Quando i primi animali europei giunsero assieme ai coloni sulle intonse spiagge del secondo continente meridionale, l’ecosistema australiano venne percorso da una scossa che continua tutt’ora. Un’intera catena alimentare, all’interno della quale i predatori più temibili erano il tilacino (alias “tigre” tasmaniana) assieme al dingo introdotto assai probabilmente dai Polinesiani, venne improvvisamente capovolta dalla presenza straordinariamente competitiva di ratti, felini, volpi, maiali e conigli. Per non parlare degli arrivi successivi e ancor più problematici, come il ratto delle canne o la formica rossa Solenopsis. Mentre molte delle specie native soffrivano e tentavano di adattarsi, all’interno di nicchie calibrate nel trascorrere di lunghi millenni, una singola tipologia di esseri, fuoriusciti dall’acqua nel proprio percorso evolutivo soltanto 20 o 50 milioni di anni fa, guardarono verso il pericolo. E con una studiata espressione d’indifferenza, continuarono tranquilli per la propria strada. L’echidna, denominata sulla base del mostro leggendario dell’antica Grecia che era per metà umano e per metà serpente a causa della sua metodologia riproduttiva ovipara, mantiene di suo conto pochi tratti che permettano d’identificarla come discendente dello Steropodon, creatura del Cretaceo del tutto simile a un moderno ornitorinco. Il che diventa ancor più vero nel caso in cui si prendano in esame i suoi parenti originari dell’isola di Papua Nuova Guinea, così drammaticamente dissimili dalla stragrande maggioranza degli esseri viventi. Con la possibile eccezione del porcospino e del formichiere: così coperte da una fitta ed ispida peluria marrone scuro, da cui emergono gli aculei cheratinosi in quantità minore di quanto ci potremmo aspettare, la sua presenza senza coda e non più lunga di 100 centimetri si aggira barcollando per il sottobosco delle foreste d’altura. Rendendo onore al proprio nome comune di “echidna dal becco lungo” (alias Zaglossus) grazie al muso simile a una cannula che costituisce i due terzi della lunghezza del suo cranio, pieno di elettrorecettori per trovare i vermi e le larve d’insetto di cui è solita nutrirsi. Essere crepuscolare o notturno allo stesso modo dei suoi cugini più studiati, questa triplice categoria di echidna teme in modo particolare le alte temperature, a causa della propria incapacità di sudare. Ragion per cui trascorre l’intero periodo delle proprie giornate all’interno di una tana sotterranea, che scava grazie all’uso delle possenti zampe anteriori dotate di cinque artigli. Mentre quelle posteriori, che ne possiedono soltanto tre, compensano spesso mediante la presenza di uno sperone vestigiale presente in età adulta soltanto nei maschi, probabilmente usato dai loro antenati per l’inoculazione di un veleno simile a quello dell’ornitorinco. In assenza del quale, ciascuna delle quattro specie di echdina viventi costituisce ad ogni modo una fortezza ambulante, elusiva ed accorta, al cospetto della quale ogni aggressore tranne l’uomo appare incline a riconsiderare l’ordine delle sue priorità…
strano
L’impennata veicolare dell’ovoide che rendeva omaggio alla Torre Eiffel
Senza un briciolo d’esitazione, l’uomo nella bolla imbocca il viale oggetto di un milione di fotografie l’anno. Disegnando una precisa traiettoria fino al punto di fuga prospettico desiderato, si ferma per qualche secondo a meditare. Quindi, con un rapido cambio di marcia, prepara il proprio mezzo di trasporto al movimento in senso rotatorio. Si gira a 45 gradi dalla telecamera e solleva, in modo asimmetrico, la singola ruota davanti. Ora punta con il mento, come la struttura posta sul fondale, verso il cielo spesso plumbeo della Città delle Luci. Dominando, come il destriero sull’emblema, lo spazio iconico degli Champs-Élysées.
