Il problema dei messaggi di avvertimento a lungo termine sulle scorie nucleari è un discorso concepito ad ipotetico vantaggio delle civiltà future (ammesso che riescano a sopravviverci) in cui scienziati ed ingegneri hanno provato a risolvere un problema inerente alla creazione artificiale di concentrazioni radioattive dei materiali. Come assicurarsi, a distanza di secoli, millenni o successivamente al collasso del sistema di trasferimento generazionale, che gli umani del domani tentino d’esplorare luoghi capaci di causare la malattia o la morte? Descrizioni figurative, immagini geometriche o persino il linguaggio semplice del mito sono stati ipotizzati come utili allo scopo. Ma per quanto concerne comprendere il segreto di un’epoca attraverso le sue scorie residue, non c’è niente che possa davvero permetterci di garantire un risultato ottimale. Considerate, a tal proposito, tutto quello che sappiamo in merito alle prime civiltà stanziali di Carolina del Sud, Georgia e Florida, che iniziarono a fare la propria comparsa attorno al IV-III secolo a.C. Come possiamo effettivamente desumere, mediante quello che costituisce il loro lascito tangibile più duraturo: imponenti cerchi di conchiglie, del diametro mediano di 50 o 60 metri, con taluni esempi peninsulari capace di raggiungerne i 178. Semplicemente le strutture più imponente dell’intero Nuovo Mondo, fino alla costruzione millenni dopo delle piramidi a gradoni per il tempio di Kukulcan, a Chichen Itza. Dei letterali recinti dal contenuto compatibile con quello di un midden o “mucchio”, il tipo di discarica capace di accompagnarsi alle comunità degli uomini primitivi, ma che risultavano essere semplicemente troppo perfetti, eccessivamente ordinati nella propria geometria circolare, per non avere un qualche altro tipo di funzione rituale ulteriore. Ed è qui che l’archeologia moderna, nell’assenza di testimonianze scritte o fattori di contesto a cui fare riferimento, ha ripetutamente fallito nel tentativo di raggiungere una conclusione coerente, mentre la pletora d’ipotesi divergenti si sono affollate nel tentativo di risultare ragionevolmente inconfutabili dai colleghi della scena scientifica internazionale. Uno stato d’incertezza impossibile da risolvere anche successivamente agli scavi compiuti nel corso delle ultime decadi, in luoghi come le isole Fig o quella di Hilton della Carolina del Sud, o ancora Horr in Florida meridionale, rivelatosi incapaci di fornire dati ulteriori in merito all’effettiva natura dei cerchi. Lasciando la semplice analisi matematica, e l’aiuto del senso comune, come strumenti percorribili al fine di qualificare gli antichi, possibili monumenti. Una strada percorsa almeno in parte nello studio dello scorso settembre pubblicato da Victor D. Thompson e colleghi sulla rivista Scientific Reports, in cui si ripercorrono le possibilità emerse ed aggiunge un significativo discorso relativo alla dislocazione per lo più costiera di tali luoghi. Che potrebbe in qualche modo giustificare il loro successivo abbandono, e la conseguente scomparsa di strutture adiacenti a cui fare riferimento…
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Il trascurato sincretismo del devoto esercito di terracotta mediterraneo
Quante importanti scoperte archeologiche, quale moltitudine di reperti, nella serie di latenti circostanze che corroborano e implementano il senso comune, ad oggi restano appannaggio elitario per specifici campi di specializzazione? Non tutto può essere d’altronde posto dietro una vetrina, sotto luci barbaglianti, negli spazi ad alta visibilità di un celebrato ambiente museale. Ma neppure può essere impiegata tale linea come punto distintivo, circostanza della classificazione tra un lato e l’altro di questo ideale limite alle cognizioni delle moltitudini che venerano, con approccio per lo più spontaneo, la conoscenza. Ecco dunque una questione che apparentemente merita di porsi più di un transitorio quesito. Poiché non c’è una singola ragione, bensì una sfortunata e scollegata concatenazione di eventi, per