L’impraticabile leggerezza dello Starship, futuribile fallimento nella storia dell’aviazione

Se i tipici compratori degli aerei privati dovessero preoccuparsi in maggior misura proporzionale del costo iniziale del velivolo, vedremmo probabilmente una maggiore quantità di apparecchi concepiti per stupire o impressionare gli spettatori, in maniera analoga ma in proporzione più costosa delle stravaganti hypercar che lungi dal diminuire di numero, hanno addirittura proliferato nel corso degli ultimi due decenni. Se anche il significativo apporto pecuniario da conferire per carburante, mantenimento e riparazione di una tale classe di status symbol costituisse l’ultimo problema, ancora i più bizzarri esempi ingegneristici troverebbero un proprio segmento di mercato, vista l’esistenza del rinomato ed altrettanto problematico 1%, per cui ogni tipologia di crisi economica o disastro finanziario costituisce ormai soltanto l’occasione di generare ulteriori profitti. Ma un mezzo di trasporto alato è soprattutto la punta dell’iceberg di un sofisticato sistema, fondato sulla produzione pressoché continua di pezzi di ricambio. E non è semplicemente immaginabile che una compagnia del mondo capitalista, di fronte a una manciata di esemplari venduti, possa continuare a supportarli in perpetuo. Fu probabilmente questo, tra gli altri fattori ad affossare irrimediabilmente uno degli aerei più avanzati (in linea di principio) ed avveniristici (se così vogliamo definirlo) dei rutilanti, fiduciosi, eclettici anni ’80.
Ci sono bolidi con ali a freccia, ed altri dotati di configurazione aerodinamica con gli alettoni frontali canard. Alcuni sono dotati delle atipiche eliche spingenti, con il vantaggio di ridurre le vibrazioni nell’abitacolo fino ad un valore paragonabile a quello di uno stabile motore a reazione. Ben pochi, d’altra parte, possiedono una “coda” invertita, finalizzata a contrastare l’eccessiva portanza della parte frontale della fusoliera, che avrebbe altrimenti teso ad allontanarsi costantemente ed incessantemente dalla linea dell’orizzonte. E poi c’è il Beechcraft Starship, che incorpora tutte queste caratteristiche e diversi altri anacronismi, intesi come valide anticipazioni di tecnologie all’epoca sperimentali, alcune delle quali destinate a diventare dei capisaldi futuri dell’aviazione. Ecco un piccolo bimotore a turboelica per fino ad otto passeggeri dunque, che potrebbe definirsi la risultanza di una serie di fattori tangenti, ciascuno destinato a contribuire al suo strabiliante eclettismo in termini di estetica e funzionalità. Costituendo, allo stesso tempo, l’imprescindibile genesi della sua inevitabile condanna. L’idea nacque di suo conto nel 1979, dall’intento pratico e condivisibile di commercializzare un nuovo successo appartenente alla categoria dei riusciti King Air, aerei “da turismo” e trasporto su tratte medio-brevi, che avevano dominato il mercato nel corso delle loro ultime quattro generazioni…

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L’impresa dell’antico albero che ha chiarito la portata dell’ultima inversione terrestre

