Dal disco al cilindro: l’evoluzione geometrica della finestra

La verità che arde nella fiamma indistinta, all’interno di un forno in materiale refrattario, che brucia ma non perde la sua forma. E lui che tira fuori, un poco alla volta, il lungo e sottile cono, identificato nella nomenclatura come canna da soffio. Al termine del quale, come miele sul cucchiaino, si trova il nucleo e il nocciolo della questione: vetro, vetro denso che non goccia. Potenza degli elementi, tecnologia e sapienza artigiana, che s’incontrano nell’attimo presente, per plasmare il flusso di un materiale particolarmente antico. All’origine delle civiltà, quando nessuno ancora conosceva le specifiche proprietà di questa magica sostanza, prodotta a partire dalla sabbia e i borosilicati, la norma consisteva nell’impiego di tecniche di scultura prese in prestito dalla lavorazione della pietra, piuttosto che l’attenta colatura all’interno di stampi, al fine di creare vasi, bicchieri o recipienti di vario tipo. Finché nel primo secolo avanti Cristo, grosso modo, non iniziò a diffondersi un differente approccio alla realizzazione di un simile manufatto: roteare e soffiare, vorticosamente, fino all’espansione della forma desiderata. C’era stato un solo ritrovamento archeologico, effettuato dal russo Roman Ghirshman nel quartiere vecchio di Gerusalemme, che sembrava precorrere i tempi in merito alla questione: alcune piccole bottiglie soffiate risalenti al secondo millennio a.C, da usare nel bagno rituale del mikvah. Ma la tecnica per costruire simili oggetti, da quel momento in poi, venne apparentemente dimenticata fino all’epoca dei romani. Quando al sua riscoperta ad un tal punto ciò semplificava, e nel contempo aumentava la qualità dei prodotti dell’officina del vetraio, che ben presto il vetro arrivò ovunque. Sulle tavole dei signori, nelle collezioni nobili, sugli scaffali degli artigiani più benestanti. Qualcuno iniziò, persino, a metterlo alle finestre. Non credo che possa essere facilmente sopravvalutata la portata di un simile progresso: per la prima volta nella storia dell’uomo, diventava possibile costruirsi un rifugio completamente riparato dalle intemperie, che cionondimeno riusciva ad accogliere  tutta la luce benefica dell’astro solare. Era nato, dal punto di vista architettonico, un filo conduttore che ci avrebbe condotto dritti fino all’epoca moderna. Non sono in molti tuttavia ad interrogarsi sul come, effettivamente, una simile soluzione trovasse forma fisica tra le mani dei suoi produttori. In quale maniera, soffiando intensamente in un tubo, si potesse giungere ad un oggetto largo e piatto, il più possibile uniforme e del tutto trasparente. La risposta, come spesso capita in simile circostanze, assume la forma rivelatoria di un disco. Largo e piatto, vorticosamente girevole, frutto e conseguenza dell’opera dei sapienti.
