Almeno quattro sono i significati nella storia della navigazione della parola dal suono vagamente latino Pelorus, corrispondente al nome proprio del navigatore impiegato dal generale cartaginese Annibale nel 200 a.C. per attraversare il Mediterraneo. Attrezzato con l’omonimo strumento, costituito da una plancia numerata e un foro d’osservazione stenopeico, utile a individuare la posizione di un singolo punto in relazione con la rotta di una singola nave. Così come fatto all’altro capo del globo, parecchi anni dopo, dai popoli oceanici della Polinesia, mediante l’individuazione ed utilizzo come riferimento delle stelle notturne, fino al raggiungimento di una terra promessa come la Nuova Zelanda. Luogo dove, certamente non a caso, in corrispondenza dello stretto Francese tra l’Isola del Sud e d’Urville sussiste un tratto di mare particolarmente pericoloso, pieno di scogli e correnti trasversali, che i coloni avrebbero chiamato Pelorus Sound. E di nuovo con la classica ricerca di una valida corrispondenza concettuale, tra cosa inanimata e personaggio, lo stesso appellativo avrebbe finito per essere attribuito a una creatura che viveva nelle sue immediate prossimità, spingendosi frequentemente all’interno. Niente meno che un delfino, ma di quel tipo particolarmente celebrato e incline a rendersi un amico fedele dell’umanità, ottenendo comprovata riconoscenza nel momento del nostro maggiore bisogno. I primi a parlarne furono i giornali neozelandesi ed inglesi del 1888, trovatosi a raccontare una di quelle storie marinaresche tanto simili a leggende, capaci d’ispirare il folklore di coloro che vivevano nelle immediate prossimità o si ritrovavano frequentemente ad attraversare l’azzurro mare. Pare, infatti, che l’amichevole cetaceo destinato ad essere soprannominato Pelorus Jack fosse comparso di fronte ad uno schooner intento ad attraversare il temuto stretto, inducendo la reazione istintiva dell’equipaggio fin da subito pronto ad arpionarlo. Se non che la moglie del capitano, sconvolta da un tale proposito, riuscì a dissuadere i suoi compagni di viaggio, un gesto a cui fece seguito l’affiancamento e progressivo avvicinamento del delfino alla nave. Che l’avrebbe seguita per un tempo approssimativo di almeno 12 ore, provvedendo in base ai resoconti a “guidarla e preservarla” ogni qual volta si stava avvicinando eccessivamente a potenziali rocce sommerse. Il che fu l’inizio, venne scritto nelle settimane e mesi a venire, di una lunga serie d’occasioni in cui l’animale avrebbe fatto la sua comparsa senza nessun tipo di preavviso, accompagnando l’una o l’altra imbarcazione prossima all’incontro con la sua ora più pericolosa e potenzialmente letale. In questo periodo, per quanto ci è possibile notare, vennero scattate anche delle foto della misteriosa creatura, che ci permettono d’identificare con un ragionevole grado di certezza Pelorus come un maschio di Grampus griseus o delfino di Risso, dal nome del naturalista che per primo lo studiò permettendo in seguito a Georges Cuvier di classificarlo quasi un secolo prima di tali eventi. Non che tale qualifica sembrasse particolarmente degna di essere notata agli autori dell’inizio del secolo, tanto che il London Daily Mail nella prima decade del Novecento avrebbe provveduto a descriverlo più volte come “una strana creatura ibrida a metà tra uno squalo e un delfino”. Forse in funzione dell’alta pinna dorsale, sebbene la specie in questione, con diffusione cosmopolita, assomigli piuttosto a una piccola balena, priva di rostro e lunga fino a un massimo di 4 metri, costituendo effettivamente uno dei più grandi mammiferi marini ad essere chiamati ancora delfini. Famosi per i marchi longitudinali o cicatrici che comunemente ricoprono i loro dorsi grigio chiari, potenzialmente causati dagli scontri tra maschi, la caccia delle seppie di cui si nutrono o come nel presente caso, l’urto occasionale con gli scafi delle navi che notoriamente amano seguire. Sebbene i pericoli che una di queste creature può trovarsi ad affrontare nel corso della propria esistenza possano essere anche di un tipo maggiormente occasionale, causato effettivamente dalla condivisione dei momenti con creature molto più subdole e crudeli di loro…
