Famosa scena dei Simpson ricreata con la vera aurora boreale

Cos’è in fondo uno specifico ricordo, se non l’accumulo di una serie di segnali elettrici nei neuroni del nostro cervello, che rimandano a sollecitazioni ed esperienze sensoriali precedentemente vissute? Così che la situazione tipica di un viaggio, passato un numero sufficientemente elevato di anni, sfuma nella nostra fantasia e diventa simile al racconto mitologico di un menestrello, appollaiato sulla spalla come il tipico compagno aviario del pirata caraibico in cerca di un remoto tesoro. Mentre ciò che ricordiamo anche troppo bene, attraverso la pratica quotidiana di un tranquillo passatempo, ripetuto molti anni per le repliche, le citazioni ed i discorsi collettivi creati per celebrarlo, è il nostro episodio preferito di una serie televisiva, particolarmente se quest’ultima rimanda in via diretta a piacevoli momenti della nostra infanzia. Ed è questo ciò che si usa intendere, quando viene utilizzata l’espressione tradotta in italiano come “vitellone al vapore” ma che nella versione in lingua originale steamed hams conteneva un doppio riferimento, molto più rilevante, al concetto di “prosciutto” (ham) e per l’appunto, ham-burgers. Un cibo adatto, come è noto, a tutte le occasioni. Tranne una: la visita formale del proprio superiore al lavoro, ovvero nel caso di un preside scolastico statunitense, il proprio sovrintendente di distretto regionale, col potere di aumentargli lo stipendio o mandarlo dritto sulle liste dei disoccupati, qualora dovesse ritenerlo inadeguato a un così difficile e importante ruolo.
Per venire quindi a questo video probabilmente destinato a gloria imperitura, Neil e Thomas sono due guide turistiche norvegesi della popolosa città nordica di Tromsø, famosa al tempo stesso come punto di partenza d’innumerevoli spedizioni indirizzate alla ricerca del Polo Nord e in funzione degli spettacolari fenomeni elettromagnetici del suo cielo notturno, causati dal passaggio obliquo del vento solare. Due protagonisti dell’età giusta per essere cresciuti, come molti di noi, assistendo alle peripezie immaginarie della più famosa famiglia dei cartoni animati, quei Simpson che attraverso un periodo di quasi trent’anni ed oltre 600 episodi, hanno offerto alternativamente momenti comici ed avventurosi, parodie americane ed internazionali, grosse risate e qualche volta in epoca recente, una comprensibile delusione nei confronti di sceneggiatori ormai a corto d’idee. Il cui motto potrebbe essere: “Tutti devono avere un momento di gloria!” nella continua ricerca di materiale fondato sull’esperienza umana delle molte centinaia di personaggi, molti dei quali ormai ricorrenti, che compongono la nutrita popolazione della loro misteriosa città, geograficamente mai localizzata su alcuna mappa degli States. Un doppio approccio più che mai riassunto nel memorabile episodio n. 149 del 1996, dal titolo programmatico di “22 cortometraggi di Springfield” che ispirandosi dichiaratamente al film cult tarantiniano Pulp Fiction, propone una serie di storie brevi interconnesse tra di loro, benché semplificate dalla loro necessità di venire compresse in un periodo di appena mezz’ora. Tra cui quella principale, nell’immaginario collettivo, resta certamente il succitato pranzo che il preside e veterano del Vietnam Seymour Skinner si ritrova, suo malgrado, ad offrire al severo sovrintendente Chalmers, l’unica persona in grado d’incutere timore a chi è capace di domare persino il terribile Bart Simpson. Il che ci porta, senza ulteriori indugi, all’indimenticabile sequenza qui rappresentata dal vivo.

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È possibile usare un paio di pattini nella foresta?

