Volare, guidare, c’è davvero una differenza? Quando ciò che conta è raggiungere ad ogni costo un obiettivo, possibilmente prima di quanto possa esserci riuscito chiunque altro. Al punto da trasformare la tipica forma di un aerostato nella carrozzeria di un mezzo stradale… Ma il semplice fatto che fosse possibile non sottintende, necessariamente o imprescindibilmente, una chiara giustificazione d’intenti. C’è una storia collegata alla città di Ancona che esemplifica una determinata caratteristica della nobiltà italiana dell’inizio del secolo scorso, potenzialmente riconducibile ad uno stereotipo tipico del nostro paese. Essa inizia con il conte Luigi Raimondo Ricotti, padrone della storica Villa Favorita alla Baraccola, che si recava presso una sua proprietà nel rione di Pinocchio, così chiamato per la quantità di pini italici che vi crescevano liberamente (benché in seguito, proprio qui sarebbe stata eretta una statua dedicata al celebre personaggio di Collodi). Era dunque il 22 ottobre del 1897 quando a bordo della sua carrozza, un’elegante berlina recante lo stemma di famiglia, il nobile settantenne veniva avvisato dal fedele cocchiere Bonafede dell’incipiente e terribile alluvione, che avrebbe richiesto certamente di fermarsi a lato della strada o possibilmente, presso un luogo adeguatamente protetto dagli elementi. Al che il datore di lavoro, un personaggio eccentrico e notoriamente testardo, pronunciò la frase destinata a rimanere celebre: “Avanti si vada!” Che avrebbe purtroppo portato, alcune ore dopo, al cappottamento della vettura sulla strada allagata con conseguente decesso proprio e del suo cavallo. Mentre soltanto il servitore, per sua fortuna, sarebbe stato tratto in salvo da un passante con una corda, poco prima dell’annegamento. Ecco dunque il desiderio di andare veloci ad ogni costo, raggiungere la destinazione nella maniera più efficiente anche a discapito di ogni possibile incitazione alla ragionevolezza. Lo stesso che avrebbe potenzialmente guidato, 24 anni dopo, il suo possibile discendente anch’egli dotato della qualifica di conte, Marco Ricotti di Milano, nel chiedere alla propria carrozzeria di fiducia una vettura che fosse più performante, anche a discapito di qualsivoglia aderenza alle nascenti regole della progettazione stradale. Naturalmente a quel proposito il mondo era ormai cambiato, e nel particolare settore dei trasporti personali era diventato del tutto tipica la rinuncia ad una forza motrice di derivazione equina, anteponendogli l’utile funzionamento meccanico del motore a combustione interna. Un ambito commerciale all’intero del quale si muoveva con dimestichezza la compagnia identificata ancora all’epoca con l’acronimo di A.L.F.A. (“Anonima Lombarda Fabbrica Automobili”) e che soltanto nell’epoca corrispondente all’inizio della grande guerra avrebbe visto il suo stabilimento del portello acquistato, e diretto da colui che avrebbe contribuito con la seconda parte dell’appellativo odierno, Nicola Romeo. Ragion per cui in quel 1914 la figura chiave del marchio poteva ancora essere individuata in Giuseppe Merosi, progettista ed imprenditore, il cui primo successo internazionale può essere individuato nel modello ALFA 40-60 HP, veicolo a quattro cilindri con 6082 di cilindrata in linea biblocco, dalla caratteristica forma a sigaro destinata a diventare imprescindibile nelle maggiori gare di resistenza e gran premi della propria Era. Già perché dei 25 esemplari prodotti in questa serie, tra cui due specificamente configurati e potenziati per ottimizzare le prestazioni di gara, la maggioranza si sarebbe fatta onore in simili competizioni, dimostrando la possibilità presente e futura di realizzare automobili pensate per questo specifico utilizzo da parte della casa milanese. Il che avrebbe indirettamente portato, in un certo senso, alla prima concept car italiana e possibilmente della storia, rispondente alle specifiche esigenze di un cliente molto particolare…
