Mille miglia e neanche l’ombra di un timoniere: il grande viaggio autonomo della Nellie Bly

Il cervello positronico di bordo fece lampeggiare per due volte le sue sinapsi autonome, mentre definiva il passaggio ideale in mezzo al traffico del porto di Copenaghen. “Persone a dritta, persone a babordo. Persone a bordo, persone a bordo”. Quali sono gli ordini del capitano, Nellie Bly? Con un rapido segnale d’impedenza, veicolato lungo le autostrade in fibra ottica che percorrevano le intercapedini dello scafo color giallo paglierino, ogni alternativa e contingenza temporale coincidente vennero congiunte, sovrapposte e confrontate. “Io… Signore, non c’è nessun ordine. Tranne quello di ottenersi al piano di navigazione.” E fu allora che due possenti eliche di poppa, lentamente, cominciarono a girare. Amburgo, amore mio urbanistico presso la foce dell’Elba. Aspettami, che sto compiendo il mio ritorno da te. Naturalmente ogni dialogo è del tutto metaforico. Poiché l’unico effettivo ruolo rivestito dall’equipaggio a bordo della piccola e compatta imbarcazione, è quello di osservare ed annotare, controllare e (molto) eventualmente, sovrascrivere l’operato di un computer. Ma forse sarebbe ancor più giusto definirlo robot. Che poi è la forma più immediatamente utile, di un tale concetto tanto caro alla moderna civiltà tecnologica: per oltre un secolo ci hanno descritto i tipici esseri meccanici artificiali come creature prettamente antropomorfe, idealmente indistinguibili da noi, o per lo meno dotate di quattro arti ed una testa, fibre muscolari e una completa ed assoluta propensione all’obbedienza. Laddove l’unico tratto che fosse realmente necessario, tra i tre aspetti di riferimento, era in effetti il terzo; e chi ha bisogno, veramente, di un servile maggiordomo, quando la casa può pulirsi e rassettarsi da sola? Chi vuole un autista per una vettura che sa guidare se stessa? E a cosa serve un nostromo, su uno scafo che possiede il sublime segreto del sistema di posizionamento globale, capace d’individuare il luogo esatto grazie al segnale dei satelliti situati in orbita geostazionaria. Che poi un simile approccio tecnologico, a pensarci bene, non è così lontano dalle logiche di una totale autonomia operativa. Poiché cosa manca a chi conosce il proprio luogo esatto e quello dove intende essere, per poter compiere effettivamente il tragitto? Se non il gesto, e la parola. Ovvero in altri termini, l’effettiva manifestazione della Volontà.
E forse non sarebbe del tutto opportuno sollevare formalmente la questione dell’intelligenza artificiale (difficilmente, questa barca riuscirebbe a superare il test di Turing) benché il modo in cui riesce a completare i propri compiti lasci presumere un precipuo senso di ribellione, verso il concetto universale di essere soltanto una “mera” cosa, priva di quella scintilla che è l’imprescindibile dimostrazione della coscienza di se. Mentre porta gloriosamente a termine, verso l’inizio della scorsa settimana, il compito per cui era stata creata: stabilire un nuovo record in campo ingegneristico, del più lungo viaggio portato interamente a termine da una barca senza l’intervento diretto di alcun tipo di mano umana. E questo sia da parte dei suoi passeggeri, che i supervisori e controllori dell’operazione siti all’altro lato del globo, presso un silenzioso ufficio nella città statunitense di Boston. Il che non ha precluso agli occhi degli incaricati, ed ai loro molteplici livelli di precauzioni, di estendersi come tentacoli o fittoni fino alla radice stessa dell’intera faccenda, ovvero il tronco encefalico di un vero e proprio personaggio, destinato a rimanere celebre nella futura storia retroattiva dei veri e puri esseri artificiali, intesi come prossime creature dominanti del nostro intero… Pianeta… Sistema Solare… Dove vogliamo fermarci? Dopo tutto, è stato più volte ripetuto che viaggiare per mare è un po’ come colmare l’ampio spazio vuoto tra i corpi celesti. Ed ogni barca o sommergibile è un po’ un’astronave, fatte le dovute distinzioni di scala. Ciò benché la Nellie Bly in questione, formidabile creazione della compagnia multinazionale Sea Machines Robotics, assomigli piuttosto ad un perfetto mezzo di trasporto per un racconto a fumetti di Topolino. Questo perché trattasi, nello specifico, di una tipica nave pilota per l’utilizzo portuale, con la forma compatta e tondeggiante, la cabina sopraelevata, un cerchio protettivo attorno alle murate del piccolo ponte di navigazione su tratti in genere piuttosto brevi. Ma i limiti d’impiego programmatici tendono naturalmente a decadere, quando c’è un’infallibile e instancabile macchinario, ad occuparsi di far muovere i comandi ed il timone…