In un contesto anglosassone, dove esiste un termine per definirlo, viene chiamato crown glass, o vetro a corona. È possibile osservarlo, ancora oggi, presso numerosi edifici storici della città di Londra, dove restò in uso fino al XVII secolo, mentre il resto d’Europa e del mondo era già passata a sistemi più risolutivi e complessi. Mentre si scorre, con gli occhi, la superficie lucida di una finestra, appare all’improvviso un tacca dalla forma circolare, come una sorta di avvallamento. Mentre presso la parte inferiore di una simile superficie, tutt’altro che uniforme, lo spessore della finestra sembra stranamente diminuire. C’è una strana spiegazione, offertaci gentilmente da parte della sapienza popolare, per questo particolare fenomeno strutturale: “Vedete…” affermano certe guide turistiche: “Il vetro è in effetti un liquido, che lentamente tende a fluire verso lo spazio dell’infisso inferiore. Tra qualche secolo, di questo pannello non resterà più nulla.” Mentre in effetti la scienza ha calcolato come suddetto processo di scorrimento gravitazionale a temperatura ambiente, benché del tutto logico da un punto di vista della pura e semplice teoria, abbia dei tempi misurabili non in secoli, bensì letterali milioni di anni. La ragione della difformità delle lastre, in effetti, è tutt’altra. E va ricercata nella maniera stessa in cui questo vetro assumeva la forma definitiva…

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La potenza di una nave che non può essere affondata

Le storie degli antichi cavalieri giungono talvolta all’apice in questa maniera: il nostro eroe, circondato dai nemici del regno getta da una parte l’elmo ormai ammaccato e tira fuori dal suo fodero, finalmente, l’arma troppo forte che aveva giurato di non usare mai più. Perché protetta da uno spirito, o da un santo, e per questo costruita con acciaio meteoritico. Entrambi margini davvero significativi di miglioramento. Una spada che non può spezzarsi è sotto molti punti di vista, l’implemento bellico definitivo. Essa potrà penetrare oltre le piastre di un armatura come se fosse fatta di burro. Sarà in grado di deviare il colpo di mazze, alabarde o altre armi molto più pesanti, nonché meno maneggevoli di lei. In duello, devierà il colpo del nemico piegandosi per assorbirlo, per poi riprendere la forma pronta per il colpo successivo, come se non fosse successo alcunché. La ricerca di attrezzi equivalenti nella guerra moderna, storicamente, è stata spesso fatta oggetto di approfondite analisi scientifiche e tecnologiche. Nello scontro tra gli eserciti in divisa mimetica, dove il concetto dell’onore è ormai un lontano ricordo, sarebbero ben pochi a volersi privare di un simile vantaggio in battaglia: sommergibili che non possono essere individuati, aerei troppo rapidi per qualsivoglia intercettore, carri armati impossibili da penetrare tramite l’impiego di munizioni convenzionali. Un’ideale trasformabile, in base alle diverse circostanze d’ingaggio. Che potrebbe aver raggiunto l’apice, in campo navale, nell’epoca remota del 1909. Stiamo parlando di Fort Drum, la pseudo-imbarcazione più resistente che sia mai stata impiegata dall’esercito degli Stati Uniti ed in effetti, il mondo intero.
Teddy Roosevelt, che odiava questo soprannome, fu per molti versi il prototipico eroe americano: grande cacciatore, esploratore, naturalista e soldato, fino al giorno, nel 1901, in cui diventò il 26° presidente del suo grande paese. Ma prima di riuscirci, come molti dei suoi predecessori, avrebbe combattuto strenuamente, mettendo a rischio la sua sopravvivenza in guerra. Quella, nella fattispecie, ispano-americana, combattuta in merito a un tema ritenuto niente meno che fondamentale all’inizio del secolo scorso: l’indipendenza dell’isola di Cuba. Fu così che, in quello che Teddy avrebbe definito “il suo giorno più grande”, lo storico repubblicano guidò all’assalto la carica dei Rough Riders, l’anti-convenzionale e largamente autofinanziato reggimento dalla composizione estremamente eterogenea, lungo il ripido versante della collina di San Juan, 2 Km ad Est di Santiago di Cuba. Egli avrebbe raccontato con orgoglio questa storia nella sua autobiografia, descrivendola come la nemesi di un qualsiasi condottiero europeo: “Qualunque teorico l’avrebbe ritenuto impossibile. Attaccare il nemico ancora in possesso del suo morale e in posizione elevata, dietro formidabili fortificazioni. C’era solamente un modo in cui avrei potuto condurre quegli uomini alla vittoria. E quel modo era mettermi davanti e correre su per la [dannata] collina.” Storia più volte raccontata, ed elogiata nelle classi liceali, mentre comparabilmente molto meno ripetuta è la vicenda personale del suo successore nella carica suprema, quel William Taft che si era formato come politico in un campo totalmente differente. Avvocato, poi giudice, quindi membro di spicco dello stesso partito repubblicano che aveva mantenuto il controllo del paese a seguito dell’assassinio di William McKinley, 25° presidente, da parte di