Se consideriamo l’universo nel suo complesso, e lo spettro possibile dei pianeti contro cui è stato possibile puntare gli strumenti dell’astronomia moderna, appare chiaro quanto limitate siano le specifiche esigenze della razza umana, perché sia possibile giungere a chiamare un luogo non soltanto vivibile, ma accogliente. Inducendoci a concentrare la nostra ricerca nella cosiddetta zona “Riccioli d’Oro” (non troppo caldo, né troppo freddo) situata all’ideale distanza dalla fonte energetica e luminosa di ciascun sistema stellare. Laddove anche il clima di questa Terra, dovessero verificarsi alcuni cambiamenti teorizzati da tempo, ci metterebbe pochissimi anni a trasformare innumerevoli distese verdi in versioni alternative della Valle della Morte. Senza neanche addentrarci in quello che potrebbe accadere nelle perfette isole di calore rappresentate dalle città contemporanee, agglomerati di palazzi e mura artificiali in grado di bloccare la circolazione dell’aria, mentre il respiro di molte migliaia di persone contribuisce a incrementare l’avvolgente cappa che minaccia di surriscaldare ogni cosa. Una circostanza che sarebbe ragionevole indicare come meramente speculativa, in un mondo in cui grandi concentrazioni di popolazione parrebbero costantemente assenti dai punti più invivibili del pianeta, fatta eccezione per il sussistere di casistiche particolari frutto di tangenze storiche dalle molte ramificazioni evidenti. Sto parlando nello specifico dell’esperienza come governatore coloniale del Pakistan vissuta dal generale John Jacob culminante con la fondazione imposta ai nativi, nel 1847, di un nuovo insediamento lungo il corso del fiume Indo nella parte settentrionale della regione di Sindh, che sarebbe stato battezzato Jacobabad. In un punto strategico importante per l’agricoltura e i commerci, al punto che al giorno d’oggi entro i confini di quell’area vive una quantità prossima alle 200.000 persone, correntemente alle prese con una delle epoche più difficili della propria intera storia pregressa. In una situazione destinata unicamente a peggiorare, con il progressivo inasprirsi dell’effetto serra, visto il raggiungimento all’inizio del maggio scorso e l’implacabile mantenimento di temperature dell’aria superiori ai 50 gradi Celsius, abbastanza da causare l’immediata evaporazione dell’acqua che giunge a contatto con superfici battute dall’astro diurno. Mentre le cose appaiono, se possibile, anche peggiori di quanto si potrebbe tendere a pensare, data la presenza di condizioni d’umidità tali da portare il valore della temperatura di bulbo umido (rilevata col termometro avvolto in un panno bagnato) ben oltre i 35 gradi, considerati il limite massimo di tolleranza dell’organismo umano. Abbastanza da uccidere una persona adulta in condizioni normali, benché l’alto grado di tolleranza posseduto dalle genti di qui appare sufficiente a permettergli di continuare il proprio lavoro anche all’aria aperta, senza nessun tipo di rallentamento e per l’oggettiva necessità di continuare a mantenere le proprie famiglie. Ma non senza il pagamento di un prezzo estremamente elevato, tra le molte persone trasportate ogni giorno nei centri specializzati per il trattamento dei colpi di calore ed il numero sempre più elevato di gravidanze interrotte forzatamente, mentre le dirette interessate si occupavano delle consuete faccende domestiche senza nessuna pausa offerta dalla rigida ripartizione dei compiti della famiglia islamica tradizionale. Una situazione che parrebbe totalmente insostenibile ed anticipa, in maniera sempre più tragicamente palese, quello che potrebbe diventare nelle prossime decadi il destino d’intere nazioni situate nei dintorni dei tropici, per non parlare della vasta concentrazione umana in corrispondenza della zona paleartica, Europa inclusa…
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L’incompleto Marut, Spirito della Tempesta che riuscì a imporsi sull’esercito pakistano
