Moderna cavalletta di metallo che s’innalza, le sue zampe quasi perpendicolari al suolo. Una testa temporaneamente priva di occhi, scesi prima di effettuare il gesto e dare l’ordine: “Capo, siamo pronti. Sollevare!” Quale verso può seguirti, nel tuo lungo viaggio verso il cielo? Che pensieri ti accompagnano al momento in cui sarai di nuovo libera, dal peso e dal bisogno, dallo stato di suprema servitù procedurale? C’è in effetti un sentimento, che prende l’origine all’interno del “cervello” rimovibile di simili creature (colui o colei dotato/a, per sua autonoma immanenza, di due gambe, di due braccia… E così via a seguire) e che matura dal momento esatto in cui la coppia di esistenze si ritrovano a collaborare, ricevendo da una terza parte il carico alla base della loro operazione. Che può essere di molti tipi, ma il peggiore, da molti punti di vista, è quell’ammasso indivisibile, o Zeus non voglia che si tratti di biomassa (orribile, maleodorante. Benché un ottimo concime) o ancora oggetti piccoli e persino granulari, fluidi simili alla sabbia; roba, insomma, che una volta dentro al tuo cassone non sarà poi tanto rapida a lasciarlo.
Già perché la cavalletta, in molti tendono a chiamarla un autoarticolato. Ed il momento che sto descrivendo è la Consegna: quando l’eventuale stress accumulato, in una guida lunga centinaia, oppur migliaia di chilometri, deve trasformarsi nella forza necessaria per portare a termine l’ultima delle sfide: manovrare col velante, con il cambio ed i pedali, finché il mostro insettile non venga messo in posizione. Affinché la natura, se così siamo disposti a definirla, possa compiere il suo corso pre-ordinato. Ora mettere qualcosa dentro, ovvero dare da mangiare alle creature di quel mondo, non è mai difficile. Mentre arduo tende a risultare, sopratutto per quelle cose che non possono fare affidamento su un sistema digerente, tende a volte a risultare l’escrezione. Il che in ultima analisi, non è certo condizione necessaria nella vita del trasportatore! Quando esiste, sul pianeta Terra, quella forza che può compiere il miracolo sostituendosi a noialtri, le persone. Già, la forza che governa sopra tutte le altre: che dicono si chiami Gravità.
Ecco dunque la ragione, di una simile Fatica: quelle “zampe” sono parte, a conti fatti, di un dispositivo. Idraulico, possente, fatto tutto di metallo. Che una volta preso il camion dalle redini del suo padrone, sfruttando l’energia che viene da una serie di motori elettrici, lo sollevano fino a un’angolazione di 60, 65 gradi. E poi lo scuotono, con poderosa enfasi, facendo fuoriuscire tutto il contenuto del suo corpo cubitale. Semplicemente magnifico, a vedersi! E stranamente sconosciuto, fuori dal proprio settore tipico di appartenenza. Che può includere, a seconda dei casi, il trasporto di segatura, carbone, pietrisco e altri materiali da costruzione, pneumatici, grano e addirittura frutti della terra come le patate o rape, indelicati per definizione, privi di un qualsiasi filtro dai detriti fino al termine ultimo della filiera. Detriti che finiscono, tutti assieme, entro il silo o nastro trasportatore situato sotto quello che potremmo definire, in lingua inglese, come Truck Dumper o Hydraulic Dumper. Oppur nel nostro idoma, lo Scaricatore. Imparare a conoscerlo, è dovere…
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Le turbine a gas che ritenevano di poter vincere la 24 ore di Le Mans
Nell’approccio alle operazioni finanziarie comunemente definito Top-Down Economy, l’investitore osserva la situazione generale per fare le sue scelte in base ai trend di tipo trasversale, piuttosto che prendere in considerazione la condizione dei singoli titoli o il successo e l’insuccesso delle aziende. Ciò potrebbe portarlo, nello specifico, ad acquistare solamente titoli ad alto rischio, mancando d’inserire nel suo portafoglio la “base solida” di obbligazioni, fondi o simili strumenti di supporto… Ossia decidere di spingere a fondo ogni qualvolta sembri di essere su un rettilineo, piuttosto che considerare l’approccio ragionevole che può venire dal naturale pessimismo umano. E se dovessimo pensare a quei piloti, nella storia dell’automobilismo competitivo, che sembrerebbero aver vissuto la propria intera carriera su di un presupposto simile, sarebbe difficile non dare spazio al nome americano di Ray Heppenstall, colui che nel 1968 sembrò decidere che se il turbo era abbastanza grande, non c’era semplicemente alcun bisogno di altre componenti del motore! Accendendo (letteralmente) quella serie di processi mentali e operativi che lo avrebbero portato, entro la fine di quei campionati di gare sanzionati dalla SCCA e FIA, al volante della Howmet TX (Turbine eXperimental) una macchina capace di ululare come un lupo alla ricerca del suo branco… Mentre si appresta a sorpassare i suoi rivali, senza neanche l’ombra di un cambio di marcia.
