Il rombo di un cannone abbastanza grande da affondare la Crimea

Guardando con occhio critico agli stereotipi nazionali europei, è impossibile non notare come molti di essi derivino dall’esperienza critica di quei sei anni di guerra, il susseguirsi di battaglie noto come secondo conflitto mondiale. Ed è stranissimo notare come, nell’opinione degli esterni (prendiamo in analisi, ad esempio, gli americani) tutto quello che è avvenuto prima sembri scomparire, secoli e millenni di storia, permettendo di formarsi un’opinione unicamente sulla base di un breve, tragico ed intenso periodo forgiato nel sangue e nel fuoco. Così la Francia, identità di un popolo tra i più tenaci e saldi nelle proprie convinzioni, patria, tra le altre cose, dell’ultimo grande impero, viene tanto spesso associata indissolubilmente al fallimento della linea Maginot. È un’immagine così potente, un’idea che si trasforma nella rappresentazione ideale del più vecchio degli errori umani: “Non c’è nulla da temere, a patto di essere abbastanza preparati. Io conosco il mio nemico ed ho già vinto. Il mio cuore è in pace.” E di certo, trovandosi contro un’avversario che operava secondo metodi normali, la costruzione di una linea di forti imprendibili lungo il confine con la Germania, al fine d’instradare il loro esercito lungo un passaggio obbligato attraverso il Belgio neutrale, appariva come un’idea perfettamente risolutiva. Che nel caso di un eventuale attacco, avrebbe dato il tempo all’esercito di organizzarsi e montare una resistenza sul terreno a se più familiare, dove ogni spostamento rapido era sostanzialmente impossibile. Ma quando nel 1940, con l’implementazione del piano Manstein, l’atteso assalto dei tedeschi ebbe finalmente inizio, nessuno sapeva realmente cosa ciò avrebbe comportato. L’effettiva potenza che poteva essere schierata da un paese industrializzato moderno in quegli anni, assieme alla mobilità impressionante di un esercito meccanizzato dotato di supporto aereo, artiglieria motorizzata e panzer. In breve tempo, la Wehrmacht irruppe attraverso la densa foresta delle Ardenne, avanzando senza opposizioni verso il cuore stesso di quel paese. Eppure sarebbe possibile affermare, senza deviare eccessivamente dalla verità, che quella particolare fase della guerra fu vinta ancor prima di cominciare. Presso le laboriose officine di Essen, dove Alfred Krupp, amico personale di Hitler, tardò nel consegnare il suo progetto più importante fino ad allora. Un singolo cannone che aveva il potere, in quel momento, di cambiare il corso stesso della storia.
Gustav era il nome del padre di Alfred che aveva lasciato in eredità il suo impero industriale alla figlia Bertha Krupp, finché una legge creata su misura dal führer non aveva rovesciato l’asse ereditario, ponendo il potere nelle mani di chi sapeva essergli fedele. Ma quello stesso nome, in effetti, era stato attribuito anche ad un progetto segreto, concepito per la prima volta negli anni 30 dal Comando Centrale, per costruire un’arma che avrebbe permesso ai tedeschi di fare il loro ingresso in Francia dalla porta principale. Finito nel dimenticatoio per la poca praticità e le ingenti risorse necessarie a realizzarla, finché nel 1936, durante una visita del dittatore baffuto ad Essen, non gli venne in mente di pronunciare l’emblematica frase “E del cannone gigante, che mi dite?” Il lavoro fu fin da subito, febbrile. Un’intero dipartimento delle vaste industrie della Renania Settentrionale, fatte funzionare col lavoro degli schiavi e attraverso un metodo che avrebbe un giorno lontano fatto condannare anche i loro dirigenti per crimini contro l’umanità, iniziarono la forgiatura e l’assemblaggio di quella che rimane tutt’ora l’arma con canna rigata più imponente mai costruita. Un’operazione che si rivelò essere più lunga e difficoltosa del previsto, o forse furono i piani d’invasione che, per ragioni politiche, subirono una drastica accelerazione. Fatto sta che al momento del secondo blitzkrieg (assalto lampo) dopo quello perfettamente riuscito in Polonia (1939) l’arma non era ancora pronta e questa fu probabilmente una fortuna, per Hitler, e una sfortuna per tutti i suoi nemici. Questo perché, come la maggior parte delle altre wunderwaffen (“armi miracolose”) prodotte nel corso della seconda guerra mondiale, il cannone Gustav era un’oggetto tanto formidabile sulla carta, quanto straordinariamente inutile dal punto di vista materiale del suo metodo di impiego. A cominciare dal suo peso: 1350 tonnellate. Nessuna strada, o ferrovia convenzionale, avrebbe mai potuto permettergli di muoversi fino alla linea del fronte…

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Come crolla l’edificio abbandonato più alto del mondo

La nozione generalmente acquisita, per un ampio catalogo di ragioni, è che ci voglia del coraggio per protestare in Russia. Ma ci sono determinati tipi di proteste che, indipendentemente dal contesto geografico, ne richiedono di più. O quanto meno, sottintendono che gli autori possano prescindere da un determinato tipo di timore ancestrale, quello per per i luoghi alti e pericolanti, dove il vento soffia ferocemente e la temperatura sembra abbassarsi per prepararti alla transizione verso un diverso livello della (non)esistenza. Il 23 marzo alle 4:45 di mattina, 11 attivisti si sono intrufolati oltre l’alta recinzione edificata dalla società Magnitogorsk “Lavori Speciali Esplosivi” eludendo alcune guardie di sicurezza, prima di guadagnarsi l’accesso per la loro via d’accesso alle cronache cittadine, per molte generazioni a venire. Trovando a quel punto, come ben sapevano, l’unica porta per la prima volta aperta, nella storia recente della città di Ekaterinburg, hanno iniziato la lunga salita della scalinata di cemento, originariamente facente specchio a quella esterna di metallo, ormai rimossa da tempo. Un giro dopo l’altro, l’aria si faceva sempre più fredda, mentre la luce sembrava arricchirsi di una tonalità insolita e surreale. Nel giro di alcuni minuti, superato l’anello di calcestruzzo inferiore, i temerari avevano raggiunto il tronco centrale, dotato di numerose finestre che dovevano offrire, nelle intenzioni dei costruttori originari, maestose vedute panoramiche della città. Mentre adesso prive di vetro, sibilando furiosamente per effetto delle correnti d’aria, respingevano ogni possibile desiderio di affacciarsi, per scattare delle eventuali foto. Il tempo continuava a correre e così facevano loro, su per le scale annerite dalle infiltrazioni d’umidità, fino al trascorrere di un’intera mezz’ora. Di certo, originariamente doveva essere stato previsto un ascensore, pensarono alcuni di loro. Finché una coppia di loro, poi 5, ed infine 9 decisero di aver fatto abbastanza. Le mani poggiate sulle cosce, il respiro affannoso e le orecchie tese a sentire la Guardia di Stato, che gridando avvertimenti intimava l’immediata resa, con uno sguardo rivolto ai loro compagni più giovani e aitanti che sembrava dire: “Andate avanti, li tratteniamo noi.” Ed infine, l’esaltazione di un brivido momentaneo. Di coloro che raggiunta la cima del cosiddetto “tubo di cemento” hanno aperto la botola verticale semi-saldata dal ghiaccio, per emergere, le braccia spalancate verso il cielo, sul tetto apparente del mondo: 220 metri di torre, sormontati da un’ulteriore struttura di metallo barcollante. La cima della futura casa della Tv nell’intera regione di Sverdlovsk, costruita a partire dal 1986 e mai portata a compimento, per una serie di piccoli contrattempi tra cui il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Trattenendo per alcuni istanti il respiro, quindi, i tre della protesta si diedero vicendevolmente la mano. Quindi il capo de-facto dell’intera operazione,  una volta indossati gli occhiali da aviatore che portava sulla fronte, controllò brevemente le cinghie del suo grosso zaino. All’interno del quale c’era, inutile dirlo, lo strumento principe di un base jumper: il paracadute.
