie. Mentre piacque molto ai committenti del progetto, e per loro tramite al “cervello supremo” di Adolf Hilter in persona, la proposta rivale del Me 262, costruito con un pratico progetto modulare che garantiva semplicità nel ripararlo e fabbricarne i ricambi. Peccato solo che quest’ultimo, al primo volo con gli attesi motori a reazione del luglio 1942, avesse famosamente esclamato “Ecco l’aereo da attacco rapido di cui avevo bisogno!” Ora un aereo che nasce con il ruolo di caccia e distruttore di bombardieri, sostanzialmente, presenta caratteristiche molto diverse da quel tipo di apparecchi concepiti per colpire una roccaforte a terra o i relativi carri armati. Così che, i piloti sperimentali dell’Ekdo 262 dovettero nei primi tempi adattarsi a colpire i loro bersagli nelle ripide picchiate che costituivano, nei fatti, l’unico modo per vederli al momento in cui sganciavano le proprie bombe. Il che li esponeva gravemente al fuoco nemico. Ci furono delle perdite, e la reputazione dell’aereo tardò a decollare. Fortuna che, almeno, per i loro aerei fu trovato un nome di battaglia dal suono adeguatamente terrificante per i suoi nemici: Sturmvogel, l’Uccello delle Tempeste. Per lo meno, l’aspetto propagandistico era stato completamente salvaguardato.

In questo filmato d’epoca, un Me 262 sembra essere abbattuto dal fuoco alleato. Più di un formidabile asso americano riuscì nell’impresa, inclusi Chuck Yeager e Drew B. Urban. Nel caso dei piloti da un livello di abilità normale, tuttavia, il proposito restava assai remoto.

Già verso il gennaio del 1945 tuttavia, epoca della costosa e problematica operazione Bodenplatte per la distruzione sistematica degli aeroporti avanzati costruiti dagli Alleati nel settore delle Ardenne, i tedeschi avevano finalmente compreso il ruolo ideale del Me 262, producendo quasi esclusivamente la versione Schwalbe dell’aereo, capace di gettare nello sconforto qualsiasi pilota di caccia alleati. Era stato calcolato dalle forze americane, ad esempio, come fossero necessari almeno 10 P-52 Mustang per abbattere un singolo jet tedesco, oppure un numero comprabile di aerei inglesi. Ciononostante, la rondine d’acciaio aveva i suoi problemi. La mancanza dei metalli rari e preziosi normalmente usati per costruire le turbine Juno erano diventati progressivamente più difficili da trovare con il progredire della guerra, finché il comando tedesco dovette accontentarsi di alternative scadenti alla base di numerosi guasti in volo, le cui conseguenze risultavano fin troppo facili da immaginare. L’aereo era inoltre molto costoso da mantenere e presentava dei consumi assolutamente impressionanti (35 litri al minuti) potendo vantare un’autonomia di appena 480-1050 Km dal punto di partenza. Così molti Me 262 furono distrutti non tra le alte nubi celesti, bensì mentre venivano, in maniera particolarmente prosaica, trasportati fino al luogo del conflitto mediante autoveicoli o treni. Il che potrebbe essere semplicemente un’altra dimostrazione, se mai ce ne fosse stato bisogno, che una guerra viene vinta ancor prima sul terreno logistico, piuttosto che nei campi di battaglia insanguinati. Se soltanto si potesse fare a meno di quest’ultima drammatica fase…
Nessuno di tali problemi, tuttavia, condizionò l’operatività degli aerei nell’ora del loro ultimo decollo nei cieli di Berlino. E quel 18 marzo del 1945 sarebbe stato ricordato, da entrambe le parti, come una delle più costose battaglie aeree della seconda guerra mondiale, sia in termini di vite civili che militari. Alcuni testimoni raccontano di come uno degli ultimi, e certamente il più grande raid sulla capitale tedesca, fosse diventato ben presto un vortice inestricabile di lamiere che precipitavano a terra, mentre i bombardieri venivano letteralmente fatti a pezzi dai potenti cannoni degli aerei a reazione. La maggior parte dei quali, inevitabilmente, caddero a loro volta vittima del fuoco di sbarramento e le manovre ben collaudate degli intercettori. Le bombe sembravano essere dovunque. Ben presto, un vasto incendio iniziò a diffondersi dal quartiere di Friedrichstadt verso la parte orientale della città, mentre tutti perdevano anche l’ultima residua speranza di mettere in salvo le proprie cose. 80.000 persone sarebbero rimaste senza casa. Era l’ora del crepuscolo, il Ragnarok finale. Il che significava che forse, finalmente, la guerra era stava per finire. Hurrah!

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