Spesso citata nei repertori antologici come uno veicoli più distintivi della sua Era, questa è stata l’automobile, più d’ogni altra, ad aver dimostrato che comprimere ed espandere dei fluidi all’interno del ciclo di Joule-Brayton poteva costituire una metodologia valida, oltre che nella motorizzazione aeronautica, anche alla creazione di sistemi per lo spostamento stradale. Rappresentando, nei fatti, l’unica rappresentante della sua categoria ad aver mai vinto una gara ufficiale (anzi, due) prima di doversi arrendere al flusso irrimediabilmente convenzionale della storia tecnologica a quattro ruote. E progettata con un certo senso di affinità al regno delle cose che volano nei Cieli, in un certo senso, lo era sempre stata, vista la provenienza dei suoi due motori, presi in prestito direttamente dal progetto per un elicottero militare della Continental Aviation & Engineering, poco dopo che l’appalto venisse inaspettatamente spostato altrove. Il che, naturalmente, non sarebbe certo bastato per aprire la pista ad un simile progetto rivoluzionario, se l’ideatore Heppenstall non avesse potuto disporre, in aggiunta alla sua mente visionaria, di almeno un paio di conoscenze nei luoghi giusti: primo, il vecchio amico Tom Fleming, parte del consiglio di amministrazione dell’eponima compagnia metallurgica Howmet, in grado di convincere il suo capo che la sponsorizzazione di un team automobilistico avrebbe potuto costituire, in quel momento, una mossa scaltra nel panorama competitivo del marketing di quel settore. E secondo, il costruttore e carrozziere Bob McKee della McKee Engineering di Palentine, Illinois, uno dei pochi tecnici che avrebbero potuto dare forma (ed un volante, pneumatici…) al suo strano sogno, benché non fosse mai stato in effetti totalmente privo di precedenti. Già il manager del team STP Andy Granatelli aveva provato in effetti, nel 1967, a far competere nell’Indy 500 un veicolo spinto unicamente da un grande turbo, così come la Lotus 56, all’inizio del ’68, era scesa in campo nella stessa gara per il tramite del progettista Maurice Philippe. Anche la Chrysler, nel frattempo, aveva iniziato pochi anni prima a dare in leasing temporaneo esemplari della propria rivoluzionaria Turbine Car. I quali tuttavia mancarono di fare breccia nell’interesse del grande pubblico, così come le controparti competitive, per una ragione o per l’altra, mancarono sempre di riuscire a vincere le proprie gare. Ma le cose, apparve chiaro fin da subito, stavano finalmente per cambiare…
L’elettrica batmobile che guiderà il convoglio della nuova Era
É difficile mancare di pensare che se il rabbioso Mad Max nelle terre di un’Apocalisse ormai da tempo consumata, invece che impiegare la benzina, avesse avuto le auto elettriche a disposizione, gli eventi si sarebbero conclusi in modo assai diverso. Poiché mantenere intatta la filiera di rifornimento dei carburanti fossili, senza una moderna società industriale a sostenerla, è un po’ come pretendere di continuare a mangiar carne quando si è rimasti totalmente soli, gli unici leoni ai margini della savana. E non affatto un caso, se alcuni dei primi veicoli a motore che potremmo definire dei moderati successi commerciali erano alimentati esclusivamente a batteria, così come ad ogni nuovo ciclo dell’evoluzione su questo pianeta, tutto è cominciato con gli erbivori, e così via da lì a seguire. Intrigante, catartico, risolutivo: questi, forse, alcuni dei sentimenti volutamente evocati dallo spot di poco più di un minuto creato verso il termine del 2017 dal conglomerato tedesco dell’energia specializzato nel campo delle rinnovabili E.ON, diffuso principalmente su Internet col titolo di “Freedom is Electric”. Nel corso del quale, il più eterogeneo gruppo di veicoli compete all’apparenza in una corsa in un deserto americano (dovrebbe trattarsi del Mojave) dopo essersi rifornito da alcune delle più improbabili colonnine dell’energia, per poi lasciare totalmente senza parole l’anziano proprietario di una (soltanto) lievemente meno improbabile stazione di servizio. C’è un gigantesco Monster Truck, che si rispecchia nell’auto telecomandata di una bambina e ci sono versioni elettriche di una Porsche 356 e della New Beetle. Precedute da una silenziosa moto da corsa ed accanto ad essa, uno dei veicoli più incredibili che abbiate mai visto.
