Drone sorvola il più potente convoglio ferroviario della California

Sappiate, tanto per mettere le cose in chiaro, che in prossimità della piccola città di San Luis Obispo (CA) i treni vengono considerati una faccenda seria. Come esemplificato dalla stazione storica in stile rivoluzionario spagnolo del 1942, miracolosamente protetta dalla demolizione per la costruzione di un parcheggio. E il locale Museo Ferroviario, custode di numerose insolite vetture risalenti ai primi anni del secolo scorso, veicoli bizzarri ed altre amenità riemerse dalle nebbie della storia. Per non parlare della strada ferrata stessa, che in prossimità di questo territorio ricco di dislivelli, disegna anse spettacolari simili a quelle di un torrente di montagna, fondamentali luoghi di passaggio per carichi dal peso spesso assai significativo. Convogli come quello ripreso, lo scorso marzo, dal pilota di droni StevenMConroy con il suo fido DJI Phantom 4, velivolo abbastanza veloce e dalla portata sufficientemente ampia da poterlo inseguire per un tratto significativo del suo viaggio. Che l’avrebbe riportato a casa dopo un’esercitazione militare a Camp Roberts, con il suo carico di fuoristrada, camion e blindati IAV Stryker per il trasporto truppe, dalla riconoscibile forma a cuneo e gli armamenti puntati a lato.
Quando si tratta di spingere un carico dal peso inusitato lungo uno specifico percorso, e possibilmente in cima ad un qualsiasi dislivello, niente può competere con la potenza dei motori elettrici ferroviari. Ma quando si considera la complessità logistica e la spesa necessaria per installare e mantenere in funzione un sistema di alimentazione a corrente continua, lungo l’intero tragitto di un binario serpeggiante in aree potenzialmente remote, non c’è nulla che possa sostituire l’efficienza di un impianto in grado di alimentare se stesso. Così per lungo tempo, dopo la presunta obsolescenza delle locomotive a vapore, quest’ultime continuarono ad essere impiegate in determinate circostanze o aree del mondo, per la loro autonomia ed estrema versatilità. Finché nel 1888, all’ingegnere inglese William Dent Priestman non venne in mente di adattare all’uso ferroviario il suo cosiddetto “motore ad olio” essenzialmente nient’altro che un antenato dei moderni diesel, lasciando che il vecchio carbone scivolasse ben presto nei recessi dell’obsolescenza. E di certo nessuno avrebbe potuto negarlo: il nuovo approccio era più pulito, meno costoso in termini di carburante, richiedeva revisioni meno frequenti ed aveva un impatto minore sullo stato funzionale dei binari. Ma sarebbero passati altri 37 anni prima che la Baldwin Locomotive Works, utilizzando un motore ibrido costruito in collaborazione con la Westinghouse Electric Company, riuscisse a combinare i punti forti di entrambi i mondi, creando la prima locomotiva diesel-elettrica del mondo. Il cui successo commerciale, con tutta la calma inerziale di un ingente carico, sarebbe giunto verso la metà degli anni ’30, grazie alla prima serie prodotta dalla Electro-Motive Diesel, nuova divisione della General Motors destinata esplicitamente a sviluppare un simile mercato del tutto nuovo. Un impresa attraverso cui ben presto, gli Stati Uniti avrebbero acquisito un altro primato ingegneristico nel panorama dello scorso secolo della tecnologia globale…

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Scie di fuoco intiepidiscono i binari americani? C’è un perché

Il 24 gennaio del 2019, senza nessun altro preavviso che una vaga preoccupazione tra i principali interpreti dei dati meteorologici a disposizione, il vortice polare si è abbattuto sugli stati del Midwest e il Canada Orientale, causando effetti ad ampio spettro e conseguenze largamente deleterie. Nel giro di una settimana appena, le temperature sono scese fino ed oltre il punto d’incontro tra i gradi Celsius e Fahrenheit (-32) in diverse regioni del Michigan, l’Indiana e il Minnesota, mentre il record veniva raggiunto dall’Illinois, presso la cui capitale Chicago il vento gelido faceva registrare una temperatura percepita di -41 gradi. Sensibilmente più bassa di quelle registrate attualmente in Antartide, dove tra l’altro, trattandosi del punto più meridionale del nostro intero pianeta, è al momento estate. Nel corso della scorsa settimana quindi, i media locali e internazionali hanno potuto assistere alle misure preventive messe in atto da un centro amministrativo il quale, pur trovandosi alle prese con un caso limite, possedeva ben più di una nozione per far fronte alle ondate gelide, essendosi trovato più volte nel corso delle ultime decadi a far fronte a simili anomalie. Come ci si sente, dunque, ad essere il più precoce baluardo che deve affrontare per primo gli effetti geopolitici del mutamento climatico terrestre? Saldi, forti nei propri principi e lievemente bruciacchiati. Come avranno certamente pensato i pendolari ferroviari che, nel corso della scorsa settimana, si sono ritrovati ad assistere a uno spettacolo piuttosto insolito: il personale della Metra, principale linea ferroviaria cittadina, che in preda ad una sorta di follia collettiva sembravano gettare kerosene ed altri liquidi infiammabili sui più remoti recessi della loro preziosissima strada ferrata. Mentre con un ghigno indotto dallo sforzo psicologico e sentimentale, appiccavano un incendio nella pozza risultante, per poi starsene a guardare i risultati.
Ora tutto questo può sembrare strano, ma il fatto è che per quanto concerne un treno elettrico o alimentato a diesel, non c’è semplicemente nulla che possa prendere fuoco nella sua parte inferiore: soltanto il metallo delle ruote e potenzialmente le condotte di alimentazione di un fluido il quale, per ardere, non può accontentarsi delle sole temperature elevate, ma necessita di fiamma “e” pressione. Ciò che in molti hanno tardato a interpretare, dunque, non era una sorta di atto vandalico indotto da una sorta di follia collettiva, bensì una procedura di assoluta urgenza, pena il letterale disgregamento della ferrovia.
Tutto inizia dalla reale natura di un binario, un concetto ingegneristico che da sempre appare, erroneamente, certo ed immutabile lungo il sentiero. Quando la realtà dei fatti è che l’acciaio utilizzato, fin dalle origini di un simile dispositivo, è assai flessibile ed al tempo stesso, capace di espandersi e contrarsi in base alla temperatura. Il che porta a un procedimento d’installazione che potremmo paragonare, con una similitudine efficace, a quello di un elastico allungato fino all’estensione massima, per poi essere fissato tramite una serie di puntine. Si chiama, in lingua inglese, rail stressing e prevede il surriscaldamento entro linee guida molto generose dell’intera estensione di strada ferrata ben prima della sua inaugurazione, spesso mediante il fuoco stesso, al fine di evitare il caso limite peggiore: un binario che, allungandosi per il calore estivo, possa deformarsi e causare un qualche tipo di deragliamento. Caso vuole, tuttavia, che il freddo eccessivo di questi giorni, almeno senza nessun tipo di contromisura, possa causare danni forse meno gravi ma altrettanto duraturi…

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Ferdinando, il treno degno di portare un presidente americano