Leggi tutto

Il castello in cui venne imprigionato Dracula, posto di confine tra l’ignoto e il moderno

Il fatto che sia mai effettivamente esistito in Transilvania un conte, o voivoda (comandante militare) che non beveva mai… Acqua, è in ultima analisi del tutto irrilevante, quando si considera il potere, storico, folkloristico e culturale, che può accompagnare la leggenda di un bel paio di canini acuminati. Non tanto per la loro capacità di far spillare il sangue dal collo di una vittima designata, quanto per l’implicazione stessa, di un essere che non ha mai avuto realmente bisogno di stringere alcun tipo di patto con il Diavolo, finendo per essere lui medesimo, in un certo senso, il Diavolo stesso. Ovvero Dracul, il gran serpente, colui che solo un santo ed un arcangelo avrebbero potuto costringere ad arretrare, fatta eccezione per Cacciatori armati di strumenti armati con la scienza e il raziocinio dei tempi moderni. Entità già piuttosto rare nel mondo le prime e non ancora esistenti i secondi, quando verso la metà del XV secolo nell’attuale territorio rumeno della Valacchia visse e comandò la figura storica più spesso associata a tale essere, il crudele condottiero Vlad III soprannominato l’Impalatore, per l’inquietante passione che sembrava possedere nei confronti dell’eponimo sistema di tortura e pena capitale. Da lui utilizzato con sadico trasporto per dissuadere i suoi molti nemici, prime tra tutte le armate di saccheggio inviate nel suo territorio per le ambizioni imperiali dei Turchi Ottomani. Uomini duri per un’epoca ancor più spietata dunque, sebbene un tale personaggio sembrasse possedere una reputazione in grado di andare oltre l’umanamente comprensibile ed accettabile, se è vero che nel 1462 Mattia Corvino, Re d’Ungheria, lo fece catturare dai suoi mercenari e imprigionare preventivamente nelle segrete del suo castello. Con ragioni principalmente politiche, tra cui la ferma intenzione a riappacificarsi con le terre situate a Oriente, ma non solo. Più e più volte infatti, il voivoda della Transilvania aveva soprasseduto ai suoi ordini, invadendo e saccheggiando villaggi situati in territorio neutrale. Costituisce dunque una particolare ironia, il fatto che tra tutti i castelli associati cinematograficamente al personaggio di fantasia, associato storiograficamente alla sua figura, il più celebre nei tempi moderni fosse destinato a rimanere proprio quello di Bran a poca distanza dalla città di Brașov, dove Vlad trascorse in prigionia un periodo stimato attorno ai 13 anni, prima di essere rilasciato per tornare a combattere, a patto che si convertisse alla religione cattolica e giurasse nuovamente fedeltà al suo sovrano.
Un luogo forse non tra i più imponenti e visitati siti storici della Romania, ma che proprio per questo fu l’oggetto di una formidabile campagna di marketing a partire dalla seconda metà del Novecento, finalizzata a renderlo il prototipo del classico castello “vampiresco”, inaccessibile sopra il suo zoccolo di pietra, il cui innegabile valore strategico risultava esteriormente subordinato a un senso di minaccia psicologico ed incombente. Sorpasso certamente non semplice, quando si considera il ruolo niente meno che primario posseduto da tale fortezza per almeno cinque secoli a partire dal 1212, quando i Cavalieri Teutonici ricevettero dal loro Gran Maestro l’ordine di costruire una struttura difensiva in legno presso il passo montano che costituiva l’unico ingresso nella regione prosperosa di Burzenland, sotto il comando di un “precettore” locale dal nome riportato di frater Theodoricus. Il cui immediato successore sarebbe andato incontro ad un problema presumibilmente irrisolvibile con la venuta del 1242 dei Mongoli, e la conseguente distruzione del castello. Ma tutti i grandi imperi, al trascorrere di un tempo sufficientemente lungo, vedono il proprio territorio flettersi in maniera esponenziale, e fu così che nel 1377 ritroviamo nuovamente questa zona sotto il controllo di un sovrano europeo, Re Luigi I d’Ungheria, che da ufficialmente il compito alla popolazione sassone di Kronstadt (l’odierna Brașov) di costruire un inviolabile passaggio di confine all’ingresso della Valacchia, che essendo costruito questa volta in pietra avrebbe potuto resistere (strutturalmente) ad un qualsiasi tipo d’assedio. E fu così che la struttura che ancora oggi chiamiamo castello di Bran ebbe modo di prendere forma, ad un risvolto e per bisogni niente affatto sovrannaturali della storia del Medioevo…

