Il mancato secolo dei triplani larghi 40 metri

Innegabile, sofferta verità: che la storia della tecnologia e per inferenza, l’aviazione, on sia il frutto di un logico progetto migliorativo, derivante dalle cognizioni possedute da una collettività sicura dei propri obiettivi. Bensì l’organica e naturalistica risultanza di una serie di obiettivi mescolati tra di loro, qualche volta encomiabili, certe altre discutibili o mal guidati. E il primo tra quest’ultima categoria, soprattutto nel corso dello scorso secolo, può essere identificato nel bisogno di fare la guerra. Scriveva Giulio Douhet, generale a due stelle del Regio Esercito nel suo influente manuale del 1921 Il dominio dell’aria: “Immaginiamoci una grande città che, in pochi minuti, veda la sua parte centrale colpita da una massa di proiettili del peso complessivo di una ventina di tonnellate […] gli incendi che si sviluppano, il veleno che permane; La vita della città è sospesa; se attraverso ad essa passa qualche grossa arteria stradale, il passaggio è sospeso.” Riassumendo e mettendo per iscritto, per l’ennesima e più esplicita volta, la sua visione di un futuro dominato dalla cosiddetta Armata dell’Aria, un il terzo polo militare che avrebbe realizzato il totale predominio militare attraverso una violenza del tutto priva di precedenti: il bombardamento a tappeto (cosiddetto “strategico”) di un’intera popolazione civile. Ciò detto, il bombardiere tipico della Grande Guerra era in grado di trasportare un carico di bombe del tutto insoddisfacente ragion per cui macchine migliori, e più massicce, avevano bisogno di essere schierate sopra un campo di battaglia in costante divenire. Velivoli come quelli creati dall’ingegnere aeronautico inglese Walter Barling, rimasto famoso per aver dato forma per la prima volta, almeno in via preliminare, al tipo di incubo di fiamme che avrebbe avuto modo di palesarsi nel successivo spropositato conflitto mondiale. La cui figura ebbe ragione di fare l’ingresso nelle scene di settore attraverso l’appalto conferito nel 1919 dal comando militare del suo paese al costruttore edilizio del Surrey Walter George Tarrant, per la realizzazione di un aereo che potesse, superando nelle dimensioni tutto ciò che aveva solcato i cieli fino a quel momento, imporre l’ira fiammeggiante di Albione sui cosiddetti Imperi Centrali: Germania, Austria-Ungheria, Impero Ottomano e Bulgaria. Il Tarrant Tabor dunque, come venne chiamato il suo prototipo, avrebbe avuto un’apertura alare di 40,02 metri a metà tra quella dei moderni Boeing 737 e 747, con quattro poderosi motori Siddeley Tiger da 600 cavalli ciascuno montati su una configurazione a doppia ala sovrapposta. Ben presto tuttavia, l’impossibilità di disporre in maniera successivamente tempestiva di tali impianti avrebbe portato a una ri-progettazione nella forma improbabile di un triplano dotato, piuttosto, di sei Napier Lion da 450 cavalli per un rapporto peso-potenza comparabile, di cui quattro finalizzati a spingere e due sull’ala superiore, in posizione traente. Il mostro, con la sua stazza di oltre 10 tonnellate, sarebbe stato in grado di trasportare fino a 2.000 Kg di bombe, almeno fino alla stipula dell’armistizio dopo cui per non vanificare la cifra investita fino a quel momento, si decise di farne un aereo passeggeri per il trasporto contemporaneo di fino a 6 persone, niente male per quell’epoca distante. Il che avrebbe portato, purtroppo, al suo collaudo a Farnborough, il 26 maggio del 2019. Evento durante il quale, all’accensione necessaria dei due motori superiori durante il rullaggio in fase di decollo, il muso dell’aereo avrebbe puntato inaspettatamente verso il suolo, portandolo a schiantarsi sulla pista con il ferimento anche grave dei suoi occupanti e in funzione di ciò, la morte dei due piloti situati nella parte anteriore della fusoliera in legno. Una lezione che non avrebbe inficiato, comunque, il sogno sanguinario di Douhet…

Nota: nel filmato di apertura, unico disponibile online delle due creazioni di Barling, figura Wittemann-Lewis XNBL-1 e non il Tabor, di cui sembrano essere rimaste soltanto delle fotografie.

I grandi bombardieri di quest’epoca, come per l’appunto il Tarrant Tabor, presentavano una postazione a bordo riservata all’ingegnere di volo, che avrebbe potuto riparare uno o più motori soggetti a improvvisa avaria. A patto, ovviamente, di dimostrarsi abbastanza coraggioso da strisciare o camminare sull’ala superando ogni atavico timore di cadere giù.