cui il temenos (santuario) di Agia Irini, ritrovato presso la parte settentrionale dell’isola di Cipro, non dovrebbe risultare famoso al pari di Stonehenge, l’Acropoli di Atene o il Foro Traiano di Roma. Per non parlare della tomba cinese del primo Imperatore Qin Shi Huang Di, che per inciso visse e morì nel terzo secolo, almeno duecento anni dopo il presumibile abbandono di questo singolare, importante luogo di culto. Collegato a una così importante componente del patrimonio dell’Estremo Oriente, non da effettivi ed improbabili interscambi culturali, bensì quella che possiamo definire unicamente come un’improbabile coincidenza: l’inclinazione delle genti locali, come parte di un complesso sistema ritualistico, a seppellire un’irragionevole quantità di fedeli riproduzione di se stessi. Oltre 2.000 figurine di terracotta, per essere precisi, ritrovate mezzo metro sotto il suolo sabbioso all’inizio dello scorso secolo, benché ancora si ritenga che esse potrebbero costituire soltanto una parte del gran totale in attesa di venire portato alla luce. Di foggia e dimensioni estremamente varie, dall’impostazione prettamente ritrattistica a dimensioni quasi reali all’astrazione pura e semplice, di suonatori, guerrieri, sacerdoti e pastori, accompagnati da una grande quantità di riproduzioni bovine. Il che fece sospettare agli originali scopritori, i membri della storica Spedizione Archeologica Svedese, che potesse trattarsi di un tempio dedicato a Baal, possibilmente risalente all’epoca d’insediamento fenicio su questi lidi. Benché tale interpretazione fosse destinata successivamente ad essere messa in dubbio, soprattutto alla scoperta d’ulteriori strati di reperti tra il 1960 e il 1980, ad opera del prof. John L. Caskey dell’Università di Cincinnati, che parrebbero estendere l’utilizzo di questo luogo extra-urbano ben oltre quello che i suoi insigni predecessori avevano denominato come il Secondo Periodo Arcaico isolano (600-480 a.C.) ma fino all’Era Geometrica (1100-750 a.C.) e persino oltre tale epoca eccezionalmente remota. Gettando significativi dubbi, sulla storia stessa di quest’isola dalla collocazione geografica strategicamente rilevante, oggetto di tali e tanti conflitti attraverso il succedersi dei secoli che dovevano ancora venire.
L’ideale perfezione di un giardino iranico tra le sabbie dell’ancestrale Mesopotamia
La grande integrazione tra il pensiero e la materia è un sincretismo che ha condotto gli uomini ad edificare, attraverso i millenni, opere destinate a varcare le generazioni non soltanto in senso tangibile, ma anche come punto di riferimento logico per l’ulteriore miglioramento dei princìpi e fondamenti di quei mondi. Uno di questi è l’essenziale spazio creato come punto di meditazione, relax o mistica ricerca di equilibrio individuale noto come parādaiĵah o “recinto murato”, etimologicamente interconnesso con il luogo menzionato in successive descrizioni dell’immacolato stato di grazia antecedente al concetto stesso di Storia. Quell’oasi nel deserto della stessa esistenza, popolato di piante ed animali, scroscianti fiumi e torrenti. Una terra che sarebbe stata la promessa dei popoli futuri, una volta elaborato il concetto stesso di aldilà e tutto ciò che ne deriva come ricompensa delle sofferenze per i probi di questa Terra. Non a caso nelle prime traduzioni in lingua greca di quegli antichi testi destinati a diventare la Bibbia cristiana, proprio tale termine venne impiegato al fine di riferirsi al luogo dove Adamo ed Eva avrebbero tradito la fiducia dell’Onnipotente. Ma ci sono molti “paradisi” nel contesto geografico agli albori stessi della civiltà ed uno dei più celebri rimane, ad oggi, il Bāgh-e Shāzdeh di Mahan o “giardino del principe”, esempio formale dei crismi architettonici persiani traferiti al XIX secolo, per il volere inizialmente del nobile minore della dinastia Qajar, Mohammad Hassan. Erede del khanato di Iravan, che si era trasferito successivamente al proprio matrimonio con la principessa Mahrokhsar Khanom, ottenendo una posizione amministrativa