Quando si confronta il mondo dell’alta moda con quello della produzione automobilistica, emerge chiaramente il tratto che distingue maggiormente queste due industrie: entrambe finalizzate alla risoluzione di un problema preciso, con ampia attenzione riservata all’estetica del prodotto finale. Ma che nel primo caso può spaziare in modo significativo nella tecnica, la finalità e i modelli di riferimento; mentre nel secondo si ritrova cristallizzato essenzialmente in una serie d’invariabili modelli di riferimento. Tutti sanno, dopo tutto, com’è fatto un veicolo su quattro ruote e quali sono i crismi progettuali cui è opportuno conformarsi, al fine di sfruttare al massimo i vantaggi derivanti dalla standardizzazione di strade, parcheggi ed altre tipologie di servizi. Jean-Pierre Ponthieu è “l’uomo misterioso”, a tal proposito, che tentò in un particolare momento storico di coniugare le due contrapposte scuole di pensiero a Parigi, evocando dalle nebbie impenetrabili della sua mente creativa un prodotto che sarebbe riuscito a cogliere il mondo del tutto impreparato: una vera e propria automobile ovoidale. L’ufo su ruote che si premurò di definire l’Automodule, per poi spiegare pubblicamente: “Il punto è che l’automobile è brutta. L’Automodule, invece, è bella.”
E chi siamo, noi, per dargli torto? Era del resto l’anno 1968, quando tutti provavano ogni cosa e in molti hanno scherzato in merito al ruolo avuto da sostanze allucinogene o psicotropiche nella creazione dell’ultra-eclettico veicolo in questione, in apparenza creato per spiazzare chiunque lasciandolo del tutto senza parole. Anche se, sfruttando le poche informazioni reperibili online, risulta comunque possibile una parziale contestualizzazione, tale da comprendere il modo in cui l’assurdo bolide non si fosse materializzato, in modo pressoché istantaneo, da uno spazio parallelo al nostro piano materiale d’esistenza. Risultando piuttosto a guisa di coronamento di una lunga e articolata carriera nel mondo della pubblicità, per quello che le cronache coéve avrebbero definito “il Salvador Dalì” dell’automobile. E con alcune valide ragioni, aggiungerei…
Il suono roboante della macchina che ricicla i tondini edili
Facile da fare, difficile da disfare, praticamente impossibile da riportare allo stato originario. Il cosiddetto rebar o tondino zigrinato, componente primario dell’armatura edile, viene creato mediante la lavorazione a freddo e taglio a misura di una letterale bobina di acciaio duttile, successivamente trasformato in una struttura rigida mediante la sollecitazione dei suoi atomi costituenti. Il che non significa che risulti essere, di suo conto, indistruttibile, come ampiamente dimostrato a seguito della demolizione di un edificio. Quando assieme al cumulo di cemento, inerentemente riutilizzabile a guisa di materiale riempitivo, si prende atto del tremendo groviglio composto da letterali decine, o centinaia di metri di queste sbarre di ferro e carbonio, particolarmente veloce ad arrugginirsi mentre si trasforma in un rifiuto buono soltanto per la fornace. Ecologia? Tutela dell’ambiente? Riduzione dell’impronta carbonica derivante? Tutte finalità difficilmente perseguibili, soprattutto in paesi in via di sviluppo, dove la spinta all’ampiamento e recupero edilizio supera talvolta i fondi a disposizione della maggior parte delle aziende. Viene infatti dal Brasile questa singolare macchina recicladora de vergalhão, che poi sarebbe un’espressione in lingua portoghese che allude al riutilizzo dei suddetti componenti, finché sono ancora “buoni” e ragionevolmente utili in un’ampia gamma di circostanze. C’è infatti una fondamentale problematica, che tende ad accomunare la maggior parte delle sbarre di rebar che vengono recuperate dal cemento d’implementazione, anche in condizioni ideali: le sinuose curve, gli angoli a gomito, le difformi piegature implementate al fine di ancorarle in posizione, così da evitare lo scivolamento e conseguente crollo (involontario) dell’edificio. Da qui l’idea della JP Botelho Máquinas, già individuabile anche nel catalogo di alcuni fornitori cinesi online, per semplificare un tipo di processo a cui semplicemente nessuno, fino ad oggi, era sembrato possibile fare affidamento. L’effettiva piegatura sul campo di questa tipologia di materiali, tradizionalmente effettuata a mano mediante l’utilizzo di attrezzi manuali simili a tridenti, aveva sempre richiesto un lungo tempo ed altrettanta perizia nell’esecuzione dei movimenti, tanto da rendere impossibile il ritorno sistematico alla situazione di partenza. Finché non si potesse disporre dell’aiuto di un particolare, ingegnoso ed automatico, coccodrillo…
L’incalzante metafora digitale del gigante a rotelle
I suoi occhi tristi, la barba che ricopre il mento aguzzo. E quelle mani sollevate con i gomiti serrati sui fianchi, le cui dita diventano qualcosa d’indefinibile e sottilmente inquietante. La figura che campeggia in penombra non ha le gambe. Ma questo non sembra impedirgli in alcun modo di camminare, mentre ricompare ancora ed ancora, perseguitandomi durante l’ora più terribile delle mie fosche peregrinazioni. Un po’ più veloce, sempre maggiormente vicino. Nell’assoluta e imprescindibile certezza che un singolo contatto, vorrebbe dire la morte.
