La flotta di trenini sotterranei che consegnava in automatico la posta dei londinesi

Strade che s’incrociano, si sovrappongono, diventano migliaia. Mentre la città si espande in ogni direzione, incluso l’asse verticale di svettanti palazzi e grattacieli. E sotto a questo, nell’oscurità sepolta, le radici di quegli alberi si espandono a raggera; sinuose, longilinee. Dove un tempo vi era solo la solidità impenetrabile della materia, adesso scorrono veloci, macchine logistiche create dalla brulicante umanità. Ma non ci sono solo passeggeri, ad impiegare l’utile servizio dei tragitti di scavo. In una città com’era Londra dell’inizio del Novecento, dove l’incontro tra una vasta quantità di strati sociali avrebbe portato ad una delle prime manifestazioni apprezzabili dell’ora di punta, e tutto ciò che questa comporta. Un luogo la cui singolare geologia dovuta ad un profondo strato argilloso, notoriamente, permetteva di scavare gallerie non permeabili e perfettamente durature. Come già dimostrato nel corso del secolo precedentemente trascorso mediante infrastrutture come il tunnel sotto il Tamigi (1843) e l’avveniristica ferrovia metropolitana (1863) la più significativa applicazione della metodologia dei grandi scudi di scavo, capaci di farsi strada nel sottosuolo come la testa di un verme delle sabbie proveniente dal pianeta Dune. Perché sorprendersi dunque, se tra i due eventi Sir Rowland Hill, famoso inventore, insegnante e riformatore sociale inglese, pensò d’esiliare per quanto possibile in tali recessi anche l’importante funzione di consegna di pacchi e buste postali, attraverso la creazione di un qualcosa di logisticamente rivoluzionario. E teorizzando, lui per primo, un sistema in grado di far muovere tali oggetti all’interno di un angusto tubo, sfruttando unicamente l’energia dell’aria prodotta da una pompa a vapore. La Compagnia di Consegna Pneumatica nacque perciò nel 1859, per opera di Rammel & Clark, con un capitale d’investimento iniziale di 25.000 sterline. La loro unica concessione ai posteri, una linea con binari distanziati di 610 mm per la lunghezza approssimativa di un terzo di miglia tra Euston ed Evershol, vedeva quindi il semplice vagone sparato come un tappo di champagne con un’energia sufficiente a consegnare fino a 35 sacchi di posta nel giro di un minuto, 13 volte al giorno. Questa prima linea, giudicata come un prototipo della capillare rete a venire, fu tuttavia soggetta ad un’approfondita analisi dei costi e benefici, finendo per giudicarla controproducente all’economia cittadina. Eppure, un approccio migliore doveva pur esistere e caso vuole che l’idea, svariati anni dopo, sarebbe arrivata dalle remote frontiere del Nuovo Mondo, entro i confini dell’emergente metropoli americana di Chicago.
Loro la chiamavano “Tunnel Company” ed era tecnicamente una linea interurbana di piccoli treni, destinata a crescere esponenzialmente entro gli anni che si estendevano tra il 1906 ed il 1959. Giusto in tempo perché la città di Londra, ancora entusiasta dei notevoli risultati ottenuti mediante le moderne tecnologie di scavo, pensasse di adottare una versione personalizzata della stessa soluzione operativa. Era il 1911, quindi, quando le autorità londinesi pensarono di resuscitare l’iniziativa di un meccanismo di consegna delle poste sotterraneo, pianificandone il tragitto iniziale tra Paddington e Whitechapel, sotto due dei centri di smistamento più imponenti dell’intera capitale. Ma ci sarebbe voluto fino al 1927, complice lo scoppio della grande guerra, perché fosse possibile completarne l’effettiva inaugurazione. La compagnia John Mowlem and Co, incaricata del compito, concepì quindi un approccio che potesse funzionare in maniera del tutto parallela, eppure sostanzialmente diversa, da quella dei tunnel della metropolitana pre-esistente. Con un singolo tubo di 2,7 metri di diametro e doppi binari, che si estendeva tra stazioni non dissimili da quelle concepite unicamente per l’utilizzo umano, ma situate comparabilmente molto più vicine alla superficie. Questo affinché i piccoli treni con 2 piedi (610 mm) di scartamento potessero usufruire di discese in fase di accelerazione e salite capaci di rallentarne la marcia senza un eccessivo dispendio d’energia. E un margine d’errore quasi nullo, visto l’aspetto più anomalo ed interessante dell’intera faccenda: l’assoluta mancanza di un qualsiasi macchinista a bordo, portando ciascun convoglio ad essere controllato in remoto, proprio come un gigantesco trenino elettrico per utilizzatori decisamente adulti…

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Breve indovinello dell’esercito americano: quante ruote ha una capra?

