L’abilità speciale dei piloti che trasportano striscioni pubblicitari volanti

Due nemici giurati uniti da un filo sottile e indivisibile, sinonimo della mansione che occorre assolvere per dare il senso al mestiere: il piccolo aereo da turismo, del tipo tanto spesso usato per cospargere di sostanze chimiche i campi; e un ampio rettangolo di stoffa, della grandezza approssimativa di 110 metri quadrati caratterizzato dalla stampa variopinta di un logotipo, il messaggio pubblicitario, un’immagine, persino una fotografia. Poiché non dovrebbe esserci nulla di peggiore, in linea di principio, che un qualcosa di capace di generare attrito con l’aria ed ingombro in fase di decollo, generando una situazione potenziale di pericolo per ogni singola persona coinvolta. Ed ecco perché in effetti, la manovra che proietta quell’oggetto nel suo ambiente naturale deve avere luogo in un momento cronologicamente distante dalla partenza, mediante un approccio che appare al tempo stesso particolare, inaspettato, scenograficamente pericoloso. Due pali eretti parallelamente in un campo; una cima tesa tra questi due punti estremi; e il rombo di un motore che velocemente si avvicina, si avvicina. Giungendo a pochi metri da terra, prima di puntare bruscamente il muso verso l’alto, rallentando fin quasi alla velocità di stallo… Qualcosa che in condizioni normali, nella maggior parte dei casi, viene a dir poco sconsigliato.
La questione che agevola ed incoraggia, più di ogni altra, l’effettiva messa in opera e realizzazione delle iniziative di pubblicità volante è che fin dall’epoca della sua prima definizione, è stata dimostrata possedere un grado d’efficacia considerevole. Questo per la percezione del messaggio come presentato “in maniera inusuale” ponendo le basi perché possa essere notato e ricordato maggiormente a lungo. Mongolfiere, dirigibili, paracaduti e persino flogos (agglomerati di schiuma semi-solida trasportati via dal vento) hanno ciascuno avuto quindi il loro attimo di gloria. Benché nulla di simile, realmente, possa dirsi in grado di possedere la stessa versatilità e notevole efficacia del semplice aeroplano ad ala fissa, in grado di coprire un’area maggiore ed in funzione di ciò, raggiungere una quantità stimata di fino a 250.000 persone nel giro di un’uscita di 3 o 4 ore. Particolarmente quando si riesce a collocare cronologicamente tale exploit in corrispondenza d’aggregazioni significative, come le grandi spiagge statunitensi durante il periodo primaverile ed estivo, oppure ingorghi significativi ai margini dei grandi centri abitati di quello stesso paese. Non a caso questa celebre attività nasce proprio all’inizio degli anni ’50 con il duplice obiettivo di trovare nuovi presupposti di profitto ed un valido impiego per i piloti militari tornati in patria dopo il termine della seconda guerra mondiale, con l’abilità necessaria e l’esperienza per riuscire là dove nessuno, prima d’allora, aveva mai pensato d’inoltrarsi. La prima compagnia citata ufficialmente nelle cronache ha tuttavia un’origine olandese, trattandosi della Martinair di Martin Shroeder, che iniziò con base operativa presso l’aeroporto di Amsterdam-Schiphol e una piccola flotta di magnifici biplani inglesi de Havilland DH 82a Tiger Moth, presso quest’altro luogo dove l’elevata densità di popolazione avrebbe potuto massimizzare ed accrescere il suo ritorno d’investimento…

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Dalla Cina la campana che risuona grazie al sacro fuoco della curiosità intellettuale