Cadere verso il parco distante di Ulitsa Dekabristov, l’ombra della torre che indica la direzione come l’asse di una meridiana. Volare ben consapevoli, che al momento dell’atterraggio tutto quello che ci sarà ad aspettarti è l’arresto, una multa salata e potenzialmente, qualche giorno oppure settimana d’incarceramento. Ci vuole davvero un’ottima ragione per affrontare un simile futuro e del resto, non credete che un vero francese sarebbe disposto a farlo, per proteggere l’esistenza del grandioso simbolo di Gustave Eiffel? Certo, ad un critico d’architettura potrebbe sembrare piuttosto discutibile. Che a qualcuno venga in mente di paragonare gli aggraziati archi parabolici dettati dal gusto per l’eleganza e l’estetica  naturalista, riconoscibili come un fantastico logo, alla rovina brutalista di un’epoca ormai trascorsa, completamente inutile al benessere della sua città. Eppure in questo luogo al confine tra Europa ed Asia, dove esattamente 100 anni fa venne fucilata dai bolscevichi l’intera famiglia degli zar Romanov, 63 anni prima che proprio qui fossero fatti santi, la gente sembra affezionarsi alla propria storia. E considerarla ancor più importante, quando tutte le decisioni sembrano essere prese dall’alto, senza la possibilità di istituire raccolte di firme o influenzare il governo con dei referendum. Secondo la visione gerarchica tipica del paese più grande del mondo, che in assenza di una ferrea centralizzazione del potere, non potrebbe neppure lontanamente aspirare a mantenere la sua identità nazionale.
Un gesto di disturbo, eppure ricco del fascino di chi crede nelle proprie idee, persino poetico, a suo modo. Gli altri due attivisti, rimasti per 9 ore sulla torre nella speranza di ritardare la demolizione, dopo aver esposto una gigantesca bandiera russa, sono infine dovuti scendere, per il freddo e la fame. Ma a quel punto, circa 2.000 persone tra cui lo stesso sindaco li aspettavano al livello del suolo, dietro i picchetti della polizia, congratulandosi per il loro coraggio e quello che erano riusciti a fare. Nella vana speranza che per una volta, il popolo fosse riuscito ad influenzare direttamente il proprio destino…

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L’isola dei sogni dentro il vortice di spazzatura

Esistono ancora luoghi, in questo vasto mondo, in cui la mano dell’uomo non è ancora riuscita ad apportare modifiche profonde all’ambiente ed all’ecosistema? Probabilmente si, ma sono molto pochi. Alcuni dei punti più remoti dell’Antartico; la cima delle montagne più alte dell’Himalaya; le fosse più profonde delle vaste distese oceaniche. Tutte zone situate ai margini del catalogo biologico di questo pianeta, dove la vita animale o vegetale ha dei seri problemi a svilupparsi in quantità superiore alle poche dozzine di esseri viventi. E per quanto riguarda invece i luoghi OSPITALI… Vene subito in mente, esaminando un mappamondo, l’esempio degli atolli corallini dei mari del sud. Piccole terre emerse, sollevate dai sommovimenti tellurici del magma sotterraneo, fino ad un’altezza tale da resistere alla furia degli elementi. Punti d’appoggio per gli uccelli durante le loro migrazioni, così come lo erano stati, in epoca più antica, per le trasferte delle coraggiose canoe dei polinesiani. Abitati da loro in qualità di colonie rigorosamente non indipendenti, di una catena di isole che conduceva, in sequenza ascendente, fino ai centri abitati di veri e propri arcipelaghi le metropoli della loro civilizzazione. Eppure, basta una rapida scorsa al catalogo di tali luoghi, per scoprire il fato a cui sono andati incontro nella maggior parte dei casi. Quello con la base militare, quello usato per i test atomici, quello dalle cui dorate spiagge sorge il ponderoso edificio di un magnifico hotel. Per non parlare dei numerosi esempi dati in concessione, da amministrazioni statali facenti capo a poche dozzine di persone, a qualche miliardario in cerca di un’improbabile casa per le vacanze. Al punto che ad oggi, nell’opinione dei naturalisti, ne restano soltanto due che possano definirsi ragionevolmente integri. Uno è Aldabra, nell’Oceano Indiano, severamente protetto dall’UNESCO e dalla Fondazione delle Isole delle Seychelles. L’altro, invece, è Henderson Island.