Mentre le pietre rotolavano giù dall’irto declivio che avrebbero dovuto percorrere per far finalmente ritorno alla base, le forze dell’82° Armata a bordo del veicolo facevano il tifo silenziosamente per il proprio guidatore. Un addetto inviato recentemente da Oltreoceano, per mostrare a tutti cosa avrebbe potuto fare in mani esperte un mezzo come quello, chiamato ironicamente dai suoi utilizzatori con la storpiatura di Gamma Goat. Nelle acque torbide del torrente appena attraversato, un gruppo di forme scagliose dalla lunga coda aspettavano silenziosamente l’esito, immobilizzate dal frastuono di quel potentissimo motore. Mentre speravano, silenziosi e subdoli coccodrilli, che le cose prendessero una piega totalmente all’opposto dell’esito sperato dagli umani. Con un sobbalzo, i vibranti passeggeri si resero conto in quel momento della strana piega degli eventi: mentre la parte frontale dell’autoveicolo a sei ruote motrici si adagiava oltre l’alto argine fangoso e il carrello posteriore continuava a poggiare in senso obliquo giù per la terrificante discesa. Per un attimo, pensarono che si fosse spezzato in due! E la loro breve carriera militare avrebbe raggiunto l’ultimo e sconveniente capitolo tra i denti di un diverso e inaspettato nemico. Ma poi, notarono qualcosa: che i grandi pneumatici posteriori continuavano a girare, e girare…
Per tutto il periodo della seconda guerra mondiale e durante lo svolgersi del conflitto coreano, il G.I. statunitense aveva potuto fare affidamento sul perfetto “animale” da soma: l’affidabilmente versatile, universale, adattabile Wyllis MB, soprattutto nota ai posteri con il nome di Jeep 4×4. Utilizzata con successo anche dagli eserciti sovietico, britannico e francese, nonché le forze dell’Asse ogni qualvolta gli riusciva di catturarne una, l’automobile fuoristrada dall’enorme quanto riconoscibile griglia frontale del radiatore diventò attraverso gli anni un simbolo riconoscibile della strategia estera del suo paese originario di provenienza, fatta di democrazia bonaria, seguita da dimostrazioni pratiche, ed infine l’arrivo di coloro che avrebbero messo le cose a posto, indipendentemente dal prezzo necessario ad ottenere il risultato finale. A partire dal 1959 tuttavia, mentre l’alleato francese dislocava le proprie forze nella parte meridionale della penisola vietnamita e l’Unione Sovietica forniva strategie ed armamenti al fondatore e il capo politico dei Viet Cong, una preoccupante notizia giunse dalla terra delle giungle senza fine, il territorio paludoso e i molti tipi d’ostacoli fangosi estremamente difficili da ignorare: che se il futuro nemico poteva percorrere senza problemi a piedi il cosiddetto sentiero accidentato di Ho Chi Min, lo stesso non poteva dirsi dei mezzi di trasporto in uso presso le forza allineate con gli obiettivi e le intenzioni del Blocco Occidentale. Poiché troppo a lungo, semplicemente, ogni autocarro, automobile o motociclo creati dai think tank e i gabinetti strategici di mezzo mondo era stato concepito a partire da un utilizzo su strade asfaltate, e soltanto in seguito adattato alle difficili asperità incontrabili nel mondo naturale più incontaminato e selvaggio. Un rapido cambio di paradigma, dunque, si profilava come necessario all’orizzonte e ancora una volta gli americani fecero quello che gli riusciva meglio: affidandosi alle potenzialità creative del libero mercato, indissero un appalto, coinvolgendo i molti marchi dei loro più affidabili e comprovati fornitori. Tra cui Clark e General Motors, ma anche il produttore di mezzi pesanti da cantiere LeTourneau Technologies, poiché appariva chiaro, in quel fatidico momento, che i vecchi metodi non