naufragi
Un soffio d’aria e l’ultima speranza quando il vascello sta per affondare in mare
E per chi stesse cercando l’ulteriore prova che gli oceani terrestri sono come una savana; distessa ininterrotta e popolata di svettanti pachidermi, ciascuno popolato dal suo piccolo seguito di minuti passeggeri… Mahut e addestratori, Lupi di quel mare che non ha confini, pienamente coscienti della singolare maniera in cui, nel caso in cui tutto dovesse sembrare perduto, la galleggiante cavalcatura potrà sempre aprire le sue orecchie, procedendo a estendere la lunga protuberanza nasale. Proboscide gonfiabile, o magica appendice che conduce alla salvezza per tutti coloro che, inseguiti dall’alta marea del disastro, inteso come fiamme o presupposti dell’affondamento, potranno discenderla riuscendo a scivolare fino all’efficiente estremità. Dove nessun pesce, o famelica orca assassina, potranno posizionarsi nell’attesa con le fauci spalancate, causa la presenza dell’ultimo e apprezzato dono dell’elefante. Ma non c’è metafora che tenga, in merito a simili oggetti: siamo innanzi, sopra e dentro ad una serie di perfette zattere di salvataggio. In quanto create sulla base dei principi necessari ad essere inaffondabili, impossibili da ribaltare, accoglienti e particolarmente spaziose: fino a 150 persone potranno trovare una collocazione all’interno; in un periodo complessivo di appena 10 minuti a dir tanto. Certo, d’altra parte, tutto questo è opera dell’ingegno e l’avanzata competenza tecnica dell’uomo. E prende il nome di MES: Marine Evacuation System, uno dei tanti segni facilmente apprezzabili dell’attenzione moderna nei confronti della sicurezza e la sopravvivenza di coloro che operano per il bene collettivo.
Utilizzando un approccio maggiormente descrittivo alla faccenda, dunque, il dispositivo in questione non è altro che un contenitore di forma cilindrica abbinato ad una bombola di gas nitrogeno. Collegato ad una scatola, anch’essa pronta ad irrorarsi della voluminosa sostanza, al fine di lasciar fuoriuscire una verticale via privilegiata verso il fondo delle sfortunate circostanze. Il tutto da posizionarsi preventivamente presso la murata di una nave, al fine di poter estrinsecare tutto il proprio potenziale nel momento malaugurato in cui dovesse presentarsene la necessità. Una semplice e opportuna risposta, alla necessaria domanda che in molti si posero successivamente al 1912, con il naufragio del più celebre transatlantico andato incontro a un iceberg distruttore, quando l’assurdità di avere un numero del tutto insufficiente di scialuppe in proporzione ai propri passeggeri fu all’improvviso evidente innanzi agli occhi del mondo. Una domanda che recita grosso modo: “Se l’intero ponte dovrà essere occupato da lance di salvataggio, dove potremo mettere, esattamente, le persone?” Perché un semplice natante con camera d’aria, fino all’epoca contemporanea, era sostanzialmente una trappola mortale in condizioni marittime meno che ideali. Un semplice gommone non galleggia tra inquietanti cavalloni alti quanto un palazzo di quattro piani… Non molto a lungo. Ed è proprio per superare tale limite che nel 1979, almeno stando a Wikipedia, alla compagnia neozelandese RFD sarebbe venuta un’intrigante idea…
La costruzione, il varo e l’immediato naufragio del primo grande galeone rinascimentale
Una struttura moderna, situata non troppo lontano dal porto di Stoccolma, proprio lì dove l’intera storia ebbe il suo inizio, svolgimento ed epilogo a dir poco tragico ed inaspettato. Dal grosso capannone con il tetto inclinato, apprezzabile già a notevole distanza, si erge quindi l’intera alberatura di un veliero, di un’apprezzabile color rosso vermiglio. Anticipazione dell’oggetto più incredibile contenuto all’interno, un letterale “palazzo” di tre piani in legno, ricoperto di sculture policrome di imperatori, eroi, mostri mitologici e belve. Perché questo è il museo marittimo della Vasa, la più importante ed intatta nave mai ritrovata nelle fredde acque dei mari del Nord. Dopo essere rimasta sepolta in salamoia, per un lungo periodo di esattamente 333 anni.
