Il toro e la vernice che salvarono la fortezza di Salisburgo dai suoi nemici

Salzburger Stierwascher è l’espressione in lingua tedesca che significa letteralmente “salisburghese lavatore di tori”. Con un’accezione goliardica ma non necessariamente offensiva, che portò ad acquisirla ed in un certo senso farla propria dagli abitanti della città sul fiume Salzach, come parte inscindibile della propria storia. Sussistono dunque diverse teorie sull’origine di tale termine, benché quella preferita sia strettamente legata alle vicende storiche di questi luoghi ed in modo particolare, del loro castello più imponente. Forse uno dei residui architettonici meglio conservati, e più notevoli, di tutta l’Europa medievale.
Le circostanze esatte che portarono il supremo signore del Sacro Romano Impero ad inchinarsi durante una tempesta di fronte al castello della gran contessa di Canossa, per tre giorni e tre notti, avrebbero avuto, molto prevedibilmente, ripercussioni politiche di notevole portata. E conseguenze nella dotazione militare di almeno una grande, opulenta città tedesca: Salisburgo. Non fu certo un caso infatti se lo stesso anno della storica umiliazione di Enrico IV per volere di papa Gregorio VII, il 1077, avrebbe avuto inizio il lungo e travagliato conflitto politico (ed armato) per le investiture delle alte cariche ecclesiastiche, spesso trattate dai vertici del potere austriaco come un mestiere, completo di feudi, da assegnare ai loro figli secondogeniti e successivi. Situazione in grado di causare una non piccola preoccupazione a Gebhard von Helfenstein, l’arcivescovo del grande centro religioso e culturale che negli anni successivi avrebbe deciso di restare fedele al papato di Roma. Contrariamente ai suoi vicini e con la conseguente necessità di cominciare, in quello stesso anno fatidico, la fortificazione della sua città mediante l’edificazione di una motta castrale, poco più che un terrapieno circondato da un’alta palizzata in legno. Ma posizionato sopra il Festungsberg, una svettante collina dell’altezza di 506 metri, capace di avvistare in anticipo e dominare dall’alto qualsiasi potenziale esercito di assedianti. Non c’è quindi molto da meravigliarsi se attraverso il succedersi dei suoi eredi, un secolo dopo l’altro, il castello sarebbe cresciuto più volte fino all’attuale lunghezza di 250 metri, completa di rinforzi contro l’artiglieria e piattaforme d’artiglieria secondo i crismi dell’ideale fortezza del Rinascimento. Tanto da essere considerato già nella sua seconda e precedente iterazione, resa manifesta dall’arcivescovo Leonhard von Keutschach in carica tra il 1495 e il 1519, sostanzialmente impossibile da conquistare scoraggiando qualsiasi tipo di assalto nei suoi confronti. O persino l’eventuale movimentazione di un esercito all’indirizzo dell’inespugnabile Salisburgo che sarebbe rimasta, grazie al suo notevole deterrente, lungamente al di sopra delle dispute politiche del suo intero paese. Ma non quelle che sarebbero provenute, caso vuole, dall’interno stesso del suo centro abitato! Il quale avrebbe dato luogo nel 1525 ad una contingenza spiacevole per qualsiasi governante, qualunque fosse la sua matrice o stile di comando. E di certo Matthäus Lang von Wellenburg, cardinale, principe e arcivescovo, “l’ultimo governante medievale di Salisburgo” non aveva un’impostazione particolarmente illuminata o magnanima nell’ascoltare i bisogni della povera gente. Il che avrebbe portato alla ribellione e incoraggiato un gruppo eterogeneo di minatori, contadini ed artigiani a metterlo incredibilmente sotto assedio. Aprendo la strada ad uno degli aneddoti maggiormente bizzarri, e inaspettati, nell’intera lunga e articolata storia di Salisburgo…

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Di dame, armi e cavalieri, dipinti sulle mura del castello più illustrato del Medioevo