Come immortali stregoni asserragliati nelle loro torri montane, gli alberi della famiglia delle Araucariacee hanno sperimentato i mutamenti della storia umana come mere note a margine delle loro interminabili esistenze terrene. “Quando questo arbusto era un tenero virgulto” recitano le placche spesso poste innanzi ai più celebri pini di Wollemia, abeti della Nuova Caledonia o kauri neozelandesi “Napoleone indossava per la prima volta la corona di Francia.” E così via a seguire. Che cosa pensereste, d’altra parte, se vi dicessi che esiste proprio adesso in questo mondo un tronco a tal punto vetusto da aver sperimentato direttamente sulle proprie fibre un qualcosa di avvenuto 42 millenni prima delle data odierna? Non più vivo, chiaramente (neppure Matusalemme poteva aspirare ad una tale persistenza) bensì ritrovato sotto terra, in modo totalmente accidentale, durante gli scavi del 2019 in una torbiera vicino alla quale gli abitanti della parte settentrionale dell’Isola del Nord (NZ) intendevano costruire una nuova centrale elettrica. Così da imbattersi nel corpo e nello spirito residuo di un corposo esponente della specie Agathis australis, destinato ad essere presto portato presto la riserva e santuario dei Māori di Ngāwhā Marae. Non prima, d’altra parte, che le tante tonnellate di antico legno venissero sottoposte a uno scrutinio approfondito da un team interdisciplinare di vare prestigiose istituzioni accademiche nazionali, così come altri ritrovati in situazioni comparabili, con l’obiettivo di trovare la proverbiale quadratura del cerchio. Relativamente ad un evento dell’ancestrale Preistoria, per una volta non legato a sconvolgimenti geologici o eventuali testimonianze tangibili appartenute alla pregressa biosfera. Bensì un letterale dramma destinato a compiersi probabilmente ancora, negli strati esterni alla calotta azzurra dei nostri cieli.
L’albero fu dunque sezionato trasversalmente, e la sottile “fetta” misurata attentamente, con un occhio di riguardo per il distanziamento e la forma degli anelli annuali della crescita della pianta. Una creatura vegetale, è importante sottolinearlo, capace di vivere anche svariati millenni, riuscendo a coprire nel caso specifico un periodo estremamente interessante del tardo Pleistocene. Quando per circa 800 anni la polarità magnetica del globo terracqueo, come avevamo lungamente teorizzato, si ritrovò condizionata da un graduale quanto inesorabile processo d’inversione temporanea, tale da portare a sconvolgimenti e disastri d’entità davvero significativa. Una teoria supportata da rilevanti studi scientifici che finalmente diventava, grazie ai nuovi dati redatti coerentemente e revisionati giusto all’inizio di questo mese di febbraio, oggettiva certezza…

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L’esercito dei piccoli vampiri corazzati che sciama nell’intercapedine tra i continenti e il mare

Il dolore rappresenta quel segnale inviato dall’organismo utile a prevenire il prolungarsi di una situazione lesiva. Da un punto di vista evolutivo, esso non poteva fare a meno di essere tanto spiacevole, persino a discapito della chiarezza dei pensieri e la capacità di affrontare le situazioni in base alla comune percezione delle cause ed effetti latenti. Quando l’organismo fallisce nell’inviarci un segnale, perché siamo distratti, eccessivamente concentrati o il tipo di sollecitazioni fisiche sfugge semplicemente alla capacità istantanea di essere rilevato, le conseguenze possono crescere esponenzialmente in modo indipendente dal contesto. Fece notizia nel 2017 la storia della disavventura incontrata da Sam Kanizay, ragazzo di Melbourne in Australia. Accompagnata dalla documentazione fotografica della maniera in cui, dopo un breve periodo trascorso sulla spiaggia, fosse stato ridotto da cause non immediatamente apparenti: sdraiato, l’espressione ansiosa, i piedi fino alle caviglie letteralmente ricoperti di sangue, ma non per la presenza di una o due ferite. Bensì, letteralmente, milioni di minuscole perforazioni subite dalla sua epidermide, per l’effetto di mandibole non del tutto apparenti. Tanto che i titoli su Internet indicarono, in modo appena un filo sensazionalistico, il colpevole come appartenente alla misteriosa genìa dei “pirañas” o squali della sabbia, benché la vera identità delle creature responsabili non fosse di suo conto, in alcun modo meno terribile o affascinante.
Per non dire Mostruosa… Avete presente la classe animale degli isopodi? Un tipo di crostacei adattati alla sopravvivenza nel sostrato, riconoscibili per il possesso di un esoscheletro rigido e segmentato, del tipo che fin da bambini impariamo ad associare al cosiddetto porcellino di terra alias roly-poly, artropode la cui famiglia prende il nome di Armadillidiidae. Di cui versioni ben più grandi rientrano nella popolazione molto variegata delle bestie marine, benché i nostri protagonisti, membri della vicina ma distinta categoria dei Cirolanidae, appartengano decisamente alla metà più compatta dello spettro proporzionale. Con i loro 0,8 cm mediani che in condizioni comuni, tenderebbero a renderli del tutto inoffensivi nei confronti dell’imponente popolazione umana. Se non fosse per l’indole naturalmente predatoria, la tendenza a moltiplicarsi ed il possesso di un sistema di masticazione sufficiente a perforare ogni materia ragionevolmente morbida di questo ingrato mondo. Incluso, neanche a dirlo, l’umano…