Il 5 dicembre del 1971, un’alba febbrile illuminò la zona desertica in prossimità del posto di confine di Longewala, ai margini del deserto di Thar. Le forze indiane dell’armata del Punjab, manovrando nel miglior modo possibile considerato il breve preavviso del pericolo, si erano schierate in posizione difensiva, mentre due intere divisioni meccanizzate con 40 carri armati, per lo più vecchi Sherman e T-59 di produzione sovietica, avanzavano con difficoltà tutt’altro che insignificanti lungo il fondo accidentato della valle. Con lanciarazzi, mitragliatrici pesanti e fucili anticarro, gli occupanti delle trincee continuavano a sentirsi piuttosto sicuri, pur sapendo che una loro eventuale sconfitta avrebbe avuto un impatto notevole sull’intero quadrante occidentale di una guerra che il loro paese, guidato dall’influente prima ministra ed erede politica Indira Gandhi, aveva tutto l’interesse di concludere in tempi brevi. Così nessuno restò particolarmente sorpreso quando, verso metà della giornata, il supporto aereo lungamente promesso ebbe modo di palesarsi, e piogge di proiettili ed ordigni esplosivi cominciarono a cadere sulla testa degli attaccanti. I carristi pakistani, affrettandosi a puntare le torrette dei loro veicoli in alto, ebbero tuttavia una sgradevole sorpresa: poiché assieme ai previsti Hawker Hunter di manifattura inglese, i cui limiti di manovrabilità a bassa quota erano ampiamente noti ad entrambi gli schieramenti, tre sagome mai viste prima si disposero in formazione per il passaggio a volo radente. Erano dei jet bimotore dall’aspetto particolarmente moderno, con ali a freccia, coda alta e carlinga affusolata, che in prossimità dell’obiettivo rallentavano in maniera vertiginosa, avendo tutto il tempo di prendere la mira coi propri quattro cannoni ADEN da 30 mm, mentre lanciavano razzi Matra e bombe da 1.800 Kg. Quindi, prima ancora che i mezzi corazzati superstiti potessero rispondere al fuoco, prendevano nuovamente quota per svanire indenni all’orizzonte. In breve tempo, l’avanzata della colonna pakistana non poté fare a meno di arrestarsi. Ed ogni ragionevole aspettativa di prevalere, apparve irrimediabilmente compromessa.
Ciò che gli oppositori alla fondazione dello stato indipendente del Bangladesh stavano affrontando a loro stessa insaputa, nel culmine del primo e più breve conflitto degli anni ’70 del Novecento, era in effetti qualcosa di assolutamente innovativo, niente meno che l’HAL-24 Maruto (“Spirito della Tempesta”) il primo jet da combattimento prodotto interamente in Asia fuori dal territorio dell’Unione Sovietica. Grazie alla collaborazione con una figura chiave mantenuta in alta considerazione dall’insigne predecessore di Indira Gandhi e primo leader dell’India successivamente all’ottenimento dell’indipendenza, Jawaharlal Nehru. Il quale pur essendo stato un progressista e grande difensore dei diritti civili, seppe anche agire in base alle logiche del pragmatismo, particolarmente quando accolse con tutti gli onori la figura controversa dell’ingegnere e pilota sperimentale tedesco Kurt Waldemar Tank, in fuga dal suo paese come molti altri colletti bianchi al termine del secondo conflitto mondiale. Ex-nazista per associazione, al minimo, benché il suo coinvolgimento con gli aspetti politici del regime tedesco sia lungamente rimasto poco chiaro, nonché l’inventore di uno dei migliori cacciabombardieri che il mondo avesse conosciuto fino a quel momento: il temutissimo Fw 190, prodotto in oltre 20.000 esemplari a partire dal 1941. Compatto, leggero, potente, versatile, indubbiamente la seconda colonna portante della Luftwaffe assieme al Bf 109. Qualcosa che ogni paese moderno avrebbe aspirato ad avere nel proprio schieramento di velivoli, fatte le debite proporzioni tecnologiche, allo scopo di essere rispettato sulla scena geopolitica di un mondo che non aveva mai smesso di affilare i propri coltelli…
L’omerica trasferta della capra che seppe avvolgere le sue corna attorno al mondo
Bestie mitologiche e ardui viaggi fino ai più remoti confini del mondo: se soltanto esistono due soggetti, in grado di evolversi parallelamente attraverso le narrazioni mitologiche dell’uomo, fino a diventare un tutt’uno inscindibile maggiore della somma delle sue due parti! Ciclopi ed unicorni, pesci e donne, arpie, equini e leoni con le ali di un rapace. Testa di una cosa e corpo di un’altra, coda di scorpione, occhi di brace senza nessun tipo di riposo. Creature tanto rare quanto ingombranti dinnanzi a noialtri, in forza di una loro tipica tendenza all’aggressività. Poiché non è possibile addestrare l’inusitato. A meno di accettarne le regole e l’aspetto come fosse un qualcosa di assolutamente normale. Come una capra di assolate valli presso l’accogliente Meridione, che parrebbe fuoriuscita a pieno titolo dalle illustrate pagine di un antico novero antologico di simili creature. Mostri soltanto di nome eppure mai di fatto, visto il posto di rilievo posseduto da questi animali nella storia e le vicende pregresse dell’intera isola siciliana.
