Illuminati dai raggi di Sole che filtrano tra gli alberi degli altipiani nell’entroterra della Papua Guinea, esseri dall’aspetto sfolgorante camminano, danzano e cantano tra i tronchi. Al suono di antichissimi strumenti musicali, sotto l’insegna di un ventaglio di piume vermiglie, utilizzato per simboleggiare un ruolo sacro e rappresentativo della loro intera comunità. Essi sono i giovani guerrieri, gli aspiranti sciamani ed i futuri capo-villaggio degli Yali, Nduga, Eiponek, Sela, Kurupun… Un nome diverso, in pratica, per ciascun singolo villaggio, ma lo stesso corpus centrale di tradizioni. Un terreno comune ove incontrarsi, al termine di ciascun periodo di conflitto ed isolamento, per celebrare assieme in pantagruelici banchetti l’ineccepibile concordia tra le genti che possiedono la stessa storia collettiva pregressa. Ed ora qualcuno, da un giorno all’altro, vorrebbe inibire tali pratiche? Ebbene, la questione se guardata dall’esterno, mettendo a frutto l’oggettività facilmente raggiungibile quando si parla d’altri, non è un comportamento giudicato improprio sulla base di tabù o limitazioni dei tempi odierni. Bensì un appello, assai più ragionevole ed universale, a preservare ciò che presto potrebbe semplicemente scomparire dalla landa degli eletti in mezzo a questa isola dell’Oceania settentrionale: l’unica fonte riconosciuta dei sopracitati ornamenti, un volatile dalla colorazione e caratteristiche molto particolari, tanto da esser stato soprannominato in Occidente con il nome celebre del primo e più famoso di tutti i vampiri: il Conte Dracula in persona, impalatore di ogni turco che pensasse ingenuamente d’inoltrarsi col suo esercito in Transilvania. E dopo la sua morte e trasformazione, sulla base di quell’influente opera narrativa che avrebbe dato i natali ad un’intero genere a venire, succhiatore del sangue d’inconsapevoli vergini e altre vittime infelicemente designate dal suo anelito maledetto. Per una somiglianza, quella individuata nell’aspetto del caratteristico pappagallo di Pesquet o Psittrichas fulgidus, unico rappresentante del suo genere, per lo più superficiale e collegata al lato estetico, grazie alla colorazione delle sue piume nere nella parte superiore e rosso sangue sotto il ventre dell’animale, ricordando istintivamente l’iconico mantello vampiresco dell’originale. Sebbene sia del tutto lecito associare al nostro amico un latente aspetto di minaccia, per lo più fornito da un qualcosa d’inizialmente difficile da nominare alla prima occhiata. Finché non ci si rende conto che l’uccello non ha piume sulla testa, esattamente come il più riconoscibile dei carnivori del repertorio pennuto, il mangiatore di carogne per eccellenza, ovvero orribile avvoltoio dei cieli. Strano, non trovate? Dopo tutto, non si è mai sentito di pappagalli concentrati nel consumo di altri esseri viventi (o recentemente dipartiti) lasciando come principale opzione per la loro dieta frutti, semi ed altri doni a beneficio di ogni essere dei cieli e della terra. E sebbene sia documentato il caso di specie a tutti gli effetti abituate a mangiare di tutto, come il Kea australiano (Nestor notabilis) qualunque teorico dell’evoluzione noterà dal complessivo aspetto del piumaggio che qui siamo al cospetto di una creatura altamente specializzata e abituata a trangugiare, essenzialmente, una cosa e soltanto quella. Ovverosia l’inerme ed incolpevole, succoso, profumato e appiccicoso frutto dell’albero di fico, vittima sacrificabile verso la via maestra della presumibile immortalità terrena…
vampiri
Il castello in cui venne imprigionato Dracula, posto di confine tra l’ignoto e il moderno
