La giostra adrenalinica nel turbine dell’orologio

Tourbillon Ride

Punto fermo di ogni rispettabile narrazione che contenga il concetto di viaggi istantanei, siano questi di natura tecnologica o rientrino tra i fenomeni improbabili di una qualche arte stregonesca, è il trauma, più o meno breve, cui vengono immancabilmente sottoposti tutti gli individui coinvolti. L’astronave che nell’iperspazio, locus teoricamente privo del concetto stesso di attrito, vibra rumorosamente alla maniera di un vascello prossimo al naufragio, come il traumatico teletrasporto umano, generalmente seguito dalla brusca materializzazione in luoghi scomodi o elevati, da cui rovinare rotolando in qualche nuovo angolo della Terra. Oppure…Altrove. Ma tutto questo non è nulla, rispetto agli artifici che permetterebbero, almeno nella fantasia di molti autori, di spostarsi liberamente lungo l’asse inconcepibile del tempo. Prima che un protagonista possa conoscere i propri trisavoli ulteriori, o i nipoti dei nipoti, dovrà prendere il coraggio a piene mani per entrare in ciò che si profila, grosso modo, come l’equivalente accidentale di un qualche astruso arnese di tortura. C’è sempre una cabina, oppure un veicolo, che accelera ad un ritmo innaturale. Oppure una capsula senza aperture, che ruotando vorticosamente su se stessa fa dei secoli come secondi, e soprattutto, quando necessario, riesce a farli scorrere al contrario. Quest’ultimo, probabilmente, il maggior miracolo ipotetico del mondo. E ci coinvolge immancabilmente, un simile aspetto esteriore di una prassi immaginifica in cui le leggi della fisica fanno la parte di un fedele cagnolino, al punto che la gente sarebbe anche disposta a pagare, per poter vivere quell’esperienza, persino nell’impossibilità di raccoglierne i frutti più straordinari. Succede, essenzialmente, di continuo: diventar la parte di un qualche movimento o meccanismo straordinario (fuori dal probabile o la ragionevolezza) come una montagna russa, la ruota panoramica, il percorso splisplash con i tronchi giù per la cascata. Tutte cose molto belle, queste, ma con una problematica di spicco. L’ingombro ponderoso delle svettanti strutture in questione, da cui deriva il costo sproporzionato della loro operatività e manutenzione, da sempre condizionamento significativo al numero, e la nazionalità, di chi possa sperimentare sulla propria pelle simili emozioni.
Enters ABC Rides, l’azienda svizzera che ha costruito questa favolosa…Cosa. Stiamo nei fatti parlando, come avrete già notato grazie al video di apertura, dell’incredibile dispositivo per Luna Park un tempo noto come Starlight, ma che al suo debutto presso il Foire du Trone 2015, la più grande fiera della Francia, ha ritrovato il termine che meglio gli si addice, ovvero Tourbillon, dal nome di un particolare meccanismo con fino a tre assi, che tutt’ora svolge il compito di un cuore nei più splendidi e costosi orologi da portare al polso. La ragione della sua esistenza pluri-centenaria è presto detta: sconfiggere la gravità. Scoprirono infatti i pionieri dell’orologistica moderna, verso la fine del XVIII secolo, che costruire una macchina in grado di avanzare sempre allo stesso ritmo era difficile, soprattutto per l’effetto di quella forza planetaria che perennemente tende a definire le due direzioni del “basso” ed “alto”. Qualsiasi ingranaggio complesso, infatti, se inclinato pure leggermente nella direzione del suo moto tende ad accelerare, e viceversa. Un problema sentito a tal punto, in quell’epoca di grandi navigazioni, da portare il parlamento inglese a promulgare già nel 1714 il cosiddetto Longitude Act, consistente della costituzione di una commissione, che avrebbe attribuito un corposo premio in denaro (20.000 sterline di allora) a chiunque fosse stato in grado di creare il primo cronometro nautico in grado di aumentare la carente precisione delle carte nautiche in corso d’impiego. E ciò che vediamo qui applicato, con la partecipazione di alcuni coraggiosi beta testers svizzeri di un giro di prova, altro non sarebbe che l’applicazione in scala enormemente superiore dello stesso meccanismo inventato dall’orologiaio Abraham-Louis Breguet (1747-1823) colui a cui venne riconosciuto il merito di aver trovato quella soluzione. Soltanto con al posto dei rubini, stavolta, le persone.