Tra i maggiori cultori del grande teorico dell’aviazione italiana, che sorprendentemente non conseguì mai il brevetto di volo, troviamo un’altra figura chiave degli albori dell’aviazione militare, quel generale americano William Lendrum “Billy” Mitchell che dopo essere stato nominato comandante delle forze aeree sul fronte occidentale durante la grande guerra, continuò fervidamente a sostenere le sue tesi attraverso una serie di lunghe battaglie contro il comando centrale statunitense che avrebbero infine portato, nel 1925, alla sua corte marziale ed espulsione dal ruolo e il grado al culmine dell sua lunga carriera. Ma non prima di alcune significative dimostrazioni teoriche di fattibilità, tra cui quella realizzata nel 1923 grazie alla collaborazione di niente meno che Walter Barling, da lui personalmente convinto ad emigrare dall’Inghilterra in circostanze che la storia non sembrerebbe essersi preoccupata di registrare. Al contrario del nome del velivolo in questione di nuovo derivante dalla compagnia costruttrice incaricata dell’appalto, Wittemann-Lewis, benché tutti fossero soliti chiamarlo in epoca coéva, piuttosto, “la Follia di Mitchell”. Un altro bombardiere pesante, un altro triplano, per il quale fu possibile ricevere ingenti finanziamenti grazie alla promessa del suo committente di poter riuscire ad affondare una nave corazzata mediante l’impiego di un singolo carico delle sue 2,3 tonnellate di bombe. L’aereo, con il numero di serie XNBL-1 (dove la sigla stava per Experimental Night Bomber, Long Range) si presentava sostanzialmente come una versione perfezionata del Tabor, con apertura alare di 36 metri e potenza fornita da sei motori Liberty da 420 cavalli, montati questa volta tutti in linea sotto l’ala centrale più corta e del tutto priva di superfici di controllo, facendone essenzialmente il più eclatante caso di aereo con “due ali e mezza” nel tentativo di ridurre la resistenza dell’aria e favorire, in questo modo, autonomia e velocità. Tra le innovazioni maggiormente significative dell’apparecchio figurava un carrello anteriore dall’altezza regolabile affinché le quattro ruote potessero assorbire tutte assieme l’impatto dell’atterraggio, in maniera analoga a quanto avviene nei moderni jet di linea. Altro accorgimento, utile piuttosto in fase di decollo, era l’aggiunta di un ruotino anteriore di “sicurezza” idealmente capace di scongiurare lo stesso tipo di rovinoso incidente sostenuto dal precedente modello, nel caso in cui l’aereo si fosse rivelato eccessivamente prono a inclinarsi in avanti. Furono inoltre aggiunte ben sette mitragliatrici Lewis calibro .30 manovrabili da cinque postazioni distinte, che avrebbero protetto il bombardiere da qualsiasi caccia nemico, indipendentemente dalla direzione di provenienza. L’effettiva messa in opera del singolo prototipo tuttavia, laddove originariamente ne erano stati previsti due, fu fin da subito estremamente problematica, con la Divisione Ingegneristica dell’Esercito che aveva tutta l’intenzione di assemblare il velivolo presso la sua sede di Wright Field, l’unica pista giudicata abbastanza lunga per permettere all’XNBL-1 di prendere il volo, mentre ogni sua parte veniva prodotta nella fabbrica Wittemann-Lewis situata in New Jersey. Ciascun singolo componente inclusi quelli in futuribile alluminio, dunque, fu limitato nelle dimensioni dal bisogno di attraversare i tunnel stradali tra le due località, il che causò ulteriori contrattempi e vide lievitare il costo complessivo del progetto fino a 525.000 dollari di allora, corrispondenti ad oltre 7 milioni dei nostri giorni. Ciononostante, entro l’aprile del 1923 si giunse alla fase finale con un gruppo di 34 ingegneri impegnati oltre 3 mesi nell’assemblaggio, fino alla posa in opera dell’aereo pronto all’uso. Il quale decollo, senza incidenti, nell’agosto di quello stesso anno, costituendo un significativo trionfo per Mitchell ed un valido strumento di propaganda tra le due guerre. Il Wittermann, ben più agile di quanto avessero previsto i suoi detrattori, fece quindi un vero e proprio tour degli Stati Uniti partecipando ad una larga serie di show aerei, benché la sua velocità ed autonomia fossero destinate a rivelarsi deludenti. Con appena 270 Km di portata percorribili ad un massimo di 155 Km/h, contro i 725 ad una velocità comparabile offerti dal più convenzionale biplano Martin NBS-1. Ciliegina finale sulla torta fu il problematico accumularsi d’acqua sull’ala superiore, che avrebbe costretto l’Esercito a costruire un hangar dalle dimensioni speciali per immagazzinarlo vicino a Wright Field, con un’ulteriore spesa di 700.000 dollari sonanti.

La rovinosa autodistruzione del Tarrant Tabor fu un punto di svolta per l’aviazione, sebbene in molti ancora non se ne fossero accorti. Finita ormai da tempo era la romantica epoca dei multiplani, aprendo la via all’utilitaristica soluzione dell’ala singola montata sulla fusioliera.

Una volta che i vertici del comando seppero quanto era stato speso per un aereo giudicato largamente inutile, soprattutto in epoca di pace e senza chiedere il permesso del Congresso, il credito concesso a Mitchell iniziò sensibilmente a calare, dando inizio alla spirale discendente dell’ultima parte del suo servizio. Nel 1927 quindi, al fine di recuperare almeno gli spazi che erano stati dedicati al formidabile progetto, l’aereo venne fatto smontare e conservato in un deposito a Fairfield fino al 1930, epoca del suo effettivo smantellamento. Entro lo scoppio della seconda guerra mondiale, quasi una decade dopo, gli Stati Uniti si sarebbero quindi dimostrati perfettamente in grado d’implementare la visione della terra bruciata originariamente proposta dal generale Douhet, sebbene attraverso strumenti di morte ben più efficaci di quanto persino quest’ultimo avesse mai tentato d’immaginare. Fino al rilascio della bomba capace d’includere in se stessa i tre pilastri egualmente formidabili della teoria italiana: onda d’urto, fuoco e veleno. Ma l’approccio tecnologico del triplano, a quel punto, era ormai soltanto un ricordo lontano. Come le ali multiple degli angeli dell’Apocalisse di Giovanni, portatori di un affine cataclisma, parimenti immeritato.

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