L’eleganza matematica di un buco nero nei mari del Sud

Master & Commanders dei secoli trascorsi, capitani coraggiosi che spingevano il Vecchio Carro attorno al Corno e il Capo di Buona Speranza. E spingevano e spingevano, volgendo l’orgoglioso sguardo a quelle latitudini dannate, dei cosiddetti ruggenti 40 e gli urlanti 50 gradi dal distante sogno dell’equatore. Là dove le correnti oceaniche, non più vincolate dalle rigide barriere dei continenti, riuscivano ad assomigliare al fiero flusso di una lavatrice planetaria… Ciò che allora non potevano per nulla prevedere, tuttavia, causa la fondamentale assenza di strumenti o mezzi adeguati, era l’ordine nascosto in quei fenomeni, ovvero quel principio inevitabile secondo cui, all’incontro ed all’incrocio di un simile maelström di potenze, forme straordinariamente regolari trovavano la loro genesi remota, crescendo fino a dimensioni orribilmente spropositate. 100, 150, persino 200 miglia: questa è l’ampiezza, sospettata per la prima volta durante le osservazioni condotte a largo dell’Alaska e del Canada negli anni ’80 del Novecento, di un vortice oceanico della mesoscala, paragonabile in tal senso ad un massiccio sistema d’aria situato negli strati superiori dell’atmosfera. Benché in epoca ancor più recente si sarebbe scoperto come non tanto il Pacifico, quanto piuttosto l’Oceano Indiano, costituisse l’ideale fonte generativa di tali transitori ed instabili monumenti. Intenti anche loro a viaggiare, in maniera non del tutto prevedibile, grazie alle oscillazioni dell’irregolarità baroclinica di partenza; vedi il caso prototipico degli anelli di Agulhas, situati ai margini dell’omonima corrente oceanica che attraversa l’area posta a meridione del continente africano, considerata con tutta probabilità la più veloce e turbolenta dell’intero pianeta Terra.
Abbastanza pericolosa e problematica, in linea di principio, da aver giustificato la conduzione di una serie di studi atti a prevedere le sue variazioni nel prossimo futuro, affinché le rotte commerciali potessero venire cambiate per evitarla. Tramite l’applicazione di modelli conformi agli studi analitici del grande matematico italiano del XVIII e XIX secolo Joseph-Louis Lagrange, i cui calcoli sono già stati usati in precedenza per risolvere il problema gravitazionale dei tre corpi, individuando i cinque punti ideali ove potremmo, in un remoto domani, collocare vaste stazioni spaziali anche a notevole distanza dal nostro pianeta. Ciò che neanche gli astuti percorritori di un simile sentiero per lo studio dei vortici oceanici avrebbero potuto prevedere, tuttavia, era la scoperta matematica destinata a concretizzarsi nell’anno 2013, con la pubblicazione da parte di Haller e Beron-Vera dello studio condotto in merito a un’insospettata dinamica degli eventi. Poiché come nello spazio siderale ed eterno, sebbene su una scala notevolmente più ridotta, anche nello spazio delimitato dalle acque terrestri essi avevano individuato degli ideali punti di non ritorno. In effetti dei singoli punti chiaramente definibili corrispondenti al centro esatto di ciascun vortice, da cui nessuna ideale particella idrica e salmastra avrebbe mai potuto, in alcun modo, riuscire a liberarsi. Sarà orribilmente chiaro, a questo punto, quello a cui ci stiamo avvicinando: rimpiazzate infatti l’acqua coi fotoni e ciò avrete innanzi ai vostri occhi, è la diretta approssimazione a un buco nero della sempiterna fine dei giorni…

I vortici mesoscalari possono formarsi anche all’interno di spazi chiaramente definiti dalle masse terrestri, come il golfo del Messico e persino il Mediterraneo. In tali ambiti, tuttavia, le loro dimensioni risultano prevedibilmente assai minori.

