La capitale dell’intaglio giapponese e il tempio che ne custodisce l’origine remota

Il Buddhismo viene spesso definito da un punto di vista storiografico e analitico in Estremo Oriente come un culto delle immagini e visitando un tempio di tale fede non è in alcun modo complicato comprenderne la ragione: statue, dipinti ed altre manifestazioni artistiche, dalle dimensioni private a quelle monumentali, si affollano nel ritrarre Colui che mostrò al mondo il modo per raggiungere l’Illuminazione. E lunghe schiere di profeti, santi, Bodhisattva, assieme a bestie mitiche e guardiani della fede. Se c’è un luogo dove tale tendenza alla manifestazione tangibile degli aspetti esteriori può aver raggiunto l’apice, tuttavia, esso può essere identificato come il tempio Zuisenji della città di Nanto, prefettura di Toyama. Da non confondere col sito omonimo situato presso l’antica Kamakura, centro del potere per il primo shogunato giapponese, laddove il collegamento di tale istituzione con una fonte centralizzata del potere venerabile, se presente, può essere piuttosto riferito alla contrapposta Kyoto. Dal cui potente Hongan-ji, a partire dal 1602, venne stabilito uno stretto collegamento ed interscambio di risorse sacerdotali, fino all’invio oltre un secolo e mezzo dopo della figura di un artigiano che avrebbe, da solo, caratterizzato il senso e principale esportazione di un’intera regione. Con riferimento all’intero sobborgo di Inami, borgo medievaleggiante ove gli odierni visitatori giungono a percorrere una strada principale fiancheggiata da antiche botteghe, ciascuna delle quali priva di vetrina bensì aperta per mostrare un maestro e i suoi discepoli al lavoro. Mentre creano, con il proprio favoloso repertorio di strumenti, immagini e oggettistica raffiguranti soggetti religiosi o mitologici, se non la semplice bellezza della natura, utilizzando sempre ed esclusivamente l’umile legno delle folte foreste antistanti. Applicando in modo attento, così come avevano fatto i propri antenati, il pregevole insegnamento di Sanshiro Maekawa, il cui lascito artistico può essere ancora ammirato tra le sacre mura di cui sopra, che al tempo della sua venuta erano state (per l’ennesima volta) distrutte dal verificarsi di un grande incendio. Questo rapporto privilegiato con i materiali da costruzione di origine vegetale, fortemente incoraggiato da ragioni filosofiche ma anche le costanti problematiche di un paese dal rischio sismico evidente, fu da sempre in Giappone all’origine di occasionali e reiterati disastri. Ulteriormente peggiorati, nel caso dello Zuisenji, dalla sua appartenenza pregressa ad una delle cosiddette leghe Ikko-Ikki, le organizzazioni di monaci militarizzati che durante il periodo Sengoku delle guerre civili (1479-1576) giunsero infine ad essere messe sotto assedio e dissolte dai principali rappresentanti del potere samurai costituito. Così che Oda Nobunaga stesso, primo dei tre grandi unificatori del paese, diede l’ordine di bruciare per primo il secolare edificio. Ed ancora questo avvenne, almeno altre due volte, prima che tornasse la pace. Per cui fu giudicato particolarmente terribile, ed al tempo stesso meritorio di una significativa risposta, quando nel 1763 il tempio arse di nuovo, questa volta per ragioni accidentali coadiuvate dai venti forti provenienti dalle regioni costiere, chiamati per l’appunto Inami-kaze. Il che avrebbe portato all’atipica costruzione, in questo contesto, di un alto muro in pietra di protezione, ed al tempo stesso alla venuta di colui che avrebbe ricostituito lo splendore inusitato totalmente degno di un tale luogo…