Quando si osserva la catena sportiva dei possibili controsensi, appare evidente che asfalto e Rollerblade costituiscono una coppia di concetti inscindibili, per cui l’uno perpetra l’altro, permettendo il realizzarsi dell’energia contenuta in ciascuna singola falcata dell’utilizzatore di turno. Eppure, tutto questo non può essere soltanto un effetto speciale: Dustin Werbeski, lo skater canadese di ritorno dopo tanti anni dall’epoca della sua nascita professionale in Spagna, che esplora i densi boschi circostanti la città natìa di Vancouver, Canada. E per farlo sceglie di utilizzare, neanche a dirlo, le mercuriali scarpe che hanno contribuito a renderlo famoso, prima come fotografo e regista dell’operato altrui, poi in prima persona, a seguito della realizzazione che in effetti, poteva fare persino di meglio. Il mondo di quelli che oggi vengono definiti “sport d’azione”, come è noto, costituisce un ambiente estremamente competitivo. Dove per emergere, la strada migliore va ricercata nella propria stessa capacità d’innovare e se possibile, sorprendere gli spettatori; il che comporta, il più delle volte, il tentativo riuscito di cavalcare l’onda di un qualche progresso tecnologico e funzionale. Come quello, largamente sconosciuto al di fuori di un pubblico di appassionati, del pattinaggio in linea off-road.
Lo sportivo racconta di aver conosciuto per la prima volta questa disciplina il giorno stesso del suo arrivo a Barcellona, intorno al 2012, quando l’azienda Powerslide di Bindlach, in Baviera, aveva iniziato da poco il revival di un concetto che aveva in realtà già vissuto un’epoca d’oro negli anni ’90, grazie all’opera della stessa antonomasia di settore, la Rollerblade. Chiamati in gergo big wheel bladers, questi pattini particolari facenti parte della collezione dell’amico Oli Benet presentavano prestazioni tecniche decisamente al di sopra della media, con una struttura solida e ammortizzata, allacci estremamente rigidi e un punto particolare di rottura rispetto alla tradizione: tre ruote, invece di quattro, dal diametro quasi raddoppiato. Ora la dimensione di queste ultime, generalmente, costituisce nei pattini in linea un importante tratto di distinzione: poiché fin da quando Scott e Brenan Olson, i due giocatori di hockey del Minnesota che avevano trovato un modo per fare pratica in estate sostituendo le lame da ghiaccio della propria disciplina di provenienza, riuscirono a vendere la propria idea alla multinazionale di articoli sportivi italiana Roces nei primi anni ’80, fu estremamente chiaro il concetto secondo cui ruote maggiorate comportassero una velocità raggiungibile superiore, ma anche maggiori difficoltà nelle curve e al momento in cui diventava necessario fermarsi senza un significativo preavviso. Eppure col trascorrere degli anni ciò che appariva adatto soltanto a dei veri professionisti diventò, gradualmente, lo standard accettato, facendo figurare pattini con diametri da 70 e 80 mm nei cataloghi ad uso generalista, laddove in origine venivano considerati l’ideale soltanto per il freestyle, le gare di velocità e lo slalom. Mentre in questi ultimi prendevano piede i più moderni modelli da 100. E qualcuno sceglieva, di sua personale iniziativa, d’indossare qualcosa di ancora diverso. Ruote ai piedi capaci di superare abbondantemente i 125 mm per unità, ritrovando in un certo senso quello che aveva costituito, ancor prima dell’epoca contemporanea, il significato stesso del mettersi i pattini ai piedi: scappare via dal chaos inquinato della città, oltre i confini stessi dell’asfalto. Per immergersi, attraverso la forza delle proprie stesse falcate energiche, nel regno selvaggio e incontaminato della natura.

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La torre di 50 metri sullo scoglio più remoto della Cornovaglia

Sagoma stagliata nella nebbia, circondata dall’alone di un sole stranamente remoto. Che si erge in mezzo ai flutti, sostenuta da una forma larga appena quanto le sue stesse fondamenta. Tanto da lasciar pensare che debba inevitabilmente trattarsi, quanto meno, di una costruzione ultra-moderna, basata su una titanica colata di cemento, oppure soluzioni tecniche come dei grandi galleggianti. Niente, tuttavia, potrebbe essere più distante dalla verità: poiché il faro di Bishop Rock (la Roccia del Vescovo) ha in effetti oltre un secolo e mezzo di storia, ed è stato collocato lì in risposta ad una serie di drammatici eventi, particolarmente celebri nel tormentato tragitto della storia d’Inghilterra.
Poche vicende costituiscono la dimostrazione dell’orgoglio sproporzionato di un uomo in una posizione autorevole, nonché della sua intera categoria professionale, quanto il tragico disastro delle Isole Scilly del 1707, culminante con la perdita di un numero tra i 1.400 e 2.000 marinai e i loro stesso ammiraglio, di ritorno da una difficile battaglia di supporto della guerra di successione spagnola, relativa al blocco della città francese di Toulon. Al punto che assai numerose furono le dicerie e leggende, sulla fine inevitabile di Sir Cloudesley Shovell, già veterano di almeno due tra i numerosi conflitti navali combattuti dalla Marina Reale in Europa verso la fine del XVII secolo. Tra cui la storia, al tempo stesso tipica e altamente indicativa, sul marinaio originario di questo particolare arcipelago, che trovandosi a bordo della stessa nave del supremo comandante, sentendosi obbligato a far sentire la sua voce, in merito al fatto che la flotta si trovasse molto più a settentrione di quanto era stato calcolato. Tutto ciò, ottenendo solamente una severa punizione, corrispondente secondo alcune versioni all’immediata impiccagione all’albero maestro. Piuttosto eccessivo, nevvero? Fatto sta che questo fosse il tipo di naufragio, capace di coinvolgere quattro delle venti navi sotto il disgraziato comando e in grado di lasciare un segno profondo nell’immaginazione di un paese e la sua elite al potere, gli uomini del Parlamento sotto la tutela del Re.
Il primo atto compiuto a tal proposito, dunque, sarebbe stato quello di far traslocare la tomba dello stesso Shovell, che una volta seppellito sulla vicina isola principale dell’arcipelago, era diventata vera e propria pietra dell’infamia per l’odio popolare, a causa del mito sulla fine del subordinato ingiustamente punito. Il secondo sarebbe effettivamente passato alla Storia, come Atto della Longitudine del 1714, emanato dal governo affinché la marina fosse fornita, dietro lauta ricompensa, di un sistema nuovo e più efficiente per triangolare la propria posizione in mare. Voleva il caso infatti, che mentre l’arco del parallelo geografico corrente fosse ragionevolmente facile da determinare, grazie all’altezza del sole a mezzogiorno o delle stelle nel cielo notturno, l’unico modo conosciuto al tempo per determinare il meridiano fosse ricorrere alla navigazione stimata (o dead reckoning) sulla base della velocità e il tempo di navigazione trascorso. Un sistema inerentemente impreciso, di fino a un ventesimo del cammino compiuto fino a un determinato momento, con conseguenze potenzialmente disastrose e già ampiamente dimostrate. Ma poiché le varie soluzioni tra cui cronometri e solcometri più precisi, oltre a un nuovo sistema di calcolo dell’altitudine lunare elaborato dal carpentiere e orologiaio John Harrison dietro lauta ricompensa governativa, tardavano a prendere piede tra coloro che ne avrebbero dovuto fare un uso coscienzioso, causando tra l’altro ulteriori naufragi presso le isole di Scilly, il governo scelse di rivolgersi come terza contromisura alla Trinity House, la corporazione fondata nel 1514 e ancora oggi operativa, con l’antico incarico di gestire tutti i fari della Gran Bretagna. E fu così che ad oltre un secolo di distanza il rinomato ingegnere di origini scozzesi James Walker venne trasportato per la prima volta presso lo scoglio responsabile di tante disgrazie, per il sopralluogo che avrebbe portato, nel 1847, alla costruzione del primo faro di Bishop Rock.