Leggi tutto

Due zaini a razzo aleggiano sopra Dubai

Jetman Rossy

“Da quassù sembrano formiche” potrebbe facilmente costituire, a ben pensarci, la più moderna e avveniristica frase nel repertorio metaforico dei tempi odierni. Perché non c’è nulla di più innaturale, inaspettato, fuori luogo, che l’esperienza di un essere umano temporaneamente scollegato dalla terra sulla quale ha costruito la sua considerevole fortuna. Nulla resta veramente fermo, tranne ciò che ha solide basi e fondamenta; ma ciò che maggiormente cambia, sulla base dei punti di vista, sono le impressioni tratte da chi visita quei luoghi, allontanandosi dai solidi crismi della convenzione. E allora cosa sembrano, quei due? Rondini, astronavi, supermen… Yves Rossy e il suo allievo e discepolo Vince Reffet, gli uomini dei razzi ad ala fissa, spinti fortemente avanti dall’incedere di quelli che potrebbero costituire, a conti fatti, i più piccoli quadrimotori a reazione della storia. Qui sfruttati per conoscere, in un modo totalmente nuovo, le Isole artificiali delle Palme, il Burj Al Arab ovvero l’aerodinamico hotel a forma di vela, oppure perché no, i 392 metri del 23 Marina, seguiti dai 414 della Princess Tower (secondo edificio più alto di quella città) finché nel culmine di un pregno volo, con il carburante ormai agli sgoccioli, non si raggiunga l’ombra nera del Khalifa, l’enorme, pantagruelico e quasi chilometrico edificio, eppure stretto ed aggraziato, persino dall’alto in basso. Per porsi la domanda che nessuno, fino a pochi giorni fa, avrebbe mai pensato concepibile in tali termini sopra le nubi: “Destra o sinistra?” La mano regola delicatamente i controlli della potenza, mentre le spalle prendono l’inclinazione scelta. L’uomo uccello e suo fratello, non biologico s’intende, si lasciano alle spalle addirittura quell’ostacolo, a circa 250, 300 Km/h di velocità.
È uno sfrenato sogno che si realizza, ancora e poi di nuovo, per ciascuna delle volte in cui il cinquantaseienne svizzero Rossy, con dietro una significativa carriera da pilota militare e poi civile, indossa sulle spalle la sua celebre invenzione, l’ala in fibra di carbonio dal peso non trascurabile di 55 chili. La quale non ha veramente un nome, come qualsiasi altro tipo d’aeromobile, perché ha sostanzialmente l’obiettivo di sparire, via dagli occhi e dalla mente, trasformandosi nell’estensione naturale del pilota stesso. Lui ne parlava qualche anno fa, durante la sua conferenza per l’organizzazione nonprofit TED. Del modo in cui, da principio, amasse fare paracadutismo e avesse cercato d’ingegnerizzare un modo per estendere quell’esperienza. Renderla più estesa nel tempo, come prima cosa, ma sopratutto liberarla nella scelta di un vettore, non più soltanto gravitazionale (verso il basso, sempre più giù) ma in ogni possibile direzione dello spazio blu cobalto, sulla base del bisogno o il vezzo del momento. Giungendo poi al punto di svolta, attorno ai primi anni del 2000 quando, grazie ad alcune significative sponsorizzazioni, non gli riuscì di dare forma materiale ai suoi disegni. Si stima che l’investimento iniziale per la realizzazione del prototipo si sia aggirato sui 170.000 euro, investiti con un obiettivo ben preciso: far debuttare lui, l’avventuriero cosmico per eccellenza, in occasione della 35° Fiera delle Invenzioni di Ginevra, nel 2008. E quale senso di assoluta meraviglia, seppe ispirare nella stampa internazionale col suo primo volo pubblico, risalente al 14 maggio di quell’anno: Rossy lasciò l’aeroplano da turismo Pilatus Porter con un sicuro balzo, all’altitudine di 2300 metri, mentre già accendeva i suoi quattro motori a razzo, adattati per lo scopo a partire da un modello pensato per grandi aeroplani radiocomandati. Con la sua tuta speciale a proteggerlo dal calore considerevole, ha poi puntato dritto verso la valle del Rhone, effettuando due giri della morte, presto conclusi a un’altitudine di 790 metri. Quindi ha aperto il suo paracadute, atterrando sulle sponde del lago Lemàno, circa 15 minuti dopo l’attimo in cui i suoi piedi si sono staccati dalla fusoliera del velivolo di partenza. Da allora, lo svizzero ha effettuato più di 30 voli in alcune delle località più scenografiche del mondo: il Grand Canyon, le bianche scogliere di Dover (nel 2008 attraversò il Canale) e il monte Fuji in Giappone, attorno al quale girò per ben nove volte in 10 minuti…Migliorando progressivamente la sua ala, fino al raggiungimento di uno stato d’efficienza molto superiore. In questo, indubbiamente, l’ha aiutato l’incedere del progresso tecnologico. Ma oggi, se si trova lì, è soprattutto merito suo. Di nuovo in volo, ancora una volta con la significativa scia d’aria lanciata alle sue spalle in mezzo ad alcuni dei punti di riferimento del senso comune, e questa volta con un considerevole secondo: quel Reffet del Team Redbull, esperto utilizzatore della tuta alare e già campione di diversi tornei internazionali di BASE jumping. Trent’anni di età, in un’intera vita al servizio di quello che potrebbe definirsi uno degli sport del mondo del possibile, eppure nient’altro che un allievo, in simili condizioni ANCORA più estreme, PERSINO più ardue e fuori dal normale.