sarebbero più risultati sufficienti a perseguire l’arduo fine prefissato. Una pletora di compagnie tra le quali, inaspettatamente, avrebbe figurato anche il contributo di un letterale gigante dell’aeronautica, quella LTV Aerospace, già Vought-Sikorsky e ancora prima Lewis and Vought Corporation, che essendo la figlia imprenditoriale del pioniere del volo Chance M. Vought, tanto aveva fatto per potenziare le capacità operative della terza Arma della nazione, spinta fino ai cieli dall’impiego di motori, eliche e superfici in grado di generare portanza. Un abbinamento… Insolito, senz’altro. Ma caso vuole che l’azienda avesse acquisito di recente un particolare brevetto, creato pochi anni prima dall’ingegnere ed inventore Roger Gamaunt, capace di cambiare radicalmente le aspettative su cosa dovesse rappresentare in effetti un mezzo di trasporto multi-asse. E quali fossero le proprie potenzialità inerenti, quando dotato di particolari accorgimenti costruttivi….

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L’arrugginita lezione storica del cimitero dei carri armati d’Eritrea

Una letterale muraglia a pochi chilometri dalla più importante città dell’Africa trasformata in “colonia” italiana, nell’ormai distante epoca dei totalitarismi moderni. Non composta dei migliori materiali da costruzione, come gli edifici futuribili creati dal gotha dell’architettura fascista, lo svettante Cinema Impero, o la surreale stazione di servizio “Fiat Tagliero” con le sue ali di cemento simili a quelle di un aeroplano. Bensì metallo e fichi d’India, intrecciati in un ammasso indistinguibile ed invalicabile ai bambini locali, i cani randagi e le occasionali guardianìe inviate a sorvegliare i dintorni. Ma che nondimeno continua, insistentemente, ad attirare i più curiosi tra i turisti che dimostrano il coraggio necessario a fare un esperienza di viaggio in uno dei paesi più chiusi e riservati d’Africa, al punto da essere stato chiamato una piccola Corea del Nord. E come biasimarli, in fondo? C’è del fascino in questi vetusti e malridotti rottami. Gusci fin troppo riconoscibili di carri armati T-55 e T-62, circondati da trasporti anfibi BMP-1 e la carrozzeria dismessa di una pletora di camion militari. Qui un Gvodizka, l’antico cannone di grosso calibro usato come nido per gli uccelli locali. Là una scala mobile aeronautica, coperta di agguerriti rampicanti. Davvero il massimo del divertimento! Manca soltanto l’ampio e letterale lago di sangue, risultante da un conflitto interminabile che potrebbe essere costato la vita ad una stima assai conservativa di circa 200.000 persone…
Era una mattina in apparenza simile a ogni altra, quella del 17 marzo 1988 nella regione africana del Tigrè. Un indefinito gruppo di persone proveniente dalla capitale d’Eritrea, Asmara, varcò tranquillamente i confini della valle di Hedai, scendendo per pendii sabbiosi mentre si coordinava a distanza con due gruppi distanti, tramite l’impiego di una serie di ricetrasmittenti a distanza. Giovani, adulti, qualche anziano dall’aspetto indurito dalle molte difficoltà della vita. Facendosi scudo dal sole con il palmo della mano, quindi, l’esperto perlustratore incaricato inviò il segnale necessario per aprire gli zaini e tirare fuori l’equipaggiamento. L’85° divisione meccanizzata dell’EPLF aveva finalmente circondato le guarnigioni armate dell’Esercito Etiope. Al segnale concordato, il vociare diffuso si trasformò in un glaciale ed assoluto silenzio, mentre gli AK47, gli antichi lanciarazzi e le bombe a mano iniziavano a risplendere sotto la luce dell’alba. Era l’ora di tentare il tutto per tutto. Era tempo di guadagnarsi la libertà, o morire nel tentativo di farlo.