La storia creativa di Internet è ricca di circostanze fortuite in grado di generare dei letterali mostri, dalle caratteristiche mutevoli quanto la prototipica apparizione del mago di Oz. Ed in termini meteorologici questi forum, gruppi distribuiti, pagine social e altri luoghi di ritrovo impersonali sono da sempre risultati terreno fertile per l’incontro di personalità intellettualmente prossime, generando l’energia statica che anticipa l’arrivo del temporale. Ma come in molte altre circostanze antropogeniche non è infrequente che sia proprio il contributo di un singolo, ad imporre un fattore scatenante o catalizzatore dell’inizio del cambiamento. È probabilmente questo il caso dell’utente anonimo del portale 4chan che nel 2019, commentando la strana immagine di un ufficio con pareti e pavimento di colore giallo pallido, ci fornì l’accesso metaforico al fenomeno inqualificabile delle Backrooms. Permettendo tra gli altri a Kane Pixels, l’artista digitale autore del presente video, d’iniziare a elaborarne il nesso da un punto di vista narrativo e iconografico, con una serie per YouTube fatta iniziare all’incirca un anno fa. Ora è importante comprendere, per contestualizzare la sua ultima produzione, è che la trilogia (per ora) dallo strano titolo di “The Oldest View” costituisce l’evidente tentativo di provare qualcosa di nuovo, costituire l’avanguardia innovativa di questa particolare mitologia, basata sull’estetica talvolta impressionante degli spazi liminali. Avete presente? Quella sensazione di straniamento che deriva dal trovarsi in un luogo tipicamente affollato, totalmente privo di persone ed almeno in apparenza sospeso tra due stati dell’esistenza. Un jamais vu che trova la sua perfetta espressione nello scenario ricorrente del centro commerciale abbandonato, luogo tristemente ricorrente ed in continuo aumento ai margini di grandi o medie cittadine, dove nessuno ha una ragione di aggirarsi tranne il praticante eclettico di esplorazioni abusive o l’occasionale fantasma o spirito maligno dei sogni infranti. Perciò scelto con studiato criterio dal nostro autore, in questo saliente caso, come ambientazione per il medio-metraggio di genere orrorifico i cui unici personaggi sono il fornitore di un punto di vista in prima persona, totalmente privo di volto per l’intera ininterrotta sequenza, ed quello che potremmo definire nel particolare ambito di questa narrazione come… L’assassino. Benché non propriamente riconducibile al tradizionale concetto di quella tipologia di personaggi, essendo esso stesso una cosa, l’automa concepito in base all’inquietante normalità di uno stile d’intrattenimento magari leggermente desueto, certamente insolito nei propri canoni artistici di riferimento. Ma che diventa assolutamente terrificante, quando ci si trova in un luogo e momento misteriosi, dove l’unica speranza di sopravvivere sembrerebbe agire in base ai propri istinti alla ricerca di una possibile via di fuga…