un anarchico al termine del conflitto ispanico-cubano. La prima cosa davvero importante che Taft fece per il suo paese, d’altra parte, avrebbe lasciato un segno estremamente duraturo nella storia dei protettorati d’Oriente: nominato da Roosevelt stesso come capo della Commissione per le Fortificazioni, fu inviato nel 1905 nelle Filippine, dove lo Squadrone Asiatico delle navi da combattimento americane aveva dovuto subire nel corso del conflitto la pressione congiunta delle flotte spagnola e tedesca, vincendo solamente dopo aver fatto fronte a significativi problematiche logistiche e mancanza di rifornimenti. “Mai più” giurò quindi l’allievo del formidabile Teddy, elaborando un piano del tutto privo di precedenti: la costruzione di una serie di forti costieri, armati fino ai denti, che nessun cannone nemico avrebbe potuto facilmente ridurre ai più miti consigli. Tra i quali, quello più formidabile sarebbe stato posizionato proprio sull’isolotto di El Fraille, nella parte meridionale della baia di Manila, non lontano da Corregidor. I tecnici nominati da Taft scelsero quindi, per il caso specifico, una soluzione resuscitata letteralmente dalle pagine della storia militare. Fatta saltare con la dinamite l’intera parte superiore di quel pezzo affiorante di barriera corallina, lo ricoprirono di cemento armato e piastre d’acciaio, creando il guscio più solido che fosse immaginabile da un uomo di marina. Per caso, o del tutto volutamente, il profilo risultante prese un aspetto idrodinamico e marcatamente navale, quasi volesse prendere il largo da un momento all’altro. L’unione tra installazione militare ed isola era ad un tal punto totalizzante, che in effetti non si capiva più dove finiva la natura, ed iniziava l’opera imprendibile dell’uomo.

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Uomo scava un buco e trova l’elettricità

Mentre la ruspa depone l’ultimo mucchietto di terra a lato, già arriva il camion che con massima cautela, inizia l’opera più delicata: il versamento di un’attenta colata di cemento, all’interno degli stampi preformati precedentemente attrezzati a lato del fiume. Chi dovesse osservare il progetto da lontano, non avrebbe particolari dubbi: questo gruppo di serissime persone sta costruendo, per qualche motivo, una sorta di avveniristico scivolo d’acqua, con la forma di una chiocciola della verdura. Al termine del fondamentale passaggio, quindi, con aria solenne, un capo poco più che trentenne si avvicina ai comandi di quella che sembrerebbe chiaramente costituire una chiusa a controllo remoto. Dopo un ultimo sguardo ai suoi colleghi, al cielo ed al profilo della Cordigliera distante, egli preme il tasto sopra il suo telecomando. Ed è così che all’improvviso, in un singolo, drammatico secondo, cambia il significato del fiume.
È una grande verità della corrente situazione tecnologica, che determinate forme di energia diventino progressivamente più difficili da implementare, mentre altre, per un ventaglio molto vasto di ragioni, si trasformano progressivamente in una metaforica passeggiata di salute. Poiché carbone, petrolio e in misura minore, anche l’uranio, man mano che vengono estratti e trovano il loro impiego, non vengono rigenerati automaticamente da alcun processo naturale a breve termine, mentre esistono determinate fonti alternative, prima tra tutti il Sole, che non cesseranno mai di continuare a funzionare, fino all’ultimo secondo della nostra stessa esistenza. Il fatto, tuttavia, è questo: vi sono luoghi al mondo, tempestosi e nuvolosi come loro principale prerogativa, presso cui la luce dell’astro la cui forza gravitazionale ci governa giunge in effetti molto raramente, soprattutto con una forza tale da far funzionare i nostri personal computer e/o forni a microonde. Ma anche altrove, per un soddisfacene impiego dei pannelli concepiti al fine di assorbire la sua potenza, l’affiancamento di un sistema per l’accumulo ed il riutilizzo in differita, in altri termini, un sistema di batterie. Costoso, ingombrante, inquinante al termine del suo ciclo di utilizzo. Altre tipologie di energia sostenibile hanno i loro problemi. L’eolico si ferma quando manca il vento. L’energia geotermica ha un costo d’ingresso particolarmente elevato. Il mareomotrice, basato sulle correnti delle vaste distese acquatiche che ci circondano, può avere un impatto drastico sull’ecosistema, è soggetto a forze d’erosione estreme e tende ad aumentare la sedimentazione costiera. E che dire, invece, della semplice energia gravitazionale dell’acqua? Poderosi flussi trasparenti, ogni giorno, scorrono a partire dai loro eremi montani, dove si sviluppano a partire dall’accumulo dell’acqua precipitativa o lo sgorgo da falde sotterranee dimenticate. Ogni giorno, per 24 ore al giorno, la loro forza scavalca gli ostacoli, segue le asperità del territorio e s’inoltre a innumerevoli chilometri di distanza, per giungere in maniera certa alla destinazione finale del mare. Sarebbe veramente assurdo, non tentare in qualche maniera d’approfittarne.