Vista in superficie sembra soltanto un gadget, un altro strano giocattolo scientifico della variegata, celebre collezione di Tim Rowett, che potreste riconoscere come l’uomo più britannico di tutto YouTube. Personaggio singolare e distinto, dal raffinato accento, con un suo modo molto per esporre di volta in volta la funzione e la provenienza di alcuni degli oggetti più bizzarri e interessanti che gli riesce di reperire in giro per tutto il mondo. Cose come “La sorprendente campana di Yi”, compatto strumento musicale da tavolo, dotato di una caratteristica assai particolare: quella di suonare in due modi radicalmente differenti, alla temperatura ambiente e nel caso in cui sia stata, preventivamente, riscaldata sul fuoco fino a 100 e più gradi. Riuscendo a riprodurre in ciascuno dei corrispondenti casi, secondo quanto spiegato dalle istruzioni ufficiali facilmente reperibili online, il suono sordo di un pezzo di legno oppure quello armonico, e decisamente più gradevole, di una vera e propria campana in bronzo. Dualismo chiaramente dimostrato nel corso del suo video di appena 5 minuti, in cui con l’aiuto di un pirometro a infrarossi e l’incluso fornelletto ad alcol, facente parte della struttura dell’ingegnoso apparato, esamina e dimostra l’intero spettro della questione uditiva, senza inoltrarsi eccessivamente nel merito dell’effettiva provenienza ed etimologia del nome. Una di quelle questioni, d’altra parte, capaci di allungare in modo significativo il tempo necessario per una soddisfacente trattazione…
La campana di Yi infatti, o esperimento scientifico U30002 come sembrerebbe essere chiamata in molti dei possibili contesti, ha una provenienza contemporanea poco chiara ma una genesi remota tra le più certificate ed importanti: quella intenzionata a collocarne l’ispirazione, tra tutti i luoghi possibili, all’interno di una tomba risalente al 433 a.C. e ritrovata soltanto nel 1977, durante alcune manovre dell’Armata Rossa per la costruzione di una fabbrica a Leigudun. Luogo destinato all’eterno riposo, per l’appunto, del personaggio storico noto come marchese Yi del regno di Zeng, uno dei molti stati in perenne conflitto durante il periodo di continui sconvolgimenti sociali e politici passato alla storia con il nome di Primavere ed Autunni (722-421 a.C.). Uomo il quale, secondo quanto è solita affermare un’interpretazione piuttosto nota, preferiva “Al fascino insanguinato delle armi, il suono pacifico di una musica celestiale.” Affermazione che potrebbe sembrare fuori dal contesto, finché non si viene a conoscenza del più significativo degli oggetti ritrovati all’interno del suo mausoleo: il più massiccio, antico e significativo esempio di un bianzhong (编钟) che sia giunto fino ai nostri giorni senza essere passato più volte attraverso le mani di ladri di tombe, commercianti senza scrupoli e contrabbandieri d’arte. Finestra impareggiabile ed ancora funzionante, in altri termini, di quella che poteva essere la specifica musica rituale e di corte in un’epoca persino antecedente a quella della Grande Muraglia, oltre alla magnifica fattura metallurgica e reiterata di un qualcosa che, in Occidente, non sarebbe uscito da una forgia fino all’epoca delle grandi cattedrali: la campana in bronzo capace di produrre due note allo stesso tempo, a seconda delle esigenze e in base alle capacità del suonatore…

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In fondo ai grandi pozzi monumentali del subcontinente indiano

Quando si pensa all’opera dei potentati, regni ed imperi nella lunga storia del mondo, ben poco sembrerebbe aver avuto lo stesso grado di auspicabile prestigio della costruzione di un alto tempio o altro edificio connesso ad esigenze religiose. Quasi come se l’associazione tra l’utile ed il sacro, in tale classe d’edifici, convergesse nel dar forma alla più chiara e duratura testimonianza del livello d’autorità raggiunto da questo o quel governante; spostando la nostra attenzione ad un lungo periodo nella storia dell’India Nord-Orientale, soprattutto nei due stati confinanti del Rajasthan e Gujarat, è possibile individuare una diversa espressione del prestigio architettonico, che aveva l’insolita propensione a crescere piuttosto verso il basso, scavando fino alle proficue viscere di un suolo reso arido dal clima intensamente tropicale di quel paese. Il loro nome è a seconda della lingua awdi, bawri, baoli, bavadi, bavdi, vav, vaav o più semplicemente “pozzi a gradini”, un’espressione che costituisce anche la chiara descrizione della loro forma e funzionalità: quella di contribuire in larga parte, per l’appunto, alla fornitura di risorse idriche in un luogo dove può smettere di piovere per un’intera stagione, agendo nel contempo come punto di riferimento, luogo di ritrovo e centro di venerazione per il popolo nel suo complesso. Un concetto, questo del pozzo, che raramente in altri luoghi si è mai trovato a ricevere particolari attenzioni estetiche limitandosi a servire ad uno scopo, ma che in questo particolare contesto geografico giunse a superare, in magnificenza e pregio della sua fattura persino la svettante forma di un acquedotto romano. Osservate, a tal proposito, il Chanda Baori (Pozzo di Chanda) del villaggio di Abhaneri in Rajasthan, costruito tra l’VIII e il IX secolo dall’omonimo re della dinastia dei Chamana, benché la leggenda affermi che sia stata l’opera di spiriti e djinn coinvolti nel progetto grazie a un qualche tipo di arcana stregoneria. Ed a guardarlo, sarebbe strano continuarsi a chiedere il perché di una simile storia, vista l’imponente forma di una simile struttura quadrata, tali da farlo inserire tra i più profondi (20 metri) ed ampi (30 metri di lato) tra i suoi simili, essendo comparso anche in varie opere cinematografiche internazionali come “prototipo” della sua classe di strutture. Spesso con un ruolo sottilmente inquietante, come quello del “carcere” in cui venne imprigionato Batman nel film con Christian Bale del 2005. Una visione che non potrebbe essere, a conti fatti, più lontana dalla realtà visto il ruolo d’aggregazione, spesso festiva, che simili elementi urbanistici tendevano ad avere nella comunità dell’India medievale, come luoghi di riposo, centri di venerazione e simboli per l’orgoglio della collettività indivisa. Un pozzo come il Chanda Baori si presenta infatti non come un semplice buco nel terreno bensì una vera e propria “piazza verticale” dotata nel presente caso di ben 2500 scalini, disposti non in senso perpendicolare bensì parallelo all’estendersi dell’apertura, per permettere al maggior numero di persone contemporaneamente di accedere all’acqua, indipendentemente dalla quantità contenuta all’interno. Diversi camminamenti a mezza altezza dotati di portici e persino un haveli (padiglione) reale, aggiunte in buona parte successive all’epoca del primo scavo, impreziosiscono ulteriormente il quadro scenografico, rendendo l’idea di un luogo dove si andava non soltanto per prelevare l’acqua, ma anche riposarsi e rinfrescarsi dalla calura estiva, ma anche pregare agli Dei legati allo scorrere delle acque, tra cui particolari aspetti di Shiva, Ganesh e Vishnu. Non a caso, a poca distanza dal pozzo, sorse successivamente un santuario dedicato ad Harshat Mata, personificazione della felicità, prima di entrare nel quale usanza voleva che ci si purificasse all’interno delle acque del Chanda Baori. Verso l’ottenimento di un ruolo sacrale che avrebbe tuttavia raggiunto il suo massimo livello soltanto successivamente nell’XI secolo e all’interno delle terre confinanti del Gujarat, grazie alla straordinaria costruzione del Rani ki Vav (Pozzo della Regina)…