Il suo nome è Tachyon, come la particella quantistica ipotizzata da Arnold Sommerfeld negli anni ’50, per spiegare l’evidente capacità di movimento iper-luce a cui appaiono soggetti alcuni aspetti della materia. Un nome originale ed appropriato, per la creazione portata recentemente a coronamento dopo oltre cinque anni di lavoro dalla start-up californiana RAESR (pron. racer) di Eric Rice (CEO) e Chris Khoury (CTO) concepita per dimostrare al mondo cosa sia effettivamente lecito aspettarsi dalla prossima generazioni di automobili, potenzialmente destinate a ritrovarsi prive di un motore a combustione interna. E tutto ciò, aderendo alla nuova corrente stilistica del design ultra-costoso delle cosiddette hyper-car, normalmente fatta risalire all’introduzione sul mercato della Bugatti Veyron nel 2005, verso la creazione di automobili per cui eventuali considerazioni di ragionevolezza o praticità d’impiego vengono semplicemente cancellate, nella ricerca di un aspetto che sarebbe degno di figurare all’interno dell’ultimo film fantascientifico o pazzesco videogame. Il che ha immancabilmente modo di riflettersi nella performance di simili mostri, ma in maniera ancor più chiara, nell’aspetto semplicemente epico delle loro carrozzerie, un ambito in cui la Tachyon non ha certo alcunché da invidiare, neanche ai mezzi usati nei più grandi inseguimenti dai migliori supereroi. Alta poco più di un metro, ma lunga 4,94 e larga 2,05, con un design ispirato in egual misura ad una Formula 1 ed un jet militare da combattimento, con l’immancabile alettone mobile e linee aerodinamiche dall’impossibile geometria spaziale. E se tutto questo già vi sembra una combinazione esplosiva, aspettate di vedere come si apre per lasciar entrare i due elementi più importanti: il pilota e l’eventuale passeggero…
L’impressionante esperienza di guida di una delle più potenti Porsche mai costruite
Ecco un video che non capita di vedere tutti i giorni. La ripresa dal posto di guida dei giri effettuati dal pilota e restauratore americano d’automobili Bruce Canepa sul circuito Laguna Seca, a bordo di uno dei bolidi più importanti e significativi nell’intera storia delle corse a motore: la feroce Porsche 917K del 1970, versione perfezionata del veicolo creato dalla casa tedesca per rispondere alle nuove, meno stringenti norme entrate in vigore l’anno precedente per le gare FIA del Gruppo 4, relative a prototipi sportivi prodotti in serie per un minimo di 25 esemplari. Numero piuttosto significativo, quest’ultimo, poiché non avrebbe dovuto impedire alle compagnie automobilistiche, nonostante fossero adesso permessi motori dalle dimensioni di fino a 5.0L, di produrre mostri tecnologici eccessivamente costosi ed irraggiungibili per il mercato generalista, conservando in questo modo il principale tratto distintivo con la categoria contrapposta del gruppo 6. A meno che, e ciò ebbe a dimostrarsi un grande a meno, l’orgoglioso direttore del reparto sportivo della Porsche Ferdinand Piëch non decidesse di poter giustificare la potenziale perdita d’investimento, schierando innanzi alla sua fabbrica il numero richiesto d’improbabili creature nate dall’incontro dell’ingegneria spregiudicata e la fiducia nella visibilità che un simile progetto si sarebbe guadagnata, una volta raggiunto l’obiettivo prefissato di trionfare durante la prestigiosa 24 ore di Le Mans.
Così nacque la prima delle numerose versioni della 917, alcune valutate ai nostri giorni oltre 20 milioni di dollari, per la rarità, l’importanza storica e il prestigio percepito, di una quattro ruote destinata a superare largamente le già rosee aspettative di coloro che l’avevano portata a una tangibile realtà. E ciò benché, si narra, i risultati nei primi esperimenti in pista fossero stati tutt’altro che rassicuranti. Il veicolo destinato a sostituire la popolare e spesso vincente 908 del 1968, sul cui telaio era largamente basato, vantava infatti un insolito motore a 12 cilindri contrapposti che era sostanzialmente la combinazione di due impianti da 6, capace di generare la considerevole potenza di 520 cavalli per un peso complessivo di appena 800 Kg, grazie alle soluzioni avveniristiche adottate per il suo corpo in alluminio con pannelli in poliestere. Tale meraviglia della tecnica fu quindi inizialmente presentata al salone di Ginevra del 1969 ad un costo vertiginoso per il pubblico equivalente a quello di undici normali Porsche 911, facendo affidamento sui copiosi allori delle vittorie in pista che, la casa di Stoccarda ne era pressoché sicura, sarebbero ben presto ricaduti sul suo parabrezza così drammaticamente simile alla cabina di pilotaggio di un aereo. Un piano destinato a presentare, alquanto inaspettatamente, un “piccolo” problema: sembrava infatti che nessuno tra i diversi componenti delle squadre corse supervisionate da Piëch fosse abbastanza folle, o coraggioso, da mettersi al volante di un simile mostro delle piste, le cui caratteristiche di guidabilità e aerodinamica non risultavano assolutamente commisurate alla spregiudicata potenza del suo motore.
Raccontò a tal proposito Frank Gardner durante le interviste, uno dei due piloti australiani reclutati in tutta fretta (assieme a David Piper) pur di riuscire a iscrivere la 917 alla 6 ore di Nürburgring di quello stesso anno: “Quando arrivai in Germania, tutti coloro che avevano provato a guidare l’auto si trovavano in ospedale o a casa, ridotti a vari stadi di disperazione.” Per poi continuare nella descrizione di una scocca costruita con saldature a gas, la cui forma tendeva modificarsi durante le brusche accelerate o frenate, di cui ce n’erano parecchie, arrivando persino a far cambiare la posizione della leva del cambio dopo ciascuna singola curva. Inoltre la coda geometricamente interessante concepita per tentare di mantenere l’aderenza alle alte velocità, assieme a dei particolari alettoni mobili montati sulle sospensioni posteriori, risultava non soltanto incapace di legare a terra il mostro, ma finiva addirittura per generare una pericolosa portanza verso l’alto nei rettilinei più lunghi. Nonostante l’abilità alla guida, quindi, il duo australiano non riuscì a portare a casa di meglio che un ottavo posto dietro le solite Ford e Alfa Romeo, anche a causa della natura estremamente curvilinea del circuito, fondamentalmente inadatta alle caratteristiche della 917.