Se la tradizione dell’intaglio di Inami viene tradizionalmente fatta risalire allo “Scalpello di un singolo scultore” come si usa dire e recita lo stesso nome del museo dedicato a quest’arte entro i confini amministrativi della città di Nanto, ciò è dovuto principalmente ad alcuni dei tesori custoditi all’interno di queste mura, direttamente o indirettamente attribuiti alla figura artistica di Sanshiro Maekawa. A partire dalle alte traverse architettoniche, chiamate in gergo giapponese ranma (欄間) che sovrastano e racchiudono la sala, con raffigurazioni bifronti di foreste e scene naturali, senza mancare di far menzione dei notevoli paraventi e teste di leoni e draghi che affacciano dai punti d’incontro delle travi. E fino all’assoluto capolavoro incorporato in una parete, considerato uno dei punti più alti nella storia della scultura giapponese, in cui l’artista raffigura la scena prototipica del leone che getta i propri cuccioli da una rupe, scegliendo di allevare soltanto quelli che saranno in grado di scalarla per tornare nuovamente da lui; una composizione dal dinamismo ineccepibile che riesce nel difficile tentativo di affascinare ed emozionare il visitatore. Così come avrebbero fatto, nelle generazioni successive, le schiere di artigiani direttamente addestrati da Maekawa su precisa direttiva dei suoi superiori monastici, nonché grazie a una passione indiscutibile nei confronti dell’insegnamento, se è vero che questi ultimi sarebbero notoriamente diventati, nei secoli immediatamente successivi, delle assolute autorità nel settore. Lavorando per la prima parte dell’epoca Meiji (corrispondente al Regno di Mutsuhito, 1868-1912) soprattutto alle decorazioni dei templi dell’intera regione e la costruzione di oggetti mobili come i paraventi, per poi specializzarsi nella creazione di pilastri per il tokonoma e traverse ranma, immancabili componenti nella casa giapponese tradizionale. Soltanto in seguito, con l’ingresso nell’era contemporanea e l’abbandono di determinati crismi abitativi, il loro ambito principale si sarebbe configurato sull’arte figurativa di sculture propriamente dette, degne di essere esposte in innumerevoli mostre nonché entrare a far parte di prestigiose collezioni private. Senza mai abbandonare, da alcun punto di vista rilevante, l’originale metodologia consistente nell’impiego di legno di canfora, zelkova o cipresso, preventivamente stagionato e fatto asciugare, prima dell’applicazione di un disegno trasferito attraverso carta washi a base di bambù o riso, quindi estratto in modo progressivo dal materiale di partenza grazie all’uso di fino a 200 scalpelli differenti. La cui eccezionale varietà, e specificità d’impiego, costituisce uno dei principali meriti riconducibili alla rinomata tecnica degli intagliatori di Inami, assieme all’uso di uno specchio posto a terra, per controllare l’allineamento di un lato del bassorilievo con quello retrostante. Metodologie tanto importanti, a tal punto caratterizzanti per la comunità, che oggi appaiono impiegate ovunque nel centro abitato, dalle grandi sculture in zone pubbliche come la “Torre dei fiori e degli uccelli” alle molteplici statue degli animali dello zodiaco e i Sette Dei della Fortuna, oltre alle numerose insegne, gli arredi dei negozi ed infrastrutture pubbliche incluse fermate dell’autobus, panchine, scatole telefoniche, lampioni. Trasformando l’esperienza della visita ad un tale luogo nell’ingresso in un mondo fantastico del tutto scollegato dall’odierno utilitarismo e fascinazione per il mero approccio risolutivo, con il minimo sforzo possibile, nei confronti di ogni possibile situazione o problema.

Facilmente ascrivibile alla ben nota predilezione nipponica per l’eccellenza in ogni immaginabile campo della creatività manuale, dall’arte astratta a quella figurativa, così come avviene nelle molte variopinte espressioni dell’intrattenimento popolare, l’arte dell’intaglio di Inami sembra nel contempo vantare un carattere speciale che la rende facilmente identificabile, anche senza l’effettiva nozione in merito alla provenienza di un particolare oggetto o elemento. Una certa vivacità e dinamismo, l’accurata raffigurazione di scene visionabili da entrambi i lati e la ricchezza delle composizioni, conseguenza di un continuativo perfezionamento dei metodi attraverso le molteplici generazioni.
E se questo è il punto doveroso in cui, normalmente, la trattazione si conclude con la nota pessimistica della riduzione della quantità degli artigiani operanti, ciò può essere almeno in parte motivato dal superamento di determinate esigenze pratiche nella costruzione ed arredo delle abitazioni cittadine, non più conformi alla ricerca originaria di splendore anche nei propri elementi basilari costituenti. Ma l’arte di Inami non potrà mai davvero estinguersi o passare in secondo piano, in funzione dell’alta considerazione concessa a livello nazionale per quello che il popolo giapponese chiama il proprio “patrimonio intangibile”. Una cognizione che sarebbe meritevole d’essere esportata in qualche maniera, non verso le capitali straniere, bensì gli umili centri abitati, piccoli o sperduti tra le montagne, che mantengono il carattere dei propri fondatori aviti. Ammesso e non concesso che altrove, ancora oggi, si mantenga la capacità di apprezzare i loro lasciti potenzialmente immortali.

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