Cataclisma, distruzione, annientamento: punti fermi di un drammatico destino, a cui saremmo destinati ad andare incontro se soltanto una galattica presenza, di tale entità, avesse la ragione di formarsi entro o attorno al perimetro delle nostre coste (e forse qualcuno ricorderà, attorno all’anno 2012, il timore tanto collettivo quanto assurdo nei confronti del ciclotrone del CERN). Ecco perché i vortici lagrangiani, come i loro stessi scopritori li avevano chiamati nel titolo del loro studio, risultano essere notevolmente meno terrificanti rispetto a quanto il loro nome potrebbe indurre a pensare. La prima cognizione necessaria a comprendere pienamente la loro natura, dunque, parte dalla specifica maniera in cui si è giunti alla reale cognizione della loro esistenza. Frutto di accurate osservazioni satellitari degli spostamenti, rigorosamente autonomi, di boe con localizzatore GPS chiamate drifters, idealmente corrispondenti alla teorica “singola particella” tanto spesso usata come pietra di paragone durante gli studi sulla natura più profonda dell’Universo. Dal che deriva che ogni tipo di registrazione usata da Haller e Beron-Vera nell’elaborazione della loro teoria dovesse essere, necessariamente, di un tipo rigorosamente bidimensionale. In altri termini non esiste alcuna prova, né alcuna ragione di sospettare, che l’epicentro di attrazione dei grandi vortici della mesoscala si trovi in alcun altro luogo che la superficie stessa dell’oceano, caratterizzandoli come dei grandi punti d’attrazione, piuttosto che mostruosi e distruttivi mulinelli. Come del resto potevamo sospettare, sulla base relativamente placida delle loro correnti situate nella circonferenza esterna, soltanto di poco maggiore a quella di spostamento lineare del vortice stesso. Il che non basta certo a renderli una forza meteorologica meno influente, quando si considera le masse d’acqua coinvolte, misurate con un’unità specifica chiamata sverdrup, corrispondente a 1 milione cubico di metri quadri al secondo.
Cifra abbastanza grande, quest’ultima, da giustificare un approfondimento successivo ed ulteriore. La natura chiusa e reiterativa dei vortici lagrangiani è infatti tale da trasformarli in veri e propri veicoli per strati oceanici dalle caratteristiche, e soprattutto il contenuto, distinto rispetto all’ambiente circostante. Per cui al trascorrere di settimane, o mesi dalla formazione di ciascun evento mesoscalare, la temperatura e salinità dell’acqua di cui si compone tendono ad assumere caratteristiche uniche, così come la specifica biosfera che si nasconde all’interno. Nel video di apertura, ad esempio, si parlava di uno di questi colossali buchi neri, situato a meridione del Sud Africa, che aveva improvvisamente iniziato a rifulgere di una misteriosa luce bluastra; per l’effetto dei letterali miliardi di minuscoli organismi autotrofi, appartenenti alla categoria del fitoplancton, che si erano trovati concentrati al suo interno. Condividendo, in tal modo, l’ineluttabile destino dell’ideale particella fotonica, usata tanto a lungo per lo studio cosmico dei buchi neri.

In questo processo collaborativo messo in atto dall’ente statunitense NOAA, un gruppo di studenti è stato coinvolto nella creazione di drifters utili all’osservazione dei vortici oceanici situati attorno al loro continente. Più di una volta iniziative di brainstorming di questo tipo, nella storia scientifica recente, hanno aperto la strada a nuovi e rivoluzionari processi di studio.

La nozione fondamentale dello studio del 2013 è individuabile, a questo punto, nell’assioma fondamentale al centro della tesi dei due studiosi: che la singolarità attrattiva in ciascun vortice non è soltanto una possibilità, bensì l’assoluta certezza in ogni evento mesoscalare passato, attuale ed incombente.
Il che contribuisce a fornirci uno strumento matematico, accompagnato da una considerevole quantità di equazioni, valido a prevederne l’occorrenza e gli spostamenti nell’immediato futuro. Casistica eccezionalmente rara: l’uomo che può interpretare le nascoste intenzioni della natura! Potendo costruire impianti di correlazione, operativi e funzionali, con il mutamento climatico e le manovre necessarie al mantenimento di una società contemporanea, in bilico tra l’autodistruzione e l’integrazione coi processi planetari che continuano, nonostante tutto, a fornirgli valide basi di sostentamento. Seguendo il sentiero dell’analisi razionale già prospettato, e spesso citato contestualmente ai vortici lagrangiani, del celebre racconto breve di Edgar Allan Poe del 1841 sul marinaio sopravvissuto per la sua scaltrezza ad un terrificante mulinello, A descent into the Maelström. Quando ancora non si conoscevano i rapporti matematici alla base della generazione dei grandi vortici, ma l’autore già faceva osservare al terrorizzato protagonista: “Il bordo del vortice era rappresentato da una larga cintura di spruzzi scintillanti; da cui neppure una singola particella, tuttavia, scivolava entro la bocca del mostruoso risucchio…” In altri termini, qualcosa che lo stesso Stephen Hawkins avrebbe potuto chiamare l’orizzonte degli eventi. Perché non sempre, né necessariamente, la scienza deve remare contro l’osservazione analitica della suprema evidenza.

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