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La lunga e tortuosa strada verso la creazione di una macchina da scrivere cinese

Complesso è sicuramente complesso. Difficile? Non tanto: basta andare con la giusta velocità, ricordandosi che il tempo può esserci alleato, ogni qualvolta manca di trasformarsi nella personificazione del nostro nemico. Il foglio di carta scorre a scatti lungo il rullo, mentre in corrispondenza di esso una freccia metallica permette di selezionare tra le multiple iscrizioni runiche su lunghe stecche di zinco. Come il becco di un uccello, la testina scatta alla pressione di una leva: TU-CLUNCK! Un po’ alla volta, il testo scritto prende forma sopra il foglio. Soltanto i sinologi e yamatologi tra il pubblico, coglieranno immediatamente l’assenza di un valido significato…
Tanto forte riesce ad essere l’impressione in Occidente, accompagnata dalle presunte prove più volte riconfermate, che l’alfabeto latino di 26 lettere sia il sistema di scrittura superiore al mondo: maggiormente funzionale, e per questo giustamente più diffuso, di quello greco, georgiano, arabo, coreano, delle dozzine di alternative utilizzate in India e certamente, più di ogni altra cosa, dell’improbabile serie d’ideogrammi studiati in diversi paesi dell’Estremo Oriente, come lascito di una tradizione filologica sproporzionatamente complessa rispetto all’esigenza di comunicare concetti o sentimenti attraverso la parola scritta. Laddove un italiano che si approcci per la prima volta allo studio di una lingua straniera, anche relativamente prossima come il Francese o l’Inglese, sarà il primo ad affermare che “non si legge come si scrive” per l’evidente dissonanza creata da un sistema di scrittura concepito per uno specifico idioma, una volta che si fa il possibile per adattarlo alla pronuncia di un altro. Confrontiamo quindi per un attimo, tale questione con il ruolo aggregatore mantenuto, attraverso i secoli, dal sistema logografico degli Han: le migliaia di hanzi (汉字 – ideogrammi) che poi sarebbero i kanji (漢字) secondo la terminologia giapponese (stessa cosa, in sostanza) ciascuno indissolubile da una specifica parola, sillaba e pronuncia. Così che adattarli all’uso per lo stile comunicativo del proprio paese significa, essenzialmente, accettare anche un particolare modo di pensare ed approcciarsi ai concetti. Al punto che la definizione linguistica di “Cina” può essere accostata ai territorio entro cui 人 (rén) è una persona, 日 () il sole e 地 () la terra, indipendentemente da come si scelga di pronunciarli. Uno spirito d’aggregazione che permette, in maniera puntuale, ad un abitante di Pechino di comprendere perfettamente un testo scritto a Guǎngzhōu (Canton) benché i due non riuscirebbero affatto a comprendersi attraverso una conversazione parlata. Altri problemi, del resto, emergono da tale meccanismo nel momento in cui si tenti, necessariamente, d’inserirlo nello schema meccanico della tecnologia ad uso personale. Questione nata per la prima volta attorno all’inizio del XIX secolo, quando i primi arguti sperimentatori, tra cui l’italiano Agostino Fantoni, intrapresero l’esperimento per creare un sofisticato meccanismo in grado di contenere, ed in qualche modo dominare, l’intero magico sistema della stampa in un singolo mobile o dispositivo. La macchina da scrivere in quanto tale presentava in effetti, rispetto al sistema della stampa coi caratteri mobili di cui la Cina fu pioniera, un’implicita serie di problemi da risolvere. Primo fra tutti, la massima dimensione raggiungibile dalla sua tastiera. Così con metodologia diretta, fin da subito per affrontare l’ardua impresa si capì che sarebbe stato necessario farne semplicemente a meno…

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