Questo particolare capitolo di un conflitto lungo trent’anni, destinato a passare alla storia con il nome di battaglia di Afabet, avrebbe costituito un importante punto di svolta nella lunga disputa belligerante per l’indipendenza politica di un paese di appena tre milioni e mezzo di persone, illegalmente annesso da una nazione che ne contava circa un centinaio sotto l’egida dell’ormai deposto imperatore Hailé Selassié, ormai detronizzato dal remoto 1974 ad opera di una giunta militare socialista guidata dall’uomo forte Mengistu Haile Mariam. Le cui truppe pesantemente armate, grazie a un contributo significativo dell’Unione Sovietica, avrebbero nondimeno incontrato la già dura resistenza proveniente da una tradizione di guerriglia, che aveva radici profonde nella storia di questo popolo e dei suoi eroi. “Per Hamid Idris Awate, uomini, all’attacco!” Gridò un caporale, ricordando l’eroico condottiero che con soli 11 compagni, un anno dopo l’occupazione del 1960, aveva teso un imboscata e disperso le forze della polizia segreta nella regione montuosa di Adal, per poi morire a causa delle sue ferite. Dieci nemici per ciascuno dei loro, così si raccontava, eppure la giustizia prevalse allora. Come avrebbe fatto in quel fatidico giorno, sotto i colpi di una serie di cannoni anticarro catturati e trasportati segretamente in posizione, sufficienti a immobilizzare una colonna di veicoli sulla stretta e tortuosa strada necessaria a lasciare la valle. Così che gli ufficiali etiopi, intravedendo la realistica possibilità che i loro stessi armamenti potessero cadere in mano al fronte di liberazione, diedero l’unico ordine che avrebbe potuto conservarli in sani e salvi dinnanzi all’autorità di Mengistu: bombardare i loro stessi uomini, con un generoso ed entusiasta aiuto da parte dell’aviazione. Fu l’inizio di un disastro senza precedenti, nonché l’accumulo di un quantità eccezionalmente spropositata di rottami. Cadaveri d’acciaio assieme a quelli fatti di carne e sangue, che tuttavia presentavano un problema logistico di un tipo niente affatto trascurabile. Tanto da richiedere il trasporto in un luogo ormai tristemente (nonché, gloriosamente) noto…

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L’arcaica utilità delle bombe-trappola disposte intenzionalmente sui binari del treno

Il macchinista del potente treno a vapore spinse innanzi la leva che controllava la potenza, perfettamente consapevole del lungo tratto rettilineo che lo separava dal capolinea di Birmingham, al termine di una lunga giornata di lavoro. “Finalmente ci siamo. Cara, aspettami con la cena!” pensò in silenzio, mentre scrutava con lieve preoccupazione l’orizzonte nebuloso, con un vago accenno di nebbia dovuta all’avanzare di un fronte di bassa pressione. E proprio sul finire di quel fatidico secondo, all’improvviso, udì un suono roboante provenire dalla ruota anteriore destra della locomotiva, perfettamente riconoscibile da parte del suo orecchio allenato. “Uno, segnala 270 metri di distanza dal primo cartello che indica la stazione. Con questo tempo…” Ma tutto ciò era veramente possibile? Percorreva quella tratta ormai da svariati anni, e sapeva perfettamente di essere ancora a svariati chilometri dalla meta. Con giusto il tempo necessario a dubitare di se stesso, mentre avvicinava la sua mano ai controlli per decelerare, l’uomo sentì all’improvviso il secondo colpo. “Due… Rallentare causa condizioni problematiche sui binari.” Effettuando un gesto deciso, adesso, smorzò significativamente l’erogazione della potenza, mentre il fumo in eccesso proveniente dalla ciminiera andava a confondersi in oscure volute tra le nebbie di un cielo indistinto. Ma soprattutto, protese l’orecchio, per il terzo possibile richiamo. Che puntualmente, al trascorrere dei pochi attimi necessari a percorrere una ventina di metri, emerse chiaramente dal ritmico sferragliare del veicolo simbolo della sua professione. “Tre… Frenare!” Più rapido, adesso. Il macchinista rimise la leva in posizione di quiete, mentre girava la manopola usata unicamente nei casi d’emergenza. Per buona misura, nel contempo, tirò la catena che azionava la sirena, nella futile speranza che potesse servire a preparare i suoi pochi passeggeri, principalmente pendolari di ritorno da lavori periferici e fuori dall’ambiente urbano. Un rumore stridente, adesso, proveniva da sotto il fondo dell’angusto ambiente cubicolare, mentre con espressione preoccupata, l’uomo si sporse per quanto possibile fuori dall’apertura laterale, per cercare di scorgere quanto distante fosse dall’unica possibile ragione di una simile manovra. La spinta inerziale in avanti adesso era significativa, portando le sue mani a premere dolorosamente sulla struttura metallica della vettura. Ma d’un tratto, lo vide: il convoglio espresso per Nottingham, completamente immobile sui binari, causa un probabile guasto tecnico o alle condutture del vapore. Effettuata una serie di rapidi calcoli, non poté fare a meno d’interrogarsi sul suo destino, mentre si affrettava a rientrare e mettersi nella zona più sicura del suo posto di lavoro. Quante volte aveva temuto uno scenario simile, eppure, eppure… Mentre il potente rumore dei freni continuava ad aumentare e scintille circondavano l’abitacolo, il treno rallentò progressivamente. “Perfetto, così non deraglieremo.” Pensò il macchinista “Ora non ci frantumeremo…” Più piano, sempre più lentamente. Finché d’un tratto, il movimento diventò una lenta marcia e fu allora che un quarto colpo risuonò nell’aria tersa della sera. “Contatto! Ma siamo sani e salvi… Sia lode a Santa Barbara, la protettrice di ogni tipo d’esplosivo, cannone o petardo per l’uso ferroviario.”
Questo si era prefigurato e tanto aveva fatto per realizzarlo, Edward Alfred Cowper, ingegnere ed architetto di numerose innovazioni in epoca vittoriana, relative a quel particolare mezzo di trasporto che nell’ora del bisogno aveva dato il suo contributo al nuovo mondo tecnologico dell’Inghilterra figlia della rivoluzione industriale. Figlio di un inventore, quell’Edward Shickle che nel 1820 aveva collaborato a creare la pressa da stampa verticale, nato nel 1819 e diventato soltanto 14 anni dopo un apprendista del celebre John Braithwaite, costruttore della prima locomotiva in grado di percorrere un miglio in un tempo inferiore ad un minuto. Minori tempi d’attesa dunque, ma anche maggior pericolo, soprattutto nel caso in cui possibili imprevisti sui binari avessero potuto insorgere contemporaneamente a condizioni climatiche tutt’altro che ideali. Fu così che pensando approfonditamente al problema, in un’epoca in cui soluzioni di comunicazione a lunga distanza montate su di un treno risultavano tanto improbabili quanto un sistema di localizzazione satellitare, Cowper elaborò un sistema infallibile per far sapere all’incaricato che avrebbe dovuto intervenire onde prevenire l’insorgere del disastro. Nient’altro che un dischetto di metallo facilmente deformabile, con all’interno una certa quantità di polvere da sparo. Fornito di un paio di “braccia” utilizzate per fissarlo ai binari in caso di necessità, affinché la semplice pressione del treno potesse comprimerlo, causandone l’immediata detonazione. Un’evenienza particolarmente difficile da ignorare…

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