Regina degli Oceani, possente dominatrice di ogni cosa costruita per sedare l’epoca dei conflitti mai sopiti, la pesante corazzata era ormai da tempo il simbolo del potere delle grandi nazioni. Quasi due migliaia di uomini a bordo in grado di difendersi da ogni tipo di minaccia, mentre manovravano cannoni con il calibro bastante a radere al suolo un’intera regione costiera. Ma come lo scintillante uomo d’arme medievale lanciato al galoppo contro un nido di balestrieri, la classe di navi più formidabile creata nella storia sarebbe andata incontro in un momento topico al più subdolo e inveterato dei nemici: il trascorrere del tempo e il conseguente mutamento dell’umana tecnologia. Un singolo siluro, forse due. Lanciato da una battello tanto lento e compatto da poter vantare un singolo tratto distintivo; quello di poter affondare e poi riemergere, a piacimento. Così i sommergibili assemblati in gran numero grazie alla potenza dell’ingegneria tedesca, dopo aver costituito la propria rete del terrore nei lunghi anni della grande guerra, furono elevati ad una minaccia globale con lo scoppio del secondo conflitto. Al punto da giustificare lo stanziamento di risorse in grado di cambiare con violenza l’equilibrio e il senso stesso della storia. Sotto il segno e il nome di un singolare, imprescindibile dominatore dei mari: l’U-Boat.
Volendo a questo punto focalizzare il nostro discorso al nodo strategico principale del suo schieramento, l’Atlantico oltre cui venivano spostate le truppe e i rifornimenti statunitensi all’indirizzo delle forze Alleate, attraverso bastimenti e convogli sempre più imponenti, all’apice degli anni di battaglia la gestione della loro interdizione sistematica ricadde principalmente nelle mani di un uomo, l’ammiraglio e futuro capo della Marina tedesca, Karl Dönitz. La cui base venne stabilita poco dopo l’occupazione della Francia in un particolare comune della Bretagna, situato in un’insenatura in grado di costituire la perfetta piattaforma di lancio anti-nave. Così al di sotto delle lussuose ville dove si affrettò a stabilirsi il suo comando di stato maggiore nel 1940 pochi mesi dopo l’armistizio di Francia, iniziò a sorgere qualcosa lungo i moli della ridente cittadina costiera di Lorient. La serie di strutture, in cemento armato e granito, che avrebbero portato alla sostanziale devastazione e quasi cancellazione dalle mappe di questa comunità trovatosi suo malgrado al centro di un investimento senza precedenti di prezioso matériel e forza lavoro. Di cui viene narrato, coerentemente, il modo in cui lo sforzo tedesco venne fin da subito ostacolato dalla Resistenza, dopo l’edificazione del primo squero (scivolo marittimo) ed i due bunker Dom nella zona del molo dei pescatori, casematte dalla forma vagamente ecclesiastica, sotto cui gli U-Boat venivano inizialmente sottoposti a riarmo e riparazione. Almeno finché non venne lamentata la poca praticità dei loro spazi eccessivamente angusti per poter provvedere alle operazioni e Dönitz pensò, in un primo momento, di far costruire una labirintica base sotterranea. Se non che i dati raccolti, avvalorati da una popolazione segretamente ostile, parlavano di un sostrato roccioso quasi impossibile da penetrare. Così che venne deciso di costruire, piuttosto, sopra il livello della costa già pesantemente fortificata…
u-boat
La mitosi della nave colpita da un siluro nella seconda guerra mondiale