Italiani: popolo di artisti, tartarughe ninja e navigatori. Qual’è il potere di un nome? Nell’opinione di Kevin Eastman e Peter Laird, ideatori del più famoso team di anfibi supereroi sovradimensionati dal mutagene e addestrati da un rattone delle fogne di New York, abbastanza. Da voler creare quell’associazione, artista marziale/artista rinascimentale, andando a ripescar gli appellativi di alcuni dei più famosi nostri compatrioti, grandi pittori, scultori ed almeno in un singolo caso, scienziati ante-litteram dello Stivale. Un’operazione che in effetti, aveva qualche insigne precedente. Al punto che quando la compagnia dei trasporti Pullman di Chicago (già, proprio loro) aveva costruito nel 1929 sei carrozze passeggeri ferroviarie particolarmente lussuose, volle fare il possibile affinché la comunicazione pubblicitaria sui giornali rimanesse impressa al grande pubblico statunitense. Il che incluse, guarda caso, battezzarle con il nome di famosi esploratori: David Livingstone, Robert Peary, Roald Amundsen, Henry Stanley, Marco Polo e… Ferdinando Magellano. Ovviamente, all’epoca determinati cartoni animati e fumetti ancora non esistevano. Altrimenti in molti avrebbero capito che fra tutte, proprio l’ultima vettura avrebbe avuto un epico destino. Dopo tutto, ci fu soltanto una prima circumnavigazione del globo, e soltanto un grande uomo in grado di compierla al servizio del re di Spagna Carlo V…
Già, il re. La figura politica dotata del potere universale, capace di decidere la rotta e il senso di un’intera nazione. Proprio come, in epoca di guerra, il presidente americano. Facciamo un balzo in avanti fino al 1942: Franklin Delano Roosevelt, secondo del suo nome, è il fiero condottiero che, con pugno di ferro e ancor più solida sedia a rotelle, dirige l’ardua politica estera degli Stati Uniti mentre Europa, Asia ed Africa bruciano sotto una pioggia di bombe. In un’epoca in cui nessuna telecomunicazione, non importa quanto fosse complesso il codice, non poteva essere realmente sicura, mentre già vengono stilati gli accordi segreti che avrebbero portato, entro un paio d’anni, al solido legame dei cosiddetti Alleati (contro il nazismo, il fascismo e gli altri totalitarismi di allora) spostarsi fisicamente da un luogo all’altro era pressoché un dovere. Ma imbarcarsi su un aereo, all’epoca, era ancora impensabile per un presidente: chi avrebbe mai potuto proteggerlo, lassù, nel caso in cui qualcosa fosse andato storto? Così l’uomo, o per meglio dire qualcuno facente parte del suo staff, pensò bene di elaborare un metodo affinché uno spostamento su rotaie fosse non soltanto possibile, ma pratico, sicuro e conveniente. Il che incluse fin da subito, come avrete già desunto dal mio titolo, l’acquisto dalla prestigiosa Pullman dell’ormai desueta Ferdinand Magellan, una carrozza giudicata sufficiente allo scopo.
I vantaggi erano palesi: impiegare un mezzo prodotto in serie, per quanto raro, permetteva ipoteticamente di nasconderlo in un deposito ferroviario. Inoltre, corrispondendo ad uno standard veicolare di pregio, sarebbe stato facile ottenere la precedenza ovunque andava. Perfetto, come si dice, con qualche piccolo cambiamento: la carrozza venne condotta fino Washington, dove ebbero inizio i lavori di rinnovamento. In primo luogo, si rivestì di una solida corazza la sua parte esterna, con piastre di uno spessore massimo di 15 mm. Quindi, ogni vetro venne sostituito con pannelli laminati a 12 strati, ragionevolmente impervi a qualsiasi proiettile conosciuto. A quel punto tale scatola, diventata del tutto inapribile, venne fornita di un rudimentale sistema di aria condizionata, basato su tubi raffreddati con il ghiaccio e una serie di ventilatori in grado di far ricircolare l’aria. Ma i cambiamenti non finivano certo qui. Si rimossero due dei cinque scompartimenti originari, ampliando rispettivamente quello doppio, dedicato a presidente e first lady con tanto di bagno comunicante e la sala da pranzo, trasformata per l’occasione in sala conferenze, con tanto di massiccio tavolo di mogano e sedie pendant. Comparvero due botole di fuga, nel caso in cui i passeggeri dovessero essere evacuati. Venne inoltre ampliato il ponte posteriore panoramico, originariamente usato dai facoltosi passeggeri per prendere un po’ d’aria durante il viaggio, trasformandolo in un vero e proprio palco, con tanto di altoparlanti integrati, che il capo di stato avrebbe potuto usare per rivolgersi alla nazione, nel caso in cui se ne fosse presentata la necessità. Il risultato fu un vero e proprio mostro, dal peso di 129 tonnellate contro le 72 delle altre cinque carrozze pullman (considerate che un moderno carro armato M1A2 Abrams, a pieno carico, ne pesa 62). Quindi, il viaggio ebbe inizio…

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E se i tram potessero viaggiare senza le rotaie?

