La vita ad alta quota tende a presentare delle regole precise, in merito ad isolamento termico, capacità di migrazioni stagionali, furtività per evitare l’attenzione di volatili e degli altri predatori. È perciò piuttosto sorprendente che nel corso di una spedizione verificatasi esattamente sette anni fa, la ricercatrice del Cal Poly di San Louis Obispo, Silvia Pavan e i suoi colleghi siano riusciti a catturare una creatura simile ad un’altitudine di 2663 metri, dove l’aria inizia ad essere rarefatta e le risorse ecologiche a disposizione presentano una distribuzione estremamente precisa. Lassù tra le montagne del Parque Nacional del Río Abiseo, Peru dove un certo tipo di vegetazione cresce rigogliosa, con l’occorrenza globalmente rara di foreste nebulose in grado di captare l’aria proveniente dall’Oceano Pacifico, rilasciando lentamente rivoli che riforniscono il flusso idrico dei fiumi sottostanti. E sopra questi rami, adesso lo sappiamo, si aggirano dei piccoli animali onnivori che sembrano dei topi, ma non lo sono. Che appartengono all’infraclasse dei marsupiali, ma non posseggono alcun tipo di tasca per contenere i propri nuovi nati. Il che costituisce, inerentemente, un indizio in merito al grado prossimo di parentela, con una creatura decisamente più comune nell’immaginario collettivo, il bizzarro eppure familiare opossum statunitense della Virginia. Di un didelfide si tratta, effettivamente, ed in particolare di una versione sensibilmente più piccola di tale gruppo di animali, con l’olotipo della nuova specie misurante appena una lunghezza di 10,7 centimetri esclusa la coda di altri 16, ed un peso complessivo di 21 grammi. Esponente dell’ampiamente noto genere dei Marmosa, diffuso dall’America Centrale fino a Perù, Brasile e Bolivia, con numerose specie distinte dalla notevole capacità di adattamento ma più limitata inclinazione alla conquista di territori. Ancorché gli opossum, di regola, siano poco inclini all’attraversamento dell’equatore, non sarebbe poi così difficile immaginare un adattamento perfettamente riuscito di simili creature al territorio messicano o ancora più a nord. Ma per meglio definire ciò che rende unico l’oggetto dello studio pubblicato dalla Dott.sa Pavan, successivamente ad un lungo periodo di comparazione genetica e morfologica durato fino a giugno di quest’anno, sarà opportuno a questo punto presentare le caratteristiche inerenti di questa interessante genìa arboricola di terre lontane…
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L’ultimo abbaio del warrah, canide perduto dell’Atlantico meridionale
È una storia vecchia come il tempo: animale carnivoro raggiunge, per un caso fortuito o l’intervento inappropriato dell’uomo, i territori straordinariamente biodiversi di un’isola lontana dalle coste dei continenti. Qui, adattandosi perfettamente al clima locale, diventa un agguerrito predatore della fauna drammaticamente impreparata, che l’evoluzione pregressa ha lasciato priva di alcun tipo di difesa contro i denti e forti muscoli che ad un tratto inseguono le loro placide giornate. Finché in una manciata di generazioni, esso stesso si trasforma nella creatura dominante, continuando a mietere le proprie vittime ad un ritmo sempre più serrato. Dopo qualche secolo, l’unica forma di vita rimasta è il vorace malfattore, che non può effettivamente trarre nutrimento dagli altri membri della sua stessa specie. Così la sua popolazione torna a diminuire, finché ad un certo punto, scompare anch’egli nelle fitte nebbie della storia biologica del pianeta Terra. Eccetto che in determinati luoghi, la cosa può svolgersi in maniera differente. Perfetti posatoi per i volatili ed onnipresenti insetti come il remoto arcipelago delle Falklands, 500 Km ad est della punta estrema dell’America Meridionale, situate come un sopralluogo di origine vulcanica sul bordo esterno della placca continentale della Patagonia. Dove l’assenza di una popolazione di quadrupedi naturalmente residenti non precluse in alcun modo l’approvvigionamento ed alimentazione di quest’abitante monotipico, il canide a metà tra volpe e lupo che i primi coloni europei di simili terre lungamente disabitate scelsero di definire Warrah. Forse per assonanza con l’appellativo utilizzato dagli indigeni Yamana della vicina terraferma, magari per assonanza con la parola in lingua inglese worry, che significa “preoccupazione”. Oppure, cosa ancor maggiormente probabile, con l’intento d’assonanza al ritmico rimbombo di un abbaio lontano, formato comunicativo spesso utilizzato da queste creature socievoli e non certo prive di un livello di scaltrezza, utile a procacciarsi il pane quotidiano nell’intero ciclo alquanto mutevole delle stagioni locali. Ma non, purtroppo, quella necessaria ed opportuna paura dell’uomo che avrebbe potuto allontanare di qualche decade la loro intercorsa estinzione attorno al 1876, soltanto 43 anni dopo che lo stesso Charles Darwin era passato in questi luoghi a visitarli nel corso del celebre viaggio della Beagle, notando l’eccessiva mansuetudine che permetteva ai cacciatori di ucciderne un esemplare con un semplice pezzo di carne nella mano sinistra, mentre la destra già manteneva in bella vista un lungo ed affilato coltello. Pratica diffusa non soltanto per poterne trarre le pelli rossicce di apprezzabile livello di pregio, ma anche rimuovere dal pool genetico quegli esemplari che si erano macchiati, nell’opinione degli abitanti, del crimine più efferato per un animale: aver cacciato ed ucciso, senza remore, il bestiame facente parte delle molte dotazioni consortili dell’odierna civiltà pulsante. Riunita sotto la bandiera con lo slogan valido al di là di qualsivoglia confine: “Prima gli umani” al di là di ogni ragionevolezza, senza considerazioni per il meccanismo autoriparante di eventuali e intonse biosfere. “Gli umani solamente” e nulla più…
Ancor si muove fuori dagli abissi l’orrido groviglio che fiorisce tra i coralli notturni
Era l’apice di una giornata di pesca come tutte le altre, quando tirando a bordo la rete a strascico di questa nostra imbarcazione, ci rendemmo all’improvviso conto di aver tratto a bordo un araldo di Yog Sothoth, Mietitore degli Abissi. Ammasso di tentacoli vibranti, la bocca spalancata al centro per costituire l’apertura verso un altro piano dell’esistenza. L’occulto e onnipresente luogo dove le realtà si sovrappongono, mettendo a dura prova la limitata cognizione di causa posseduta da noialtri esseri capaci di percepire o concepire appena una manciata di dimensioni. La triplice precisa contingenza, per essere precisi, dove la Creatura getta la sua ombra, pur riuscendo a mantenere l’evidente ed impossibile complessità del proprio corpo dalla plurima coscienza, equamente distribuita. Perciò una stretta di mano, lupo di mare, che foraggi fonti di sostentamento dal profondo, inquieta anima incapace di capire dove ha fine l’essere vivente, e inizia l’aura di mistero che ogni tipica sinapsi accende. come il bulbo di una lampadina che galleggia nel trasparente plasma dei primordi sussistenti. Là dove la tenue catena delle circostanze si assottiglia, perdendo il modo di congiungere la Terra e il Mare. E ciò che avremmo voglia di scrutare guarda facilmente, molto prima di quanto potremmo, il nucleo della nostra persistente anima ormai prossima allo smarrimento.