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Trovata l’eruzione che fu in grado di causare uno degli anni più freddi dell’età moderna

Trovare un ago in un pagliaio non è mai una cosa semplice, soprattutto quando si scopre di averlo cercato per quasi un secolo nel pagliaio sbagliato. Così dev’essere sembrato di aver fatto, all’intera comunità scientifica dei vulcanologi, alla recente pubblicazione di uno studio relativo ad uno degli eventi climatici più significativi del XIX secolo. Avvenuto nel 1831, uno dei cosiddetti “anni senza estate” come quello celebre in letteratura di 16 anni prima, per aver costretto a rifugiarsi in una baita svizzera Mary Shelley e Lord Byron, dove scrissero rispettivamente il romanzo Frankenstein e la poesia nichilista Darkness, che parlava della distruzione del Sole. Evento quest’ultimo studiato tanto a lungo ed approfonditamente, da aver gettato alcuni presupposti relativi alla contestualizzazione del raffreddamento temporaneo terrestre dovuto ad eruzioni vulcaniche, tali da condizionare l’applicazione di tale concetto secondo rigidi criteri che sembravano corretti in ogni circostanza di questo tipo: l’Ilopango in Perù nel 536 d.C; il monte Rinjani a Lombok nel 1257; il devastante scoppio nel 1883 del Kratatoa; Tambora nel 1815 e naturalmente, il monte Pinatubo nel recente 1991, capace di raffreddare ogni singolo mese di quell’anno rispetto alle medie globali acclarate. Tutti luoghi situati in prossimità dell’Equatore, nella maggior parte dei casi verificabili grazie a testimonianze coéve tramandate fino alla nostra epoca, dei rispettivi popoli direttamente coinvolti nelle devastanti catastrofi geologiche superiori al grado 4 della scala VEI. Laddove il caso specifico del 1831, menzionato anch’esso da coloro che lo vissero in prima persona, fu sempre in grado di distinguersi per l’assenza di un fattore scatenante chiaro. Possibile che la Terra fosse stata raffreddata da un vulcano, se nessuna montagna venne vista risvegliarsi in quel particolare periodo della storia umana? Ponendosi tale domanda, scienziati dell’università scozzese di St. Andrews, divisione per la ricerca ambientale, decisero perciò nel 2023 di recarsi in Groenlandia, mettendo in pratica uno dei principali metodi a nostra disposizione nella ricerca dello stato atmosferico di epoche remotamente trascorse. Procedendo all’estrazione di un certo numero di cilindrici campioni di carotaggio dal permafrost, per procedere ad un audit dei diversi livelli di profondità, ciascuno corrispondente ad un diverso periodo di accumulo degli spessi strati ghiacciati. Finalità per la quale Hutchison, Sugden, Burke e Plunkett si sarebbero trovati ad applicare l’approccio particolarmente avveniristico della microscopia elettronica, identificando in questo modo l’innegabile composizione delle particelle di tefra (polvere di cenere riolitica) databili perfettamente all’anno incriminato. Con in più una presa di coscienza collaterale, niente meno che rivoluzionaria: dato l’alto accumulo del materiale in questione, qui si era infatti determinato che l’eruzione del 1831, diversamente dalle altre fin qui citate, doveva aver avuto luogo nell’estremo settentrione, possibilmente entro il Circolo Polare Artico. La caccia, a questo punto, era aperta…

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