La tipica centrale idroelettrica tuttavia, per continuare la nostra carrellata dei “lati negativi” potrebbe anche essere vista come la somma di tutti quelli fin qui citati: certamente, essa ferma e devia il corso dei fiumi. Immancabilmente, ne danneggia (per non dire distrugge) l’ecologia. Essa è versatile e potente. Ma anche propensa, per sua implicita natura, all’imposizione di uno stato per così dire borderline, nel quale qualsiasi frana, terremoto o perché no, attacco terroristico, potrebbe non soltanto privare un’intera città o paese della sua principale fonte di sostentamento energetico, ma anche letteralmente spazzarla via dalle mappe mentre si libera letteralmente dalle briglie che gli erano state forzosamente imposte. Chi ha mai detto, tuttavia, che debba sempre essere necessariamente così? I due imprenditori di Anversa Jasper Verreydt e Geert Slachmuylders, dimostrando una tipica prerogativa dei giovani, sono così improvvisamente apparsi sul radar delle compagnie incubatrici e gli altri finanziatori tipici dei progetti di una startup, per togliere dal quadro generale il processo formale di una metodologia, per così dire, del tutto acclarata. Ponendo pubblicamente la domanda, a loro stessi e conseguentemente anche a noi tutti, di che cosa succederebbe, se mettessimo direttamente la turbina e il generatore lungo il corso del fiume, ignorando del tutto il concetto di costruirvi attorno una diga, o un terrapieno di qualsivoglia tipo? Il risultato, presentato come realtà di business nel 2014, è Turbulent Hydro, una compagnia che sembrerebbe quasi uscita dal mondo del crowd-sourcing internettiano, volendola giudicare dal video promozionale degli autori che spiegano con entusiasmo la loro idea, parlando sullo stereotipico sottofondo di musica di pianoforte e quello che sembrerebbe, piuttosto incredibilmente, proprio il suono di un pacifico ukulele. Mentre la realtà è che loro si rivolgono ad enti statali, compagnie affermate e potenzialmente, per il loro tramite, soltanto dopo una lunga serie di passaggi, al sempre fondamentale cliente finale. Intendiamoci, non è che un agricoltore o minatore, sperduto in qualche angolo remoto di questa Terra, non possa decidere di farsi costruire il generatore-vortice della Turbulent. Molto semplicemente, tuttavia, egli dovrà affrontare la spesa sulle sue sole forze. Laddove questo approccio alla produzione idroelettrica, per sua implicita natura, si presta molto bene ai programmi di ampio respiro per l’industrializzazione delle regioni disagiate. È così tremendamente flessibile, e ad impatto praticamente zero…

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L’inciampo internazionale del “topo” che si lava

Era tutto iniziato in maniera piuttosto innocua: affiorato tra le onde agitate dei social network, l’ennesimo video più o meno simpatico raffigurante un animale. Un grande “topo” o “ratto” che dir si voglia, per una volta ripreso in video in un luogo diverso dalle strade di Roma Capitale, lontano dai soliti cinghiali, gabbiani e ippopotami tiberini. Bensì in posizione eretta su due zampe, all’interno di un lavandino di metallo, completamente ricoperto di sapone, mentre si strofina energicamente lo stomaco, le ascelle e la schiena. “È una scena molto divertente, perché il roditore sembra muovere le sue zampe anteriori esattamente come si trattasse di un umano” Hanno dunque convenuto le insigni menti del web, facendo i soliti commenti del caso, a partire dal profilo originario di nazionalità, a quanto pare, peruviana. Pensate che persino il profilo Facebook del Ministero dell’Energia Cileno, facendosi disegnare la buffa creatura da un’agenzia pubblicitaria, l’ha usata per lanciare un messaggio di utilità sociale: “Non fate i topi, risparmiate l’acqua corrente. Il nostro mondo vi ringrazierà.” Come nel caso di innumerevoli simili spezzoni, tutti sembravano uscirne felici e contenti, incluso il protagonista peloso ed almeno per il momento, piacevolmente profumato.