Echinodermata, ovviamente. Che altro? Il phylum di creature caratterizzate dal superamento della simmetria bilaterale una volta che si trovano a raggiungere l’età riproduttiva, puntando a quella del pentametro radiale benché pure questo sia più che altro il mero approccio di un flessibile riferimento della procedura. Fino al caso estremo di presenze come questa, che paiono sfidare il tipico concetto di cos’è una pianta per i nostri occhi. E cosa, invece, un animale. Laddove pur non integrandosi nel vasto insieme di creature cosiddetti sessili, che amano ancorarsi a quel fondale distante, “stelle” come queste trovano preferibilmente un pratico pertugio da cui emergere cacciando con la captazione. Soltanto e preferibilmente nelle ore tra il tramonto e l’alba, all’esaurirsi delle quali tornano a serrarsi come un pugno, comprimendo i propri arti nello spazio appena sufficiente per nasconderle e proteggerle da sguardi indiscreti. Una mansione che talvolta può essere difficile per queste varietà giganti, come le esponenti di generi come Astrophyton, cui parrebbe appartenere il notevole per quanto breve segmento videografico sopra mostrato, che parrebbe aver colpito comprensibilmente la fantasia di un’ampia percentuale di spettatori online…
La singolarità genetica della formica che incorpora due specie nella sua discendenza
C’è solo un’altra specie di esseri, su questo pianeta, che vive quotidianamente il nostro stesso stato di conflitto, completo e totalizzante, nei confronti dell’ambiente che si trova attorno. La tremenda manifestazione del destino percepito come unica possibile soluzione situazionale: replicare la propria esistenza, fino a sovrascrivere ogni possibile alternativa biologica esistente. Così controllando l’assoluta ecologia di un sito naturale, fino ad asservirla totalmente in uno stato d’esistenza alternativo in cui possa realizzarsi il predominio assoluto. Ed è così poco tollerante, l’indole della formica, nei confronti di ostacoli posizionati sul proprio cammino che in alcun modo riesce a tollerare la condivisione con creature disallineate, persino quando appartenenti alla sua stessa stirpe quanto meno parzialmente, essendo figlie di un diverso ramo del grande albero biologico del pianeta Terra. Immaginate dunque la sorpresa del gruppo di studiosi dell’Università di Montpellier, tra cui Y. Juvé ed il portavoce videografico Jonathan Romiguier, impegnati da qualche tempo nell’osservazione delle popolazioni attestata in Sicilia della formica di origini spagnole Messor ibericus, quando all’interno delle tane rilevanti cominciarono a scorgere la cospicua presenza di maschi, poi statisticamente quantificati ad un totale di circa il 56% del totale, privi della caratteristica pilosità capace di caratterizzare questa ben conosciuta varietà d’insetti eusociali. Il che avrebbe successivamente portato all’identificazione dell’imenottero “intruso” come una moltitudine coesistente di rappresentanti della specie non necessariamente contigua delle Messor structor, un altro tipo di formiche raccoglitrici originarie della penisola Iberica, i Balcani e l’Italia. Il che avrebbe avviato un frenetico quanto infruttuoso tentativo di ricerca, negli immediati dintorni, di un formicaio appartenente a tale genìa. Giacché questo tipo di commensalismo, in particolare nel genere Messor, è attestato condizioni specifiche entro le quali gli imenotteri si riservano un certo grado di tolleranza nei confronti della controparte, permettendo l’intrusione ed addirittura la fecondazione da parte di questi ultimi della propria stessa regina, al fine di produrre una diversa casta di lavoratrici o schiave interspecie, maggiormente efficienti nello svolgimento dei compiti che gli verranno in seguito assegnati dal formicaio. Ciò mentre le figlie della propria stessa stirpe, allo stesso tempo, potessero risultare principalmente femmine, massimizzando in tale modo la disponibilità di regine future. Attribuzione circostanziale dell’anomalia che nel presente caso, nonostante la sicura ricerca degli studiosi, non sarebbe andato incontro alla soddisfazione sperata. Lasciando emergere in maniera graduale, nonché inesorabile, l’incredibile sospetto titolare…