Leggi tutto

Questa mega-tazza riflettente è il più avveniristico spazio museale del nuovo millennio

Angusto, polveroso, perennemente avvolto in uno stato di parziale penombra. Oltre la sala coi dipinti dei Maestri, dietro il corridoio delle sculture Moderne. Sotto l’area con le mummie Egizie; un tale spazio irrinunciabile, ma raramente visitato, corrisponde in modo pratico agli scantinati di un palazzo abitativo, ai suoi garage, al sottosuolo con gli impianti tecnici e di riscaldamento. Ma è ricolmo di un possente alone di mistero: quali opere tra gli occulti recessi, quanti oggetti dalla provenienza incerta? Sotto la supervisione il trafficare di che tipo di restauratori ed altre possibili figure professionali? Questo è il tipico deposito, parte inscindibile di un rinomato museo. Luoghi come il Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, fondato dall’unione delle collezioni degli eponimi benefattori, nell’ormai distante 1849. Abbastanza distante da procedere all’accumulo in quasi due secoli di 151.000 opere di varia natura, con una particolare specializzazione nell’eccezionale patrimonio pittorico d’Olanda. Ed abbastanza distante da trovarsi ad accumulare una non meglio definita serie di problematiche di tipo strutturale ed organizzativo, tali da portare alla chiusura della prestigiosa e rinomata istituzione a partire dall’anno 2019, e per un periodo che si stima dover proseguire fino al 2026. Sette anni di assenza dagli itinerari della cultura nazionale e quelli del turismo proveniente da ogni parte del mondo, sette anni senza mostre, per chi aveva scelto d’impiegarlo come trampolino di lancio per la propria voce nell’affollato ambiente dell’arte. “Sette sono troppi” pare quasi di sentire l’allarmata voce degli addetti alla pianificazione urbana, che coerentemente a un tale contrattempo sono giunti a elaborare un’imprevista quanto pratica e immediata soluzione funzionale. Quella di trasformare il deposito stesso, nell’attrazione. Gli angusti corridoi in attraenti ed augusti spazi aperti al pubblico. E farlo in modo totalmente programmatico, all’interno di uno spazio preparato ad hoc. Questo oggetto alto 39 metri entro cui potreste riuscire a specchiarvi, dunque, è il Boijmans Van Beuningen Depot.
Progettato e costruito grazie all’assistenza dello studio di architettura MVRDV, nella figura del fondatore e notevole creativo Winy Maas, l’edificio è stato costruito a partire dal 2017 nel parco stesso del museo storico, prendendo forma come una sorta di miracoloso uovo gigante. Questo perché lungi dal trovarsi a sfruttare linee semplici e dirette, l’imponente struttura da 15.541 metri quadri di spazio utilizzabile presenta, come molte altre creazioni del suo progettista, l’aspetto dirompente della migliore tradizione modernista, grazie all’impiego di una serie di accorgimenti estetici e funzionali. A partire dalla base più stretta del tetto per ridurre lo spazio occupato nel parco, tale da donargli un aspetto superficialmente paragonabile a quello di un’insalatiera o tazza per la prima colazione. Se non fosse per il piccolo “dettaglio” di un’intera foresta di pini e betulle sulla sommità, ed il fatto non meno notevole dei 1.664 pannelli di vetro specchiato disposti nell’intera superficie esterna di 6.906 mq, tali da riflettere i dintorni, la gente che l’osserva e la stessa struttura del museo storico, con la sua torre alta esattamente quanto l’innovativa controparte strutturale. Così prossima all’inaugurazione, prevista sabato prossimo alla presenza di re Guglielmo Alessandro d’Olanda, durante cui l’intero vasto pubblico sarà invitato finalmente a sperimentare questo nuovo e coinvolgente respiro dell’arte, distribuito nei sette livelli di spazi ibridi, capaci di funzionare sia come aree di stoccaggio che ambienti utili all’esposizione dei loro molti tesori. Per non parlare delle ampie vetrate disposte attorno all’atrio centrale, entro cui sarà possibile ammirare il personale di conservazione e restauro all’opera, giungendo a sperimentare in via diretta l’effettivo funzionamento di un complesso e stratificato meccanismo operativo come il Boijmans Van Beuningen. Il tutto attraverso una struttura dalle caratteristiche architettoniche assolutamente originali, tali da ricordare lo scenario di una delle migliori serie cinematografiche fantastiche dei nostri tempi…