Fin dalla loro prima implementazione a bordo di uno scafo navigante, i cannoni e le altre armi da fuoco ebbero un ruolo di primo piano nello svolgimento di ogni tipo d’ingaggio da parte delle marine militari di tutto il mondo. Ma in una maniera che riusciva a configurarsi, a partire dall’introduzione in Francia dei primi portelloni di fuoco sulle murate dei vascelli all’inizio del XVI secolo, come una modalità accessoria di soppressione del nemico, prima dell’atto principale che continuava ad essere ritenuto l’assalto fisico da parte di un equipaggio armato di tutto punto. Nient’altro che un’evoluzione, in altri termini, del concetto di conflitto marittimo anticamente teorizzato dallo stesso Giulio Cesare, che traeva giovamento, senza essere effettivamente portato alle sue estreme conseguenze, dall’impiego coordinato delle catapulte. Venne un giorno, tuttavia, in cui le cose apparivano destinate a cambiare e nessuno sembrò maggiormente attrezzato per rendersene conto che il re Gustavo II Adolfo di Svezia (dominio: 1594-1632) detto “il Grande” per aver ereditato, e saputo combattere con estrema perizia, tre guerre dal suo insigne padre e predecessore, con la Russia, la Danimarca e la Polonia. Sono questi gli anni della Stormaktstiden o “Era del Grande Potere” ovvero la graduale costruzione da parte di un piccolo paese nordico di quella che possiamo definire una delle più efficienti macchine da guerra marittime dell’Europa settentrionale. Ma a partire dal 1625, gli eventi sembravano aver preso una piega inappropriata: il naufragio accidentale di un’intero gruppo di navi nella baia di Riga, seguìta due anni dopo da una sonora sconfitta ad opera delle forze polacche nella battaglia di Oliwa, in cui andò persa anche l’ammiraglia svedese “Tigern” (Tigre), avevano convinto l’esperto sovrano e comandante militare che era venuto il momento di cambiare le cose, e farlo in un modo che avrebbe cementato la sua posizione dominante all’interno dello scenario bellico dell’Europa continentale.
L’idea era semplice, nonché rivoluzionaria: cambiare radicalmente il modo in cui le navi da guerra venivano costruite, massimizzando la quantità di cannoni a bordo che avrebbero potuto far fuoco nello stesso momento e contro lo stesso bersaglio, per mettere a segno l’attacco che prendeva il nome temibile di bordata. Non più indirizzata contro il nemico, quindi, con l’obiettivo di ammorbidirne le difese e il desiderio di resistenza, ma di affondare il suo battello in modo immediato e totalizzante. In altri termini distruggerlo, senza nessuna possibilità d’appello. Tale auspicabile eventualità ebbe dunque in breve tempo l’occasione di prendere una forma ed un nome, nel progetto della nuova nave ammiraglia Vasa (Fascina, da un elemento presente nello stemma araldico della casata di Svezia) commissionata al rinomato costruttore di Stoccolma Henrik Hybertsson. Personalità già dimostratosi capace di guadagnarsi il ragno di maestro, ed una fama abbastanza grande da potersi rifiutare nel 1625, una volta contattato dall’ammiraglio reale Klas Fleming, di dedicare tutta la sua attenzione alla costruzione di una nuova squadriglia di navi medio-piccole mirate a sostituire quelle perse nel naufragio di Riga. Cogliendo invece in modo entusiastico l’occasione, soltanto l’anno successivo, di curare la posa in opera di un nuovo galeone della lunghezza di 35 metri, che fosse in grado di affrontare in combattimento qualsiasi altro vascello della sua Era. Questo era il decreto del sovrano il quale andò ben oltre, nel caso presente, i limiti considerati ragionevoli del suo particolare campo esperenziale…
L’impatto del bastimento che tentò di evitare l’Australia

L’intima correlazione di particolari città sulla costa con l’eterno rincorrersi delle onde risulta difficile da sopravvalutare. Vedi il caso di Newcastle, Nuovo Galles del Sud, dove l’interfaccia che collega tali spazi con la popolazione umana prