E-6 Mercury, la coda bellicosa del serpente atomico statunitense

Se nella scacchiera di un ipotetico scenario da fine del mondo, la trasformazione degli Stati Maggiori nazionali in altrettanti pezzi mobili vedrebbe l’Air Force One assumere il ruolo di re incontrastato, il cosiddetto Doomsday Plane (Aereo dell’Apocalisse) Boeing 747 E-4 sarebbe senza dubbio la sua regina. Un potente sistema di organizzazione strategica, che accompagna il presidente con a bordo il segretario della difesa, sistemi per analizzare l’andamento del conflitto e potenti dispositivi di comunicazione su scala globale. Ma in ogni esercito sublimato che si rispetti, sia questo allegorico piuttosto che materialmente funzionale, lo schieramento di una parte non può dirsi in alcun modo completo senza l’umile base dei pedoni, sostituibili singolarmente, pur costituendo tutti assieme un’importante risorsa sia come contromisura che strumento d’offesa. In tal senso, non sarebbe del tutto errato definire i 16 velivoli Boeing 707 E-6 “Mercury” come i più letali e potenti apparecchi disponibili in questa tipologia di situazioni; perché responsabili nella sostanza del mantenimento di una rete di comunicazione con la triade nucleare. Trasmettendo, di volta in volta, gli obiettivi eletti come punti d’impatto per i missili dell’arsenale più estensivo di una singola nazione al mondo. Il che comporta alcuni singolari e tecnici artifici, soprattutto nel caso dei sottomarini di classe Triton ed Ohio, la cui irreperibilità costituisce un fondamento importante della loro stessa modalità d’impiego. Da qui dunque l’idea, inaugurata già negli anni ’60 con l’implementazione della relativa missione TACAMO (Take Charge and Move Out – “Prendi il comando e scappa”) al tempo condotta da una flotta di trasportatori a turboelica Lockheed EC-130 consistente nell’impiego di un’antenna VLF semplicemente unica al mondo. Da ogni punto di vista pratico, un filo lungo 5 miglia (8 Km) estendibile attraverso un apposito foro al centro della coda, al fine di bucare con l’eventuale segnale trasmesso una delle barriere meno permeabili di questo pianeta: la superficie dell’oceano stesso. Dispositivo il cui impiego corretto richiede particolari accorgimenti nell’assetto ed il comportamento dell’aeroplano, affinché possa riuscire ad estendersi il più possibile in senso verticale, piuttosto che venire trascinata orizzontalmente dall’aeroplano. Venendo estesa ad una velocità distante soli 19 Km/h dallo stallo per un jet di queste dimensioni, con un’inclinazione delle ali pari a 25-40 gradi, mentre il velivolo inizia compatibilmente a volare in tondo. In una serie d’infiniti circoli spiraleggianti, finché il risultato finale perseguito con la costruzione di una simile ragnatela non potrà giungere a compimento…

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Il castello della tigre tra le nubi di un Giappone dimenticato

Come nella leggenda del castello di Sunomata in merito alla capacità organizzativa del generale minore Toyotomi Hideyoshi, destinato a succedere al suo signore Oda Nobunaga come supremo sovrano del Giappone, in un giorno verso l’inizio del 1989 un’alta sagoma iniziò a profilarsi sopra il monte Kojo, nella prefettura di Hyōgo. Si trattava di un torrione, forse non costruito in una notte come la fortezza in legno alla confluenza dei fiumi Sai e Nagara, ma comunque in grado di prendere forma entro il giro di una singola settimana, potendo avvalersi di tecnologie moderne come il trasporto in elicottero dei materiali e l’instancabile contributo dei mezzi da cantiere. Il suo feudatario, almeno per qualche tempo, sarebbe stato uno soltanto: il grande produttore cinematografico e visionario Haruki Kadokawa, per tutto il tempo necessario alla realizzazione del film “Tra cielo e terra” (天と地と, Ten to Chi to) sull’epico conflitto dei due condottieri del XVI secolo, Takeda Shingen ed Uesugi Kenshin. La pellicola più costosa nella storia del Giappone fino a quel momento, destinata a resuscitare, almeno per qualche tempo, una location non del tutto priva di precedenti.
Poiché in questo ameno luogo, come testimoniato dalle fondamenta ed i terrazzamenti in pietra usati per sorreggere l’imponente scenografia, una poderosa fortezza ebbe effettivamente modo di sorgere, fin dal 1441 e fino agli anni successivi al 1600, quando gli sconvolgimenti nell’ordine politico nazionale successivi alla battaglia di Sekigahara portarono, indirettamente, alla sua demolizione. Il suo nome, per un mero caso di omofonia era effettivamente quello di Takeda-jyō (scritto come 竹田 e non 武田) ed essa aveva costituito, nel panorama dell’ultimo periodo dello shogunato di Muromachi, uno dei luoghi fortificati più imprendibili di tutto il Giappone. Avendo la funzione di agire come chiave di volta della difesa per il clan degli Yamana contro i loro nemici Akamatsu, nonché a protezione della strategica miniera d’argento di Ikuno, la più grande e redditizia di tutto il paese. Un ruolo niente meno che primario dunque, per questa fazione samurai dalle alterne fortune ma che avrebbe continuato a mantenere intatta la sua influenza fino al periodo della guerra Ōnin (1467-1477) quando il suo famoso condottiero Yamana Sōzen investì gran parte delle proprie risorse in un inconcludente conflitto con gli influenti Hosokawa, lasciando ai suoi il controllo dell’unica provincia di Inaba. Così che il castello di Takeda, nella sua posizione di preminenza rimasta priva di pretendenti, ebbe modo di passare di mano più volte…

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Gli echi atomici della piramide che funzionò un giorno soltanto

Nel mezzo delle verdeggianti praterie del North Dakota, mentre si percorre la strada verso la cittadina di Langdon, capitale della contea di Cavalier, compare all’improvviso all’orizzonte. A un occhio impreparato, può sembrare certamente questo: una versione tridimensionale, dall’altezza di un palazzo di quattro piani, dell’esoterica effige che campeggia sul biglietto da un dollaro, in cui l’Occhio della Provvidenza è stato riposizionato, dalla sommità della piramide, sul fianco della sua superficie obliqua. E d’altronde non a caso, la sua sommità è del tutto assente, facendo assomigliare l’edifico a una versione lasciata incompleta del monumentale mausoleo egiziano, che si staglia contro il cielo azzurro dell’avvenire. Così può essere inquadrato, con senso di perplessità soltanto accennato, il teorico del complotto che dovesse sollevare i suoi sospetti relativi a misteriosi rituali apotropaici degli Illuminati condotti all’interno, o altre branche della Massoneria del tutto imprescindibile nel tessuto di quella grande nazione. Il che è vero, a conti fatti, solamente a metà. Poiché il complesso Stanley R. Mickelsen, così chiamato in onore del comandante d’artiglieria della seconda guerra mondiale e successivo sostenitore del programma balistico anti-nucleare statunitense, aveva il compito di offrire un tenue bagliore di speranza, a tutti coloro che erano convinti (in modo non del tutto irragionevole) dell’inesorabile pendenza della fine della mondo. Anche o perché no, soprattutto, in seguito alla firma del trattato del 1972 per la limitazione degli armamenti nucleari stipulato con l’Unione Sovietica, in cui entrambi i paesi si impegnavano a costruire soltanto due siti di difesa anti missili ciascuno, il primo in prossimità della capitale, ed il secondo al fine di proteggere i loro siti di lancio. Con l’idea di base, quasi encomiabile tutto considerato, che l’eventuale selezione come bersaglio sacrificabile di qualche milione di persone fosse preferibile alla devastazione di interi continenti. Accordo concluso il quale, naturalmente, i capi di stato maggiore americani erano già a buon punto nella costruzione del prototipo della propria iniziativa di difesa, avendo già deciso da tempo, e in modo alqaunto prevedibile, di dare priorità alla tutela delle armi piuttosto che alle persone. Il che aveva tutto sommato una sua logica, di fronte a qualcosa di orribilmente devastante come un eventuale bombardamento a base di ICBM, dinnanzi al quale l’unica vera contromisura possibile era disporre di un adeguato deterrente anche successivamente all’eterno inverno nucleare. Fu dunque inaugurata il primo aprile del 1975 (data niente meno che emblematica) forse la più ambiziosa e futuribile stazione d’intercettazione di ordigni atomici con la forma di un solido platonico imperfetto. Entro il primo ottobre di quello stesso anno, completata la consegna del suo formidabile munizionamento, fu possibile affermare che avesse finalmente raggiunto la piena efficienza operativa. Il giorno dopo, con decreto sanzionato dal Congresso a Washington e la firma del trattato da parte dei Russi, il progetto venne decretato come ridondante ed eccessivamente dispendioso, ordinandone perciò la chiusura. Con buona pace dei 15 miliardi del denaro dei contribuenti già spesi, per un vero e proprio simbolo del modo singolare in cui viene impiegato il budget per la spesa militare di una nazione contemporanea…