Leggi tutto

Niente porte né pareti, per la scuola sostenibile costruita col bambù di Bali

Fluida e non del tutto prevedibile, risulta essere la strada che conduce alla grandiosità nella creazione degli ambienti architettonici con uno scopo estremamente definito. Così alto e ponderoso, sormontato da una letterale foresta d’antenne, pieno di finestre… Sono qualità di tipo prettamente urbano, che figurano alla base di una lunga ed ampiamente coltivata scuola di pensiero. Ma fuori luogo esse possono apparire, come treni, strade, piste di decollo nel bel mezzo della giungla balinese. Dove la realizzazione di una certa misura spirituale, nell’umana progressione dei giorni, può essere considerata il fondamento e la chiave stessa di un diverso tipo di realizzazione spirituale, personale, pubblica e privata. Della fondamentale tipologia impiegata, in un’ampia gamma di contesti, come base dell’insegnamento stesso, ovvero sfondo di un’educazione delle prossime generazioni che non sia del tutto conforme, a linee guida provenienti dalla parte della solida della montagna. Bensì fluida ed implicitamente scorrevole, alla maniera di un grande fiume che può essere deviato all’occorrenza. Uno studio di materie forse non così diverse sulla base delle aspettative, ma filtrata dalla situazione stessa in cui vengono impartite, o dettate per osmosi, ad un’intero gruppo d’individui che potrebbero anche diventare “i leader di domani”. Frase inflazionata, forse. Che abbiamo già sentito un alto numero di volte. Eppure sembra possedere, quando pronunciata dall’ex disegnatore di gioielli canadese John Hardy e sua moglie e collega Cynthia, un qualche tipo di significato segreto ed ulteriore, soprattutto nelle multiple interviste condotte entro i confini del complesso architettonico che si ha finito per configurarsi come lascito alle prossime generazioni più importante e significativo della loro esistenza. Sto parlando della Green School, ovviamente, prestigiosa (e costosa) istituzione scolastica privata presso una delle isole più culturalmente rilevanti e caratteristiche dell’Indonesia, con studenti multiculturali, un corpo docenti multiculturale ed il più notevole campus d’edifici, costruiti secondo linee guida che s’integrano perfettamente con un particolare modo di vedere l’esistenza passata, il tempo che stiamo vivendo ed un probabile futuro del mondo. Tutti rigorosamente, interamente e senza eccezione, grazie a un materiale che idealmente simboleggia l’Asia nella mente collettiva delle persone: il bambù stesso, erba più alta ed omni-pervasiva del pianeta Terra.
Per un effetto finale che compare la centro di ogni materiale comunicativo dell’azienda (perché dopo e nonostante tutto, pur sempre di questo si tratta) a partire dal “Cuore” stesso, il nome dato all’edificio centrale costruito al centro della cittadella nata a partire dal 2008, con forma tanto caratteristica e riconoscibile, persino tra i molti costrutti adiacenti, da essere successivamente diventato il logo stesso dell’intera Green School (Scuola Verde) idealmente il prototipo di quello che dovrebbe diventare un nuovo (o ritrovato) tipo e metodologia d’arricchimento pedagogico per le prossime generazioni, frutto di un particolare metodo, ma soprattutto il fondamentale rispetto per l’ambiente che potrebbe, idealmente, conservare intatto il poco che ci resta delle risorse imprescindibili necessarie a preservare l’attuale stato delle cose. Così che permane molto poco, d’industriale ed impersonale, nel complessivo aspetto delle molte aule disseminate sul vasto terreno acquistato dalla coppia, ciascuna essenzialmente una struttura indipendente, costituita da poche aree chiuse con pannelli rimuovibili, ma soprattutto vaste aree aperte alla densa giungla che si spinge fin sopra i vialetti costruiti rigorosamente in pietra locale, così come localmente sono stati prelevati i molti fusti incrociati e sovrapposti di Dendrocalamus Asper, la specie di bambù gigante alta fino a 20-30 metri, utilizzata come principale materia prima del progetto decennale. Ancor più resistente del cemento e parità di dimensioni, e proprio per questo adattabile alla costruzione di alcuni degli edifici in legno più estesi del mondo, tra cui la nuova ed incredibile palestra denominata The Arc, costruita come un vero e proprio padiglione dalle aguzze punte simili a cime di cipressi, ma interconnesse da una versione ultra-perfezionata del tradizionale metodo per costruzione dei tetti con foglie di canna da zucchero e palma, alang alang, che si adatta facilmente all’estensione e funzionalità di una quasi-cattedrale. Ove vige la regola di un’espressione personale ragionevolmente libera, poiché questo è il fondamento stesso, nonché ultima finalità, di una così moderna e prestigiosa istituzione…

Leggi tutto