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L’inquietante albero che sanguina come una persona

Difficile immaginare un’esperienza peggiore di trovarsi a fare una serena passeggiata nell’oscura selva degli Inferi quando la propria guida tramite intercessione Divina, in realtà un ex-poeta romano di una certa fama, vi dice con tono enfatico: “Perché non provi adesso a spezzare il rametto di questo arbusto contorto e straziato dalle arpie?” Il che dovrebbe, ragionevolmente parlando, suscitare in voi un certo senso di sospetto. Considerato il contesto, l’indole goliardica del soggetto e così via dicendo. Ma per amor di questa Commedia, diciamo che accettate di farlo; grosso errore! Perché allora sentirete un grido riecheggiare nella penombra chtonia; mentre linfa vitale vermiglia inizierà a colare dal moncone legnoso; e l’anima tormentata di quel defunto, trasformato in un vegetale per punizione del suo stesso suicidio vi chiederà con voce tremante: “Per quale ragione mi fai questo? Pier della Vigna non ha forse già sofferto… Abbastanza?”
Per lo meno, in quel particolare contesto storico/letterario. Poiché vi sono cose che la tecnologia migliora. Ed altre invece che ne vengono, per così dire, enfatizzate. Ovvero portate agli estremi: vedi l’esempio della classica sega elettrica a nastro. Usando la quale un ignoto boscaiolo deve pur aver fatto nel corso degli anni la sua shockante conoscenza del genus Corymbia, un tipo di albero della gomma di tipologia kino, strettamente imparentato con gli eucalipti, che possiede una caratteristica molto particolare. Quella linfa simile al sangue in grado di scaturire dalle sue ferite, ricoprendole e coagulandosi per protezione esattamente come succede agli esseri del regno animale. In merito a cui verrebbe da chiedere nell’impressionante frangente, rivolgendosi a Madre Natura stessa: “C’era davvero bisogno di farla… Rossa?”
Mani insanguinate. Scarpe insanguinate. Il volto contorto dal senso di colpa e lo stesso strumento a motore di taglio, macchiato senza apparente speranza di ritornare quello che era. Con quell’albero dannato che, alquanto incredibilmente, sembra emanare il torturato flusso a getti successivi, quasi fossero causati dal battito di un cuore nascosto. Vedere per credere, uno dei tanti video reperibili online. Ora io non saprei quale sia l’origine precisa di un tale fenomeno (benché si possa ipotizzare essere connesso alla viscosità della resina e l’accumulo di pressione in prossimità della corteccia esterna) ma non mi sorprenderebbe affatto se, nella storia pregressa della foresteria australiana siano effettivamente esistiti dei letterali obiettori di coscienza, disposti a fare il proprio lavoro in qualsiasi occasione, tranne quando relativo a un albero di questa disperata genìa. La storia c’insegna, del resto, come arbusti dalle caratteristiche molto simili furono sempre associati a un concetto mitologico di estrema rilevanza: quello del sangue dei draghi, di cui si riteneva che fossero la forma ormai defunta e incapace di nuocere, benché ancora dotata di un certo raziocinio inerente. Da lì all’esperienza di Dante, e prima di lui lo stesso pio Enea nell’opera più famosa del suo anfitrione Virgilio, ai danni del trasfigurato principe Polidoro di Troia, il passo è (relativamente) breve…

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