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A proposito del piccolo mustelide coinvolto sulla linea del fronte ucraino

Il conflitto armato: forse il capitolo più oscuro tra i molti possibili frangenti della condizione umana, per sua inclinazione dedicato alla compromissione dell’altrui incolumità e future prospettive di sopravvivenza individuale. Ed altrettanto spietato nei confronti del mondo naturale e tutto ciò che questo contiene, posto inevitabilmente in secondo piano, di fronte alle necessità di colpire, distruggere ed annichilire ogni tratto di terreno oggetto delle rispettive manovre. Una contingenza nella cui realizzazione, al tempo stesso, risulta possibile individuare interazioni fortuite e transitoria, qualche volta conduttive a un senso di armonia che nutre l’anelito verso un possibile ritorno allo stato di quiete. Questo è dunque il presupposto, alquanto inaspettato, alla base di una serie di pubblicazioni social digitalizzate da parte di alcuni rappresentanti di quel vasto collettivo dei giovani soldati, tristemente al centro di una simile tempesta, che ormai da più di un anno continua ripetutamente a battere sui margini di ciò che siamo incoraggiati a definire “Europa”. Proprio là dove sussiste, fin da tempo immemore, l’estremo occidentale dell’area abitata dalla specie coprotagonista di queste registrazioni, il grazioso piccolo carnivoro che viene chiamato perevozchik in russo, myshovka nel dialetto cosacco terek, chokha in calmucco e fessyah in arabo (che vuol dire maleodorante). Termini tradotti normalmente in modo poco letterale quando non si sceglie, piuttosto, di ricorrere alla definizione scientifica di Vormela peregusna. Uno dei rari binomi tassonomici che non utilizzano il latino, sfruttando invece l’etimologia della parola tedesca würmlein (piccolo verme, per via della sua forma allungata) e quella ucraina perehuznya che vuole dire puzzola ed a cui si aggiunge, normalmente, la definizione di “marmorizzata”. Per distinguerla, in funzione della sua caratteristica livrea, dai più comuni abitanti striati o marroni dei boschi d’Eurasia, il Vecchio Continente ancora in grado, dal punto di vista degli animali, di sorprenderci con la sua biodiversità e le notevoli caratteristiche di un ecosistema non del tutto compromesso dall’invasione della civilizzazione moderna. Creaturina che compare in questo modo, con il suo peso raramente superiore ai 500 grammi e una lunghezza tra i 15 e 22 centimetri, tra le braccia dei soldati ed in almeno un caso intenta ad esplorare una delle loro trincee, all’interno della quale aveva probabilmente finito per cadere durante le proprie peregrinazioni prossime al sorgere del sole. Giacché nessuno potrebbe sognarsi, al primo accenno del suo verso sibilante, di mettere in dubbio un carattere assolutamente capace di farsi rispettare di queste sia pur graziose, quasi esageratamente accattivanti protagonisti nelle accidentali condivisioni di quei momenti…

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