nel governo centrale di Teheran. Nient’altro che un punto di partenza, senz’altro, per un’opera di questa portata: il tipo di residenza e luogo di ritrovo utilizzato normalmente per cerimonie o incontri tra i personaggi più importanti di quell’Era travagliata, su una scala e con perizia largamente superiori alla normalità. Stiamo parlando, in altri termini, di 5,5 ettari circondati da un muro rettangolare con spazi adibiti ad alloggi finemente ornati, posti ai margini di una delle zone più aride dell’intera nazione dell’odierno Iran, il deserto “assoluto” noto come Dasht-e Lut. Eppure a ben vedere ciò che sussiste all’interno del complesso, non si direbbe. Nella separazione in quadranti egualmente alberati secondo i crismi del charbagh o “parco dei quattro quadranti”, percorsi e suddivisi da canali artificiali che sfociano in spettacolari fontane zampillanti e aiuole ricolme di piante e fiori rari. Nell’espressione di più assoluta e incomparabile magnificenza che nessuno, prima di quel momento, avrebbe mai potuto pensare di osservare in siffatto luogo…
L’enigma incendiario dei popoli che fondevano la pietra delle antiche dimore
Attraverso secoli e millenni inverecondi, sotto l’egida di Dei vendicativi e nel trionfo delle basiche pulsioni animalesche, non è mai cambiato il metodo fondamentale usato dagli umani per imporre le proprie verità nel mondo. Forza d’intenti e convinzioni, quell’identità possente ed immutabile di chi è convinto. Ma soprattutto ed al di là di ogni possibile punto di vista, la forza inarrestabile delle armi. Strumenti antichi come quelli che governano l’istituzione stessa della civiltà, spesso identificati in qualità di metodi per elevarsi e controllare la natura. Primo tra tutti, il fuoco. E i segni bellici del suo utilizzo, l’energica possenza concentrata ove un qualcosa che era stato necessario, ora sognava di essere distrutto. Come cicatrici senza tempo, cumuli di pietre parzialmente annerite si presentano in alcuni luoghi dell’Europa settentrionale. Ma soprattutto in Scozia, con gli esempi più famosi a Dun Mac Sniachan (Argyll), Benderloch (Oban), Craig Phadraig (Inverness). La cui caratteristica fondamentale, a ben vedere, è la collocazione paesaggistica sulla cima di elevate colline, in quanto pratici residui di fortezze utilizzate dai remoti predecessori della collettività presente. Nulla spiega, tuttavia, l’esatta ragione e soprattutto il metodo dell’implicita modalità impiegata in questo tipo di trasformazione edile. Giacché ad un’analisi più approfondita, come praticata per la prima volta nel 1777 dall’archeologo John Williams, queste rovine risalenti all’epoca della Preistoria presentano profonde alterazioni che vanno ben oltre tale cromatismo delle rocce dioritiche soggette al trascorrere di incalcolabili generazioni umane. Con parti fuse al punto di apparire lucide, simili a smalti polverosi, che fluiscono in forme organiche del tutto degne di figure e ambientazioni del fantastico contemporaneo. Il che significa, in termini di tipo più conciso, che sono stati sottoposti ad un processo antropogenico di vitrificazione.
Qualcosa di difficile ed inevitabilmente complesso da implementare, soprattutto sulla scala degli svariati centinaia di metri coinvolti nel caso di talune cinte murarie; considerate, a tal proposito le temperature necessarie alla fusione dei graniti, agevolmente superiori al migliaio di gradi. Non così difficili, nell’Età del Ferro, da raggiungere all’interno di un forno per la ceramica. Ma tutt’altra cosa è farlo sulla scala di elementi architettonici di proporzioni tanto significative. Il che si affrettò ad aprire, già nella tarda epoca dei Lumi, la questione tanto che in un celebre studio sperimentale di Childe e Thorneycrof presentato alla Royal Society nel 1937, si esordisce con la locuzione: “A tal punto la questione dei forti vitrificati ha occupato le sessioni precedenti di questa prestigiosa istituzione, da non portarci a ritenere necessarie ulteriori spiegazioni di cosa siano. Ecco, dunque, ciò che abbiamo scoperto…”