Il comandante George Scott Stewart non si faceva particolari illusioni sulla possenza del suo vascello: con un dislocamento di 1.717 tonnellate e una lunghezza di 105 metri, il cacciatorpediniere britannico Porcupine costituiva un tipico rappresentante della classe P, una delle 16 navi costruite a Newcastle upon Tyne in tutta fretta all’inizio della guerra nel 1939, armata con cinque cannoni “QF 4” da 102 mm, quattro “QF 2” da 40, sei cannoncini automatici, quattro lanciasiluri e quattro lancia bombe di profondità. Assegnato di scorta al battello di supporto sommergibili Maidstone tra Gibilterra ed Algieri durante l’Operazione Torch per lo sbarco degli alleati in Nordafrica, egli manteneva quindi il suo equipaggio in stato di allerta media nei dintorni delle coste di Orano, in Algeria, pronto a correre ai posti di combattimento al primo annuncio di un possibile pericolo all’orizzonte. Ciò che egli stava per scoprire, in quel drammatico 9 dicembre 1942, è che non tutti i nemici sono soliti annunciare la propria presenza e qualche volta, nonostante l’addestramento pregresso, c’è ben poco che si possa fare per evitare il verificarsi di un disastro. “Allarme, allarme, segno di un siluro all’orizzonte!” Gridò l’ufficiale di guardia situato in poppa, dando principio a un brivido che in pochi attimi, diventò il segnale ripetuto da un settore all’altro della nave. Il capitano, reagendo subito con competenza, gridò al timoniere in plancia di tenersi pronto a virare a babordo, benché non fosse ancora il momento di farlo. “Confermato, increspatura a 210, 215 gradi signore! Niente ancora sul sonar! Pronti ai suoi ordini!” Stewart corse quindi alla finestra d’osservazione del ponte di comando, prendendo nota del modo in cui l’ordigno lanciato dal sommergibile tedesco si stava muovendo. E fu allora che proprio lui, scorse quanto aveva già sospettato, rivolgendosi al secondo ufficiale “Ce ne sono almeno quattro, disposti a ventaglio. Nessuno sembra diretto verso di noi: hanno mirato alla Maidstone!” Quindi si rivolse all’addetto al coordinamento dei sistemi d’armi: “Smith, comunicate all’equipaggio d’iniziare il rilascio di bombe di profondità, intervallo di 45 secondi. Probabilmente non riusciremo a fermarli, ma almeno gli daremo qualcosa di cui essere preoc…” Impatto, un boato impressionante, il tempo che sembra fermarsi; quella frase, non sarebbe mai stata completata poiché un quinto siluro, non visto, aveva raggiunto con successo la parte centrale della Porcupine, esplodendo in maniera perfettamente predeterminata. Un migliaio di tonnellate d’acqua, trasformato temporaneamente in vapore, si espanse contro lo scafo del cacciatorpediniere, sollevandolo letteralmente a diversi metri dalle onde del mare. Il collasso conseguente delle bolle soggette a immediata compressione, quindi, lasciò precipitare nuovamente l’imponente oggetto verso le profondità marine, che semplicemente, non resse il colpo. Ora il comandante faticava per riprendere fiato, reggendosi al corrimano della sala di controllo. Il secondo ufficiale si stava rialzando, senza ferite apparenti. Mentre lo aiutava non ebbe quindi nessun tipo di esitazione mentre afferrava l’interfono scagliato a terra dall’urto: “A tutti i membri dell’equipaggio, qui il capitano. Ordine immediato: evacuare la nave. Ripeto, evacuare la nave!”
Molte sono le possibili conseguenze garantite dall’attacco portato a segno da un U-Boat tedesco, letterale “lupo-in-caccia” dei mari nel corso dell’intero periodo del secondo conflitto mondiale, temibile congiunzione di notevole potenza di fuoco, scaltrezza tecnologica ed una disciplina estremamente valida a garantire la realizzazione degli obiettivi, assegnati di volta in volta dal comando centrale della Germania. Ciò che generalmente può essere dato per certo, tuttavia, è l’assoluta distruzione del bersaglio, con probabile affondamento di lì a poco e indipendentemente dal numero di vittime o quantità di marinai abbastanza fortunati da salvarsi. A meno che, speciali contingenze transitorie e la fortuna del fato, permettano ai suddetti soggetti di mettere un piano di riserva che nessuno, fondamentalmente, avrebbe mai avuto il modo o la ragione di aspettarsi…