“Se sembra muschio, e sa di muschio, ed ha il colore, l’odore, la morbidezza tipica del muschio, allora amico credi a me, quella cosa non può essere altro che…” Tuoni, fulmini, rumore di tempeste. Liti animate tra colui che crede nella legge della semplice (?) evidenza, e il rappresentante di quell’altro gruppo, che ci tiene a riconoscere il valore di un nome. “No davvero, ascolta me: un lichene. Se Linneo, nella sua vasta saggezza, ha collocato questa forma vegetale d’esistenza, dopo averla ponderata, in un diverso insieme di esistenze, egli deve averlo fatto con un suo criterio. Devi riconoscergli una DIFFERENZA!”. E così via, finché la festa sia finita, tra il fastidio di tutti i presenti, sommamente disinteressati. E fortuna che nessuno, in quel momento, avesse sollevato la questione di ART: Autonomous Rail Rapid Transit, recente invenzione dalla Cina che non è autobus, né treno e neanche un tram, benché incorpori elementi da ciascuno dei mezzi citati. Subito scusato, sarebbe uno straniero, se a vederlo per le strade avesse l’istintiva voglia di associarlo al tipico autobus snodato, con due o tre cabine poste l’una di seguito all’altra, in grado di accomodare l’interezza della folla che pretende di spostarsi nelle ore di punta. Il che potrebbe capitare adesso, nello specifico, unicamente presso la città di Zhuzhou, nella regione di Hunan, dove da qualche settimana è in corso il test, ad opera della compagnia di trasporti pubblici CRRC Times Electric, di una prima linea pienamente operativa costruita sulla base di questo singolare principio d’ibridazione. Ma perspicacia, o avvistamenti ripetuti, permetterebbero alla fine di comprendere la verità: perché ART, pur avendo gli pneumatici, segue esattamente delle linee disegnate al suolo all’interno di una specifica corsia. Che dovrebbero costituire, a tutti gli effetti, le sue “rotaie”. Inoltre, da qualunque parte lo si osservi non ha un davanti.
È un sistema che potrebbe suscitare un istintivo senso di diffidenza. In primo luogo, per la poca fiducia che si tende ad avere nei confronti delle novità e dall’altro perché, pur non rientrando nelle categorie classiche di mezzi di trasporto, il veicolo non sembra neanche sufficientemente “diverso”; il che porta a chiedersi perché, davvero, dovremmo riconoscerne il bisogno. Eppure la realtà può emergere, per gradi, da una più attenta analisi del suo funzionamento. ART è utile perché funziona grazie ad un motore elettrico. Il che, in alcuni grandi agglomerati urbani della Cina, notoriamente sommersi da una cappa d’aria irrespirabile, non può che essere un importante vantaggio. Inoltre, essendo stato concepito come un “tram” o “circolare” che dir si voglia, ART è in grado di sfruttare vie di spostamento trasversali rispetto al traffico, con suoi semafori, svincoli esclusivi o in altri termini, svariate scorciatoie rispetto ai suoi cugini del tutto privi di connotazioni ferroviarie. Senza le implicazioni negative del caso: di sicuro, chiunque si sia spostato tramite vagoni nel contesto cittadino per un tempo medio, avrà sperimentato almeno una volta l’episodio dell’automobile parcheggiata di traverso sui binari. Tanto che il trenino, nonostante l’importanza della sua missione, non poteva far altro che sostare fino all’arrivo del carro attrezzi. Mentre il suo alter-ego dalla Cina, in caso di necessità, sarà in grado di disattivare temporaneamente i sistemi di guida automatica. Per permettere al macchinista (o si chiama “autista”?) di deviare temporaneamente sulla strada, procedendo rapido verso la sua destinazione. E lo stesso vale, d’altra parte, per questioni relative al traffico. Perché “costruire” una rotaia che è in realtà una doppia linea tratteggiata su strada, nei fatti, significa poterne avere di ridondanti. Così che un sistema automatico computerizzato, in caso di necessità, potrà smistare gli ART lungo i tragitti meno problematici.
Garantendo una circolazione dei passeggeri dal grado di efficienza indubbiamente superiore. Il tutto grazie ad alcuni importanti accorgimenti…

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