Il fatto che sia mai effettivamente esistito in Transilvania un conte, o voivoda (comandante militare) che non beveva mai… Acqua, è in ultima analisi del tutto irrilevante, quando si considera il potere, storico, folkloristico e culturale, che può accompagnare la leggenda di un bel paio di canini acuminati. Non tanto per la loro capacità di far spillare il sangue dal collo di una vittima designata, quanto per l’implicazione stessa, di un essere che non ha mai avuto realmente bisogno di stringere alcun tipo di patto con il Diavolo, finendo per essere lui medesimo, in un certo senso, il Diavolo stesso. Ovvero Dracul, il gran serpente, colui che solo un santo ed un arcangelo avrebbero potuto costringere ad arretrare, fatta eccezione per Cacciatori armati di strumenti armati con la scienza e il raziocinio dei tempi moderni. Entità già piuttosto rare nel mondo le prime e non ancora esistenti i secondi, quando verso la metà del XV secolo nell’attuale territorio rumeno della Valacchia visse e comandò la figura storica più spesso associata a tale essere, il crudele condottiero Vlad III soprannominato l’Impalatore, per l’inquietante passione che sembrava possedere nei confronti dell’eponimo sistema di tortura e pena capitale. Da lui utilizzato con sadico trasporto per dissuadere i suoi molti nemici, prime tra tutte le armate di saccheggio inviate nel suo territorio per le ambizioni imperiali dei Turchi Ottomani. Uomini duri per un’epoca ancor più spietata dunque, sebbene un tale personaggio sembrasse possedere una reputazione in grado di andare oltre l’umanamente comprensibile ed accettabile, se è vero che nel 1462 Mattia Corvino, Re d’Ungheria, lo fece catturare dai suoi mercenari e imprigionare preventivamente nelle segrete del suo castello. Con ragioni principalmente politiche, tra cui la ferma intenzione a riappacificarsi con le terre situate a Oriente, ma non solo. Più e più volte infatti, il voivoda della Transilvania aveva soprasseduto ai suoi ordini, invadendo e saccheggiando villaggi situati in territorio neutrale. Costituisce dunque una particolare ironia, il fatto che tra tutti i castelli associati cinematograficamente al personaggio di fantasia, associato storiograficamente alla sua figura, il più celebre nei tempi moderni fosse destinato a rimanere proprio quello di Bran a poca distanza dalla città di Brașov, dove Vlad trascorse in prigionia un periodo stimato attorno ai 13 anni, prima di essere rilasciato per tornare a combattere, a patto che si convertisse alla religione cattolica e giurasse nuovamente fedeltà al suo sovrano.
Un luogo forse non tra i più imponenti e visitati siti storici della Romania, ma che proprio per questo fu l’oggetto di una formidabile campagna di marketing a partire dalla seconda metà del Novecento, finalizzata a renderlo il prototipo del classico castello “vampiresco”, inaccessibile sopra il suo zoccolo di pietra, il cui innegabile valore strategico risultava esteriormente subordinato a un senso di minaccia psicologico ed incombente. Sorpasso certamente non semplice, quando si considera il ruolo niente meno che primario posseduto da tale fortezza per almeno cinque secoli a partire dal 1212, quando i Cavalieri Teutonici ricevettero dal loro Gran Maestro l’ordine di costruire una struttura difensiva in legno presso il passo montano che costituiva l’unico ingresso nella regione prosperosa di Burzenland, sotto il comando di un “precettore” locale dal nome riportato di frater Theodoricus. Il cui immediato successore sarebbe andato incontro ad un problema presumibilmente irrisolvibile con la venuta del 1242 dei Mongoli, e la conseguente distruzione del castello. Ma tutti i grandi imperi, al trascorrere di un tempo sufficientemente lungo, vedono il proprio territorio flettersi in maniera esponenziale, e fu così che nel 1377 ritroviamo nuovamente questa zona sotto il controllo di un sovrano europeo, Re Luigi I d’Ungheria, che da ufficialmente il compito alla popolazione sassone di Kronstadt (l’odierna Brașov) di costruire un inviolabile passaggio di confine all’ingresso della Valacchia, che essendo costruito questa volta in pietra avrebbe potuto resistere (strutturalmente) ad un qualsiasi tipo d’assedio. E fu così che la struttura che ancora oggi chiamiamo castello di Bran ebbe modo di prendere forma, ad un risvolto e per bisogni niente affatto sovrannaturali della storia del Medioevo…