precursori
Il primo pittore computerizzato nella storia e il suo alter ego umano
Immaginate uno scenario in cui un androide pensante dall’elevato grado di perizia si trovasse ad effettuare un compito materialmente rilevante, come assemblare i componenti di un macchinario complesso all’interno di una fabbrica del prossimo futuro. E i critici di tale circostanze, guardandolo con diffidenza, raggiungessero il consenso che: “Il robot sta eseguendo il programma di cui è stato insignito senza nessun tipo di sentimento. Esso finge soltanto di essere un membro produttivo della società. Per questo, il suo contributo non ha valore.” Eppure forse, al termine del turno di lavoro, la flangia dal profilo convesso, l’albero a camme, la biella contro-ritorta non sono forse confluite per dar forma all’oggetto desiderato? E tale apparecchio non verrà impiegato, a sua volta, per svolgere mansioni utili alla collettività civilizzata? Ogni dubbio, ogni resistenza all’importanza che individui-macchina dalla capacità di elaborare i dati e agire di conseguenza, nasce dall’idea tutt’ora pervasiva che i la mente sia un qualcosa d’irriproducibile e in qualche maniera sacro. Che il gesto di un essere umano abbia un valore inerente, simile a quello del demiurgo, originale artefice dell’Universo. E se pure l’evidenza ci ha ormai fornito prove incontrovertibili che i computer possono occuparsi di mansioni creative, esibendo capacità assolutamente degne di nota e persino superiori alle capacità dei loro programmatori, l’arte resta relegata ad un contesto psichico in qualche maniera differente. Quasi come se la sua mancanza d’utilità per così dire “pratica” potesse esimerci in qualche maniera dall’accettare il contributo di secondo grado, derivante da coloro che hanno programmato gli strumenti perfettamente in grado di crearla in autonomia. E sarebbe perfettamente lecito, a seguito di questa presa di coscienza, pensare che la dolorosa accettazione possa giungere anche a diverse decadi da questi giorni, quando semplicemente non sarà possibile evitare di accettarne le conseguenze. Tranne per il dettaglio, difficile da trascurare, che l’intento di mettere la macchina di fronte a una tela può esser fatto risalire a prima dell’invenzione dei microprocessori, quando nel 1968 il pittore inglese Harold Cohen (1928-2016) già pluri-premiato partecipante alla Viennale di Venezia, decise di accantonare tutto quello che aveva ottenuto fino a quel momento e ricominciare da capo. Causa la visita per una lezione presso l’Università della California, a San Diego, dove aveva conosciuto il musicista e programmatore Jeff Raskin, che lo introdusse ai misteri e meraviglie dei cervelli meccatronici grandi quanto un’intera saletta di studio. Computer inflessibili e di complicato utilizzo, il cui principale metodo d’inserimento dati erano ancora le schede perforate, ma che esattamente come oggi potevano già essere connessi ad arti o corpi robotici, per trasferire i risultati dei propri calcoli nella forma maggiormente desiderata. Da qui l’idea, per la prima volta messa in pratica proprio presso il campus della UCSD dove aveva chiesto ed ottenuto di potersi stabilire temporaneamente, di dare una forma numerica a determinati criteri estetici. Gli stessi utilizzati, per l’appunto, dai bambini al fine di tracciare un’immagine all’interno di un foglio: “Crea una linea, racchiudi un punto. Riempi un vuoto.” Il primo limitato tentativo, di spostare il campo d’analisi all’interno di un territorio letteralmente inesplorato. All’interno del quale un qualcosa che era al tempo stesso niente più che un pennello, ma anche molto più di questo, poteva prendere l’iniziativa e generare conseguenze letteralmente inaspettate dal suo creatore. Perciò fu assai difficile negare che, per quanto si trattasse soltanto di un piccolo spiraglio di un portale molto più vasto, nulla avrebbe potuto più essere lo stesso…