Leggi tutto

Due storie adrenaliniche di salvataggi nella neve

Avalanche danger

Non importa quanto ci si senta preparati, le ore e i giorni di profondo allenamento, la conoscenza approfondita delle condizioni circostanti; ci sono luoghi in cui il pericolo è lo stato naturale, ed è soltanto la diffusa convenzione assieme all’uso di particolari norme che può giungere a fornire, a torto o a ragione, un senso di parziale sicurezza. È la tendenza di un elastico a riprendere la forma, l’acqua nel bicchiere che straripa, la tempesta dell’Oceano che inghiottisce. Quando meno te lo aspetti, o anche se per caso eri già pronto, il mondo cambia e si trasforma in una morsa cruda e disumana – ovvero, senza posto per gli umani. Mare, montagna: due lati della stessa medaglia. E la discesa verso l’inferno, come la traversata di un acquoso purgatorio, è pur sempre lastricata di ottime intenzioni, sotto un manto ameno e biancastro, oppure trasparente, ma pur sempre asciutto di fluidifica pietà.
30 gennaio scorso: quattro uomini sorridono entusiasti della loro bella idea. Sulle Alpi Svizzere, lontani dalle piste più battute, Andrew e Dan, australiani, con Leonard che vanta natali proprio in quei gelidi luoghi e Mort, James Mort, il quale cognome mai assumeva un doppio senso più appropriato alle future prospettive di sopravvivenza. Era il momento sul finire di una splendida vacanza, quando tutto appare ancor più accattivante, e si rimpiangono, assieme ai giorni ormai trascorsi, le esperienze che stavolta non ci è capitato di sperimentare. La gioia e il senso di assoluta libertà, nello specifico, di avventurarsi lungo una discesa morbida e perfetta, con la consistenza della spuma di champagne. Quella superficie piatta ed uniforme, pronta a ricevere due solchi paralleli per persona, che possa accompagnare ciascuna avventurosa piega con la nube di gustose particelle, l’onda del passaggio che raggiunge infine, con gran soddisfazione, chi si fermi per riprender fiato. Una sensazione, Unica. Uno di quei rischi calcolati che si corrono talvolta, dimentichi delle pericolose implicazioni, perché la vita è fatta pure di momenti rari, non soltanto grigia quotidinità. L’intera sequenza, ripresa con la classica GoPro da caschetto dello sciatore terzo della fila *Daniel, inizia nel suo attimo più transitorio, nel momento in cui i quattro si chiamano l’un l’altro, e ridono, gioiosamente scivolano verso il basso. Quando ecco che d’un tratto, l’atmosfera cambia. Non si vede bene da principio: l’accidentale cameraman dell’ora della verità si ferma allarmato, mentre un’alta quantità di bianco gli si muove ai lati, come se…La montagna stessa, dopo tutto, si fosse risvegliata dal suo sonno mattutino. Lui si volta e d’improvviso scopre, con un moto d’orrore, che l’amico non c’è più. Letteralmente svanito sotto il suolo: James Mort.
Ora, non è facile immaginarsi al posto del malcapitato subito sepolto. Cosa fare, in simili momenti? Trattenere il fiato, girarsi da una parte, tentare di fare il macigno. Assumere una posa che possa massimizzare il proprio ingombro, per garantirsi poi un maggiore spazio di manovra… Tutti approcci potenzialmente utili, ma la maggior parte delle volte inefficaci. Da una valagna non si scampa senza aiuto. Così l’uomo ha avuto forse la migliore idea possibile puntando il braccio verso il cielo, con la racchetta fortunata a far da boa in quel mare bianco, boia. Con gli altri tre, sull’immediato, che scorgono il segnale e accorrono sulla non-scena…