Esiste il caso iscritto nelle pagine della storia dell’arte, in cui i tentativi di raggiungere o ricostruire un modello possono riuscire a generare un qualche cosa d’autentico, del tutto in grado di donare un senso di continuità ai grandi maestri del passato. Che andati possibilmente perduti al declinare di un’epoca, finiranno per lasciare necessariamente spazio ai loro imitatori, destinati in questo modo ad acquisire la scintilla ragionevolmente meritoria della grandezza. Non abbiamo a tal proposito, una grande quantità di opere parietali risalenti al Medioevo Classico, inteso come il periodo che si estende nei secoli XI, XII e XIII, semplicemente troppo distanti dall’epoca odierna perché possa risultare facile una valida conservazione dei pigmenti e dell’intonaco delle pareti. Per non parlare del destino ancor più sfortunato degli arazzi, pardon, cibo per le tarme del continente europeo. E molto di ciò di cui disponiamo, per lo meno al di fuori del campo ecclesiastico, si trova concentrato in un singolo castello del Trentino Alto Adige, situato pochi chilometri a nord della città di Bolzano. Sopra uno sperone vulcanico di porfido, non molto più ampio della sua cinta muraria esterna, accessibile con uno stretto e tortuoso sentiero montano, nessuno potrebbe mettere in dubbio i trascorsi militari dello Schloss Runkelstein (alias Castel Roncolo) più volte assediato, difeso a spada tratta e custodito come chiave di volta di un intero feudo redditizio nella valle antistante. Ma l’aspetto molto interessante, ed insolito, per una residenza ornata al fine di celebrare un particolare stile di vita e i miti all’origine della nobiltà ereditaria, è che era stata commissionata da persone che sostanzialmente non appartenevano a quel mondo. Ma che più di ogni altra cosa, avrebbero desiderato farlo.
Non quei Friedrich e Beral von Wangen, che già nel 1237 si erano visti sottrarre la dimora avita a seguito dell’assalto di Mainardo II conte del Tirolo, per uno sgarbo che la storia sembrerebbe aver dimenticato. E neppure il suo servo emancipato Gottschalk Knoger, che dopo averla ricevuta in dono riuscì a trasmettere l’impervia residenza a sua figlia e i successori per oltre un secolo fino al 1385. Quando forse per l’estinguersi di una linea di sangue, o un antico affare del mercato immobiliare, ad acquisire il maniero furono i fratelli Franz e Niklaus Vintler, mercanti di vino con sede a Bolzano che pur vantando uno stemma e possibile possesso di un titolo decaduto, corrispondente all’immagine di due o tre zampe d’orso, appartenevano ormai da multiple generazioni alla “nuova” borghesia del Tirolo. Ma da sempre avevano aspirato ad un qualcosa in più. E così diedero l’inizio, grazie alle proprie considerevoli finanze, ad un lungo processo di restauro, ampliamento e decorazione del castello, destinato grazie a diventare per un gioco del destino forse la migliore capsula del tempo di cui disponiamo per quel secolo in qualche maniera perduto

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Ecce diabolus: l’effige del maligno sul maggiore manoscritto del Medioevo

Era imprigionato da svariate, terribili ore, quando il monaco benedettino Herman vide comparire senza preavviso l’astro luminoso del mattino. In quel momento, posò la penna con il calamaio, mentre le lacrime iniziavano a oscurargli la vista. Poiché lui sapeva molto bene che, senza più alcuna possibilità di appello, era perduto. Poi cominciò, timidamente, a porsi una domanda: com’era possibile che il Sole sorgesse, negli umidi sotterranei del convento di Podlažice in Boemia, tra le quattro mura impenetrabili costruite dai sui confratelli, nell’anno di nostro Signore 1159? Un modo… Terribile per morire di sete e di stenti. Una punizione a suo modo meritata, per il semplice fatto di aver voluto provare, almeno una volta, a vivere la sua vita. E la soluzione Salomonica, a suo modo, scelta dalla massima autorità del suo mondo, per poter fare a meno dell’evoluzione: “Povero fratello, Egli abbia misericordia della tua anima. Se riuscirai a compilare entro domani un codice capace di contenere ogni nozione nota agli uomini dai tempi del giardino dell’Eden, sarai di nuovo ammesso alla tavola del convento. Nel frattempo pentiti, e concentrati su ciò che ti ha permesso di fare del bene. Almeno finché il grande corruttore non è giunto per deviare crudelmente il corso delle tue priorità.” Impossibile. Non necessariamente un traguardo scelto con intento beffardo o crudele, tuttavia, bensì un possibile atto di misericordia concepito per distrarlo fino all’ora del suo trapasso. Che ora, sembrava essere giunta… Con svariate ore d’anticipo? Il topo che lo fissava dall’angolo dell’angusta cella ora drammaticamente illuminata, in quel momento, aprì la bocca e sollevò la coda: “BENVENUTO, PECCATORE, NELL’ORA IN CUI LA LUNA SMETTE DI RIFLETTERE LA LUCE DELL’ASTRO DIURNO.” Herman credette per qualche secondo di stare sentendo la voce dell’Altissimo, poi comprese con un trauma cosa stesse accadendo. “LUCIFERO IN PERSONA, ASTRO DEL MATTINO, HA UN’OPPORTUNITÀ DI OFFRIRTI!” In quel preciso momento e poco prima che la sua condanna fosse suggellata innanzi a Dio ed agli uomini, egli decise che l’avrebbe ascoltato. Cos’altro Diavolo avrebbe potuto fare?
Vige la regola nel nostro mondo e molti altri che possiamo immaginare, secondo cui arricchire la propria cultura costituisca fondamentalmente una questione per lo più quantitativa. “Quest’anno ho letto…. Quattordici libri! Almeno la metà avevano oltre un migliaio di pagine.” Chi non l’ha mai sentito dire, mentre l’occhialuto sapientone di turno sollevava orgogliosamente il mento e gonfiava il petto, con superiorità dinnanzi ai suoi coetanei irsuti e simili a gorilla di montagna, nell’intelletto e la fisicità sacrificata alla ricerca tragica della mera apparenza. Laddove raramente abbiamo preso in considerazione, ahimé, l’equazione che risulta dalle dimensione dei suddetti fogli e l’altezza delle singole lettere di testo (escluse le maiuscole decorative con scoiattoli, lumache, cavalieri…) Fin dall’epoca del Medioevo, s’intende. Quando schiere di amanuensi nelle loro auguste sale delle sacre informazioni messe per iscritto, assolvevano al proprio compito in lungo e in largo, lungo letterali chilometri di pelle d’asino o di mucche sacrificate per la lunga causa della sapienza. Ma nessuno, quanto il misterioso e mai storicamente contestualizzato Hermannus Heremitus, che si dice stesse lavorando con la più profonda e inalienabile delle motivazioni personali: poter assistere ad un’altra messa tra i viventi, dal nostro lato del Regno dei Cieli…

