Torri sorgono direttamente dal terreno, monumenti crescono vicino ai margini di agglomerati dislocati sulla forma di un esagono essenziale. Ed una volta giunti al punto di svolta finale, il razzo che permette di condurre una missione verso Alpha Centauri, obiettivo finale della partita, compare sulla sua rampa di lancio al volgere dell’anno 2100, sancendo il concludersi di un viaggio lungo quanto i primi 12 millenni di civilizzazione umana. Nei giochi di strategia, la costruzione delle meraviglie o infrastrutture (molto) significative avviene sempre nel giro di svariati turni, corrispondenti ad anni, lustri, decadi d’intenso lavoro. Ma una volta completata l’opera, si passa istantaneamente da 0 a 100: il risultato appare già fatto e finito nella sua posizione finale. Mentre cosa dire del ponderoso reame fisico, dove ogni spostamento è frutto di copioso sudore della fronte, impegno, olio di gomito ed olio del motore. D’imponenti mezzi da cantiere, come ruspe, montacarichi e gru di sollevamento? Non solo. Quando esiste il caso d’ingombranti grattacieli, che necessitano d’essere assemblati all’interno di strutture artificiali ancor più grandi. E soltanto in seguito a una tale circostanza, trasportati nel luogo in cui dovranno compiere l’impresa per cui hanno avuto l’occasione di essere creati, con notevole dispendio di risorse tecnologiche ed umane. Questo perché le loro piattaforme di partenza, situate lungo quella stretta penisola che viene definita sulle mappe Florida, risultano naturalmente esposte a potenziali fenomeni atmosferici nefasti, quali tempeste ed uragani stagionali. Perciò è obbligatorio concepire la preparazione al culmine di tali circostanze, come uno stato effimero e del tutto transitorio tra la stasi ed il decollo verso le regioni empiree rispetto al pianeta Terra, una via di fuga necessariamente rapida dai tormenti e pericoli di un luogo tanto tormentato ed incerto. Così che venne determinato, fin dal remoto 1964 alle origini del progetto Apollo, che Cape Canaveral dovesse essere dotato del suo personale sistema di trasporto per carichi eccezionali. Ingombri pari a 9.000 tonnellate, per essere più precisi. Un’idea per la quale venne coinvolto l’Ames Research Center, ed in seguito dato l’appalto alla Marion Power Shovel Company, una compagnia specializzata nella costruzione di giganteschi mezzi minerari, affinché ne assemblasse i primi ed unici due esempi direttamente sul terreno del NASA Space Center. Poiché nessuna strada umana, allora come adesso, avrebbe avuto una larghezza e solidità sufficiente da riuscire a contenerli. I Crawler Transporter 1 e 2, ben presto soprannominati Hans e Franz per analogia con i celebri culturisti umoristici del Saturday Night Live, furono quindi concepiti per spostarsi unicamente su altrettanti viali appositamente posti in essere, mediante l’utilizzo di uno strato profondo 2 metri di pietre di fiume dell’Alabama e del Tennessee, appositamente selezionate per la loro resistenza e compattezza strutturale, persino sul terreno cedevole delle pianure floridiane. Ciascuna direzionata verso i siti di lancio 39A e 39B, per una trasferta altamente predeterminata lunga rispettivamente 5,5 e 6,8 Km, completata in genere alla velocità di 1,6 Km all’andata, e circa il doppio sulla strada del ritorno. Non prima, tuttavia, che il veicolo d’esplorazione spaziale situato sulla base della piattaforma sia stato abbassato assieme alla base di lancio nel punto dove potrà finalmente accendere i motori, e comunque rimanendo in attesa che una simile spettacolo abbia avuto inizio, dinnanzi agli occhi attenti di quella parte del mondo interessata all’esito di quanto era stato originariamente promesso…
Ad oggi, 31 agosto 2022, qualcosa d’insolito sta capitando lungo la Crawlerway 39B, dove da svariati giorni il più imponente e poderoso dei due trasportatori, recentemente revisionato fino all’invidiabile qualifica di “super-crawler” sosta in attesa a metà strada, pazientemente incaricato di sorvegliare la buona riuscita del proprio compito fondamentale: vedere il razzo abbandonarlo definitivamente, disegnando un elegante arco oltre le propaggini della troposfera. Questo perché la ragione stessa per cui è stato sottoposto a ingenti e significative operazioni di potenziamento, consistenti primariamente nella sostituzione dei propri 18 cuscinetti a sfera principali implementata nel corso dell’anno 2016, si trova ormai da quasi mezza settimana in posizione pronta al lancio, senza che si possa dare sfogo a un tale significativo ed atteso evento. Per un problema a quanto pare localizzato in uno dei motori del razzo principale, già notati per la prima volta lo scorso gennaio, in un progetto già tre anni indietro rispetto alle tempistiche pianificate e circa 3 miliardi di dollari al di sopra del budget. Sto parlando molto chiaramente del programma Artemis, così denominato dal nome della