Leggi tutto

Persino il muletto non è privo di flessuosità

Muletto nel camion

Problema semplice, soluzione complicata: all’alba del primo giorno del settimo mese di lavoro, dopo un’estate passata al mare, giunge un camion sulla piazza dell’azienda di famiglia. È vuoto eppure carico di aspettativa, questo cupo e grosso e stanco mezzo di trasporto. Dovrà prendersi, secondo precisa bolla di accompagno non una, non tre, bensì esattamente due casse cubiche giganti. Piene di… Prodotte in… Polpette dal peso di 30centomille quintonnellate l’una e dalle dimensioni, neanche a farlo apposta, esattamente identiche allo spazio utile a disposizione. Come installarle nella stretta sede, spingerle adeguatamente a fondo, dunque, restava certamente un orrido quesito. Non puoi spingere a mano 30centomille quintonnellate x2. Ma sbrigati, che l’autista batte già nervosamente il piede a terra!
Il che ci porta a noi, anzi, a codesta coppia di campioni. L’uomo con la maglietta ed il cappello rosso, i pantaloni mimetici e l’inarrestabile carrello elevatore arancione n. 23503300, con il suo amico in maglia viola pronto a sollevarlo. Si tratta di una storia pregna e ricca di sorprese. Parla di un mondo in cui quello che conta non è partecipare, ma giungere a destinazione, portare a compimento l’obiettivo; di una consegna, di uno scaricamento, dell’ultima mansione assolta prima della pausa pranzo. Lavoro è quel compito per cui la società ti ricompensa, in funzione dei problemi che risolvi. Ma mentre durante le vacanze, più ti diverti, tanto maggiormente paghi e dopo piangi per i conti da pagare, sulla sedia dell’ufficio oppure del veicolo che guidi, trovando aspetti positivi nel trascorrere della giornata sarai sempre soddisfatto. Farai un lavoro, addirittura…Migliore? Più veloce (faster) agile (stronger) efficiente (better). Tre parole d’ordine che possono assegnarsi a molte cose, tranne forse, normalmente, al caro, piccolo e prezioso mulo da trasporto. Che non è un “animale” molto intelligente. Né disponibile a comprendere le situazioni, benché forte all’occorrenza. Anzi, non lo è proprio, un essere vivente (in questo caso, almeno) ma un sistema di pneumatici, motore e quattro leve di comando, con un uomo sopra, cavaliere delle fabbriche o dei magazzini. Tra tutti gli impiegati radunati sul piazzale, il guidatore di tale veicolo è dotato di una straordinaria aura di potere. Soltanto lui, fra tutti, grazie alla chiave di avviamento e al patentino, può risolvere il dilemma di giornata. E del resto, tanto meglio se si è in due!
Se fossimo in Spagna, li chiameremmo Don Chisciotte e Sancio, in Sudamerica, Zorro e Bernardo. Negli Stati Uniti, Batman e Robin ma qui siamo in Cina. E benché manchi l’alta canna di bambù, piegata appena dall’incedere lieve dei guerrieri trascinati oltre il suolo e dentro il vento, loro sono chiaramente: Drago e Tigrone, senza dubbio alcuno. Il primo sostiene, spingendo innanzi, e l’altro si ricava spazio dove non ce n’era: 力山 diceva, del resto, la sua candida livrea. 力山: carrello elevatore. 力山: forza di gravitazione? 力山: energia della montagna? Peccato l’altro assembramento di caratteri antichi, apparentemente, non voglia dire altro che “numero tre.” C’é un limite persino alla poesia. Finché lo scatolone non viene immediatamente fatto levitare. E messo in parte dentro al camion. Solo il giusto: perché subito dopo, neanche a dirlo, nello stesso modo viene maneggiato il primo agente, cavallo e cavaliere, supereroe e Batmobile in questione, per continuare l’opera e portarla a splendido coronamento. L’unione fa, la forza. Elimina, lo sforzo.  Ciò vale anche negli altri ambiti…

Leggi tutto