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L’aspetto attuale del castello che appartenne al re assassino della montagna

È cosa nota che la realtà superi spesso la fantasia ma vi sono casi particolari in cui questi due aspetti, per quanto ci è possibile desumere, si mescolarono a tal punto da diventare indistinguibili, giungendo a generare improbabili mitologie con validi riscontri, agli occhi degli storici, nella progressione storica degli eventi. Perché ad esempio il più potente sultano e protettore della Sunna dell’XI secolo, Saladino il grande, avendo posto sotto assedio la roccaforte siriana del suo più acerrimo nemico nel 1176 di ritorno dalla campagna yemenita, scelse improvvisamente di ritirare l’esercito per sedersi quietamente sul trono egiziano? Si può affermare a tal proposito che vi siano varie possibili interpretazioni di tale scelta. Ma le narrative più frequentemente ripetute coinvolgono tutte, in un modo o nell’altro, l’intervento diretto della mano del Vecchio della Montagna. Sotto forma del suo stesso gesto d’infiltrarsi, sotto mentite spoglie, nella tenda dell’odiato condottiero. Per lasciarvi, a seconda delle versioni, un cornetto nella forma del sigillo a lui associato, oppure il corpo esanime di un fidato luogotenente. “Doni” accompagnati, ad ogni modo, da un coltello avvelenato ed un cortese invito scritto a lasciar perdere l’idea di partenza, rinfoderando la scimitarra grondante del sangue dei Nizariti. Quella stessa corrente parte dell’Islam Sciita, nata nell’attuale Iran presso la fortezza di Alamut e diventata influente circa un secolo prima, sotto l’egida del suo sovrano Hasan-i Sabbah, che anche per questo aneddoto sarebbe stata associata nelle cronache con il termine di dubbia precisione storica di Assassini. Molti dimenticano, tuttavia, come il castello di cui abbiamo fin qui parlato ed il relativo shaykh al-jabal (letteralmente “capo tribale della montagna”) menzionati anche da Marco Polo, non potessero semplicemente essere gli stessi, per una mancata corrispondenza cronologica e della collocazione geografica degli eventi. Essi potrebbero nel resto essere identificati nella figura del condottiero Rashid ad-Din Sinan e la rocca situata sopra la città di Masyaf, tra le colline da cui ha inizio la catena montuosa di Jabal Ansariyah. Un luogo molto noto ai videogiocatori o appassionati di cultura digitale contemporanea, per la sua ricostruzione fantastica all’inizio della serie interattiva Assassin’s Creed, in cui i celebri consumatori di hashish (traduzione, anch’essa, messa fortemente in dubbio dai filologi dei nostri giorni) hanno assunto le caratteristiche di antichi protettori dell’umanità dai rischi derivanti da misteriosi e potentissimi manufatti alieni. Eppure tralasciando questa parte, che potremmo eufemisticamente definire come alquanto speculativa, resta indubbia in tale opera una certa ricerca di precisione estetica nella formale rappresentazione di quei tempi e luoghi.

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