Dea della caccia nonché sorella gemella di Apollo nella mitologia greca, consistente nel riutilizzo del principio dei due razzi ausiliari originariamente appartenuto allo Space Shuttle, per lanciare verso nuovi obiettivi il più grande e potente veicolo spaziale mai costruito dalla civiltà umana. Abbandonata l’idea ottimistica di fare nostro Marte allo stato tecnologico e nel clima socio-economico di questi anni, la NASA ha quindi focalizzato a partire dal 2011 la propria attenzione nuovamente verso il satellite lunare del nostro azzurro pianeta. Attorno a cui la missione il cui lancio è stato rimandato temporaneamente al prossimo sabato 2 settembre, dovrà rappresentare l’occasione d’inviare una serie d’importanti satelliti di studio e rilevamento, primo passaggio necessario alla costruzione della futura auspicata base tra i crateri di quel luogo arido e distante. Un piccolo passo per l’edilizia dei tipici contractor statunitensi abituati a situazioni estreme, dunque, ma un balzo in avanti propedeutico all’avanzamento futuro dell’umana civilizzazione finalmente capace di mettere radici su due corpi astrali nettamente distinti. Che non sarebbe stato in alcun modo possibile, senza l’aiuto significativo e costante dei due veicoli con ormai più di mezzo secolo d’impiego, e a una distanza complessivamente percorsa pari 5.000 Km, equivalente a quella tra le città di Seattle e Miami. Un lungo periodo usato per perfezionare e revisionare più volte i bestioni da 40 metri di lunghezza per 35 di larghezza, spinti da un impressionante sistema di quattro motori diesel da 2.750 cavalli ed ulteriori due da 1.065 per l’alimentazione dei sistemi ausiliari, tutti connessi ai 16 apparati elettrici degli otto cingoli situati ai vertici del piatto rettangolo, capaci di spostarsi fino alla velocità massima di 6,8 Km/h. Sebbene questa venga oggi molto raramente raggiunta, vista la maggior cautela motivata dal fallimento e chiusura dell’originale compagnia costruttrice, nella più totale impossibilità di procurarsi pezzi di ricambio per questi bestioni dal valore unitario adattato all’inflazione pari a 144 milioni di dollari. Ulteriore aspetto notevole, il preciso sistema di livellamento idraulico mediante l’utilizzo del laser della piattaforma che ospita la base di lancio assieme al razzo soprastante, rigorosamente posto in verticale fin dal momento dell’assemblaggio finale, come imprescindibile requisito del carburante a stato solido usato nella maggior parte dei velivoli della NASA fin dai tempi dello Space Shuttle. E diversamente dal caso del corrispondente Buran sovietico, che presso il cosmodromo di Baikonur veniva invece posto in orizzontale su una serie di binari, dato l’utilizzo di una sostanza meramente liquida al fine di alimentare la sua partenza.
Guidati ad oggi da due soli elementi qualificati, previa l’acquisizione di certificazioni straordinariamente complesse, i CT 1 e 2 sono attualmente affidati a figure dalla storia professionale ben diversa, come nelle migliori ricostruzioni cinematiche di possibili robot giganti costruiti per combattere minacce di varia entità aliena (non per niente, mezzi del tutto simili compaiono nei film della serie Pacific Rim). E costoro sono per l’appunto Sam Dove, di 63 anni e la neofita Breanne Rohlof, con soltanto 24 estati pregresse all’attivo. Giudicate pienamente sufficienti, previo un lungo ed accurato addestramento, per mettersi al volante del mostruoso mezzo di trasporto, anche senza l’esperienza pregressa delle 135 missioni Shuttle compiute tra il 1981 e 2011, certamente portate a termine anche grazie al suo collega ed altri insigni predecessori.
Poiché in ultima analisi non c’è decollo possibile di alcun tipo di apparecchio spaziale, senza prima aver percorso quella fatidica manciata di chilometri che separa l’edificio di assemblaggio dal sito specifico del suo decollo, e perché mai cambiare qualcosa che ancora funziona perfettamente, così come il giorno in cui è stato posto in essere nella seconda metà del secolo scorso? Riciclare, adattare, migliorare: man mano che la storia dell’esplorazione spaziale continua a estendersi, sempre più spesso vedremo pezzi ed elementi “vecchi” riutilizzati per finalità ambiziose. Così come il caso dello stesso programma Artemis, che continuerà ad utilizzare l’involucro dei precedenti razzi dello Shuttle almeno fino alla fase 1B, quando inizieranno ad essere sostituiti da modelli totalmente nuovi commissionati alla Boeing. I quali potranno anche utilizzare del carburante liquido a quanto è stato detto, eppur difficilmente potremo immaginare di vedere implementato un sistema di trasporto nuovo rispetto a quello dei due CT. Cavallo vincente non si cambia… Soprattutto quando si tratta di un cavallo che richiederebbe un minimo di 200 milioni di dollari per essere adeguatamente sostituito.
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