Nel giro della scorsa settimana, tuttavia,  tra un articolo e l’altro, ha iniziato a serpeggiare un oscuro sospetto. Possibile che il dentone non fosse affatto consenziente? Partendo da questo presupposta, ad una delle testate di più larga fama che hanno pensato di trattare il caso (o per meglio dire, hanno avuto una giornata particolarmente lenta nel flusso delle notizie da pubblicare) è venuto in mente d’interrogare l’esimio Prof. Tuomas Aivelo, ricercatore di biologia dei topi presso l’Università di Helsinki in Finlandia. Il quale ci ha rivelato, senza un attimo di esitazione, la terribile verità: “Il povero topolone non si sta lavando! È stato ricoperto di un sapone per lui irritante, e tenta disperatamente di toglierselo con le sue piccole ed agili mani. A meno che l’animale sia caduto spontaneamente in una vaschetta di shampoo, l’ipotesi possibile è una soltanto: si tratta di un palese  gesto di crudeltà a fine d’intrattenimento” La rabbia del grande pubblico è stata quasi istantanea. Anche questo è un possente e reiterato stereotipo del Web: una sorta di senso di colpa collettivo, a cui segue la carica degli abitanti del villaggio armati di torce e forcone (avete presente Frankestein Jr. di Mel Brooks?) verso gli ignoti che li hanno “ingannati” presentando come buffo un qualcosa che, in realtà, era tutt’altro che questo. In poche ore quindi, il sito del Ministero dell’Energia Cileno è stato inondato di insulti, spesso orribilmente feroci, verso lo sfruttamento istituzionale di un povero animale indifeso. Molti dei partecipanti alla discussione, apparentemente, erano persino convinti che il video originale fosse in effetti stato prodotto dal governo, magari all’interno di qualche orribile laboratorio per il lavaggio-dei-topi. Piuttosto che subire passivamente l’assalto, tuttavia, al community manager governativo venne l’idea di pubblicare un secondo video, per chiarire un po’ l’astrusa questione. Si tratta della scena che potete trovare in apertura a questo post: un “topo” del tutto simile a quello della scena incriminata, si trova sul tavolo di un bar con una borsetta a tracolla, mentre alcune persone lo accarezzano e discutono in lingua spagnola del suo aspetto strano ed in qualche modo grazioso. La prima cosa che colpisce sono le dimensioni: la creatura dall’aria assonnata e pacifica, un esemplare stavolta adulto, non è in effetti per nulla comparabile al comune ratto domestico, vantando una massa decisamente considerevole, pari a quella di un cane di taglia medio-piccola (10-15 Kg). Ma ciò che il Ministero dell’Energia incoraggiava sopratutto a notare, era la sua gestualità: l’animale, anch’esso in posizione assolutamente bipede, muove infatti in maniera continua le sue piccole mani, strofinandosi lo stomaco, le ascelle e la schiena. E non importa quanto si tenti d’osservare approfonditamente il video, in esso non compare la benché minima traccia o lacrima di sapone…

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