Se c’è una fortuna di questo luogo, scoperto per la prima volta dall’occidentale Pedro Fernandes de Queirós nel 1606, e poi di nuovo nel 1819 dal capitano inglese delle Indie Orientali, James Henderson, da cui prende tutt’ora il nome, è la sua sostanziale inutilità. Dotata di un’unica spiaggia vera e propria, mentre il resto della costa è occupata da alte ed inaccessibili scogliere, con una singola fonte d’acqua dolce ed un suolo letteralmente impossibile da coltivare, l’unico sfruttamento sostenuto che essa ha dovuto sostenere è stato quello della più prossima comunità umana sull’isola di Pitcairn situata 193 Km più ad ovest, i cui abitanti si recavano un tempo fin qui per prelevare la legna degli alberi del miro e del tou. E benché si ritenga che un tale luogo, rispetto al suo aspetto preistorico, abbia perso parte della sua biodiversità a seguito dell’introduzione accidentale del ratto polinesiano, la natura relativamente poco aggressiva di tale specie ha qui permesso la sopravvivenza di ben quattro specie endemiche di uccelli e un grande numero di insetti e gastropodi del tutto unici al mondo. Per non parlare delle dieci specie vegetali uniche che si aggiungono alla comune flora del Pacifico del Sud. Sarebbe perciò del tutto evidente, anche ad occhi inesperti, la maniera in cui questo atollo di appena 37 Km quadrati, di forma pressoché triangolare, esista in una sorta di paradiso, in cui nessuna sinergia nociva ha potuto arrecare danni irreparabili di significativa entità. Se non fosse per un piccolo, trascurabile dettaglio: presso l’isola di Henderson, si trova la maggiore concentrazione di spazzatura in plastica di qualsiasi altro ambiente terrestre. In uno studio scientifico dell’Università delle Hawaii, Exceptional and rapid accumulation of anthropogenic debris on one of the world’s most remote and pristine islands di Jennifer L. Lavers e Alexander L. Bond, si parla della scrupolosa analisi condotta lungo l’intera estensione del remoto recesso oceanico, la quale ha condotto a numeri letteralmente da capogiro: 671,6 oggetti in media per metro quadrato, prendendo in considerazione quelli sepolti fino a 10 cm di sedimenti. Con una quantità totale di 37,7 milioni ed un peso complessivo di 17,6 tonnellate, in forza di un accumulo giornaliero di ulteriori 26,8 oggetti. Nella più alta percentuale frammenti non più identificabili, ma anche granuli di resina per uso industriale, corde o fili da pesca, tappi di bottiglia e coperchi, provenienti, nei casi in cui è stato possibile comprenderlo, principalmente da Cina, Giappone e Cile. È quasi come se il pilota di una chiatta estremamente determinato, facendo la spola nei porti dei tre paesi, avesse fatto tutto quanto era in suo potere per sporcare al meglio delle sue possibilità uno degli ultimi santuari naturali di questa Terra. Ed in effetti, da un certo punto di vista, è andata esattamente così. Soltanto, che non si trattava di un traghettatore UMANO…

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L’acutezza di una lama forgiata con la carta stagnola

Quando si osserva uno YouTuber che realizza un video dimostrativo pratico in cucina, generalmente, ci si aspetta che il suddetto materiale si riferisca in qualche maniera alla sfera della gastronomia, o conduca comunque a un qualcosa di commestibile in caso di estrema necessità. E in effetti Kiwami Japan, misterioso autore che probabilmente diffonde il frutto del proprio agire anche sul portale del suo paese Nico Nico Douga, ha in precedenza lavorato con la pasta, la cioccolata nonché il particolare pesce secco noto come “cibo più duro del mondo”, katsuobushi o bonito di tonnetto striato. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, tuttavia, piuttosto che puntare a una varietà di ricette, il suo obiettivo è sempre stato il medesimo, ovvero la creazione di un qualcosa di periferico, purché importante ai fini della buona tavola: un coltello di ottima qualità. È del resto particolarmente sentito, nella cultura del Sol Levante, il ruolo preminente riservato al più nobile degli strumenti per preparare il cibo, spesso tramandato di genitore in figlio e così via talmente risulta essere elevata la sua qualità costruttiva, ed eccellente il metallo di cui è stato costruito. Ma le usanze a tavola definiscono le aspettative delle persone. E nella maggior parte d’Asia, di contro non è tipico che a tavola si disponga di null’altro che un paio di bacchette, una ciotola ed al massimo, in determinati casi, un cucchiaio. Ciò determina, in determinati casi, l’esistenza di un problema: che dovrebbe fare la persona per cui, momentaneamente, è impossibile acquistare un coltello presso la bottega del fabbricante della meraviglia in hagane, l’acciaio tradizionale ripiegato su se stesso come la pasta sfoglia dei samurai? Perché in definitiva, tutto quanto può tagliare un pomodoro. Basta volerlo con sufficiente convinzione, disponendo degli strumenti giusti per realizzare l’idea.
Nell’ultimo video dell’eclettico autore, pubblicato giusto ieri, tuttavia, è palese che egli riesca a realizzare il suo obiettivo migliore. Non più perseguire la creazione di un qualcosa di utile le prossime due o tre volte, prima di finirgli nello stomaco tra la diffusa ilarità generale, bensì un effettivo attrezzo che riesce a convincere quanto meno lo sguardo, riuscendo a svolgere adeguatamente lo scopo che lasciava intendere la sua forma. L’idea è del resto semplice, ma geniale, e gli permette di sfruttare una sostanza appartenente alla categoria ideale dei metalli. Quello proveniente, per l’appunto, da un rotolo di carta di alluminio, generalmente usata per conservare il cibo o cuocerlo in maniera più netta ed uniforme. Fin troppo spesso ci dimentichiamo dei complicati processi industriali che si trovano alla base degli oggetti di uso comune, e con esse delle straordinarie doti di un metallo tanto duttile, un tempo straodinariamente difficile da estrarre ed isolare. Finché il chimico francese Henri Étienne Sainte-Claire Deville, inventando la riduzione diretta tramite processo elettrolitico, non lo rese tanto comune da permetterne l’impiego in aeronautica, prodotti di consumo e addirittura, ogni volta se ne percepisca la necessità, applicazioni usa e getta in cucina. Ma forse neppure lui aveva mai pensato che si potesse arrivare a questo… Senza lasciare spazio neanche ad una breve introduzione, il creativo misterioso inizia subito il suo primo tentativo, srotolando il proprio rotolo e provando, se possibile, a plasmarlo inizialmente con le mani. Osservando il risultato non propriamente ideale, ben presto si rende conto che esiste un metodo migliore. Allora prende un secondo rotolo, e con il manico di un martello espelle il tubo di cartone all’interno. Quindi dispone l’oggetto sopra una  morsa-incudine, ed inizia ad appiattirlo con una serie di colpi attentamente mirati. A fine di ammorbidire e plasmare al meglio la sua creazione, a metà dell’opera la pone brevemente sui fornelli, facendo affidamento sulla temperatura di fusione piuttosto bassa del materiale in questione, prima di passare finalmente al momento cruciale del taglio della billetta (lingotto da forgia).

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