Dotata di un candore splendido che può resistere alla pioggia e le intemperie del mondo, la capra cosiddetta girgentana (dall’originale nome della città di Agrigento o Akragas) rappresenta un valido problema nella classificazione già a partir dall’epoca della sua prima esistenza documentata. Poiché pur tradizionalmente associata, per probabile inferenza, alla più nota ed importante storia sulla nascita di Zeus, non viene oggi ritenuta tuttavia essersi aggirata tra i confini della Magna Grecia fino ad almeno 10 secoli più tardi, grazie all’interscambio commerciale con i popoli d’Oriente nel corso della sincretizzazione pan-europea nell’epoca tardo medievale. Questo a causa e come appare in modo chiaro per il suo possesso di un tratto genetico tra i più notevoli e stupefacenti: il grande paio di corna capace di raggiungere fino ai 70 cm nei maschi dominanti, dalla forma appiattita e arrotolata su se stessa alla maniera di un cavatappi, oppure la spirale del suo stesso acido desossiribonucleico, alias codice genetico o DNA. Permettendo di desumere, sebbene la certezza non sia qui certamente di casa, una potenziale discendenza dalla forma e l’aspetto preistorico della Capra prisca o bhukko, specie preistorica attestata nell’intera area indoeuropea con particolare numero di ritrovamenti in Austria e nella Galizia Orientale, per non parlare di almeno due statuette facenti parte del tesoro antichissimo della città mesopotamica di Ur. Almeno fino ad essere stata sostituita, per una maggiore facilità di gestione ed allevamento, dalla discendenza odierna della Capra aegagrus, originaria di Creta, Caucaso ed India. Per lasciare, nell’areale niente meno che cosmopolita di uno degli animali destinati a diventar domestici per eccellenza, un singolo territorio all’altro capo dei continenti, all’ombra di quell’alto tetto che costituisce la sommità più alta del pianeta stesso: l’Himalaya, il Tibet e le ampie lande pakistane, dove la chiamano in lingua urdu capra mārkhor, ovvero letteralmente “[dalle] corna che si avvitano su loro stesse.” Capra per lo più selvatica di dimensioni medie ed un colore tendente al marrone scuro, dalla muscolatura maggiormente sviluppata ma dotata degli stessi favolosi ornamenti cranici dell’odierna girgentana, riuscendo a confermare almeno in linea di principio un lungo e complesso viaggio di ritorno presso i luoghi d’origine sulle acque del più importante mare per le civiltà occidentali del Mondo Antico, si ritiene grazie a scambi commerciali condotti da popoli originari primariamente della penisola arabica e i più immediati dintorni. Permettendo in questo modo all’ornato sovrano caprino di tornare alla “sua” personale Itaca, dalle dimensioni certamente un po’ più vaste rispetto all’odisseica meta del più sfortunato degli eroi greci. Fino al punto di costituire il più notevole triangolo del suo intero contesto geografico, punto d’incontro d’innumerevoli ricchezze provenienti dai regni ed imperi più distanti. Affinché nessuno potesse mai più affermare, allora ed in futuro, che la capra girgentana fosse un degno ed esclusivo simbolo della Sicilia…
L’urgente revisione sistematica degli ultimi delfini ciechi come pipistrelli
Saldamente situata alla base del concetto stesso di evoluzione darwiniana, risiede una fondamentale tendenza all’ottimismo secondo cui ogni specifico tratto ereditario di una specie, non importa quanto singolare o in apparenza privo di vantaggi, si è in realtà riconfermato nelle plurime generazioni con un valido obiettivo. Contribuendo, in qualche modo, alla capacità di sopravvivere del suo portatore. Ivi inclusa addirittura l’atrofizzazione d’importanti organi, come quelli della vista, da parte di creature che potevano tranquillamente riuscire a farne a meno. Come nella progettazione di un veicolo o strumentazione tecnologica da parte degli umani, del resto, ogni funzione ha un prezzo e tra tutti i tipi di percezione sensoriale nessuna comporta un maggior numero di compromessi che la vista, frutto dell’ingresso della luce all’interno di due o più buchi attraverso l’epidermide e fin dentro il cranio stesso, i vulnerabili, delicatissimi bulbi oculari. Vie d’accesso non soltanto per possibili stiletti medievali attraverso la visiera di un elmo, ma ancora oggi le autostrade principali di un esercito di germi, potenziali parassiti, vettori d’infezione virali. Per quale ragione dunque un agile mammifero di fiume, dotato della capacità d’emettere i segnali necessari all’ecolocazione assieme lo speciale organo globulare all’interno del cranio, il cosiddetto melone, utile a recepirne il ritorno con estrema precisione, dovrebbe preoccuparsi del mantenimento di ulteriori approcci utili al rilevamento e misurazione delle sue prede? Una considerazione che di certo può non essere il diretto frutto d’elaborazioni o considerazioni coscienziose, pur essendo niente meno che cruciale nella definizione dell’intero genere descritto scientificamente per la prima volta da due ricercatori indipendenti nel 1801, Lebeck e Roxburgh, con il nome derivato dal greco di Platanista. Un tipo di creature caratterizzate da un particolare habitat fangoso, con visibilità ridotta e le acque estremamente torbide, dove la più pura sopravvivenza, all’interno dei fiumi Indo e Gange, richiedeva metodi e soluzioni figlie di un diverso approccio all’esistenza. E che avrebbero di sicuro permesso a simili animali di continuare a prosperare, se non fosse stato per il progressivo sfruttamento e conseguente contaminazione di questi due grandi corsi d’acqua, in maniera progressivamente risultante dall’affermazione della moderna civiltà industriale.
Per quanto concerne l’effettiva notazione tassonomica del cosiddetto delfino gangetico, così chiamato in forza di una mera antonomasia, si è quindi pensato fino al 1998 che questo potesse suddividersi in due specie distinte, finché studi maggiormente approfonditi del suo sequenziamento genetico, realizzati soprattutto grazie al miglioramento degli strumenti, non portarono la comunità scientifica al raggruppamento in una singola categoria divisa in due sottospecie, troppo simili perché potesse parlarsi d’insiemi distinti. Con un colpo di scena decisamente inaspettato, tuttavia, l’ulteriore revisione sarebbe giunta proprio a marzo di quest’anno 2021, grazie alla mera osservazione fisica da parte di un team con ricercatori dell’Università inglese di St. Andrews a Fife e altre istituzioni locali ed internazionali, il cui studio (vedi) avrebbe aperto gli occhi di tutti in merito alla questione. Per notare finalmente una significativa quanto ovvia differenza nella posizione e il numero dei denti, nonché la forma del cranio dei due delfini, tali da rendere impossibile considerarli come due semplici varietà dello stesso animale, bensì le specie distinte di Platanista gangetica e P.g. minor, situato principalmente in Pakistan lungo il corso e gli affluenti dell’Indo. Una considerazione niente meno che primaria al fine di organizzarne la difficile conservazione, con poco più di 1.000 esemplari stimati ancora in vita per ciascuno dei due casi ormai distinti. Ed un’opera particolarmente difficile, dinnanzi ad una cultura tradizionale inclini a considerarli come legittimi bersagli delle attività di pesca umane, non soltanto al fine di consumarli direttamente, ma anche per ricavarne un olio utilizzato nella cattura sistematica dei pesce gatti. E se mai c’è stata un’altrettanto lugubre, quanto efficace dimostrazione del vecchio modo dire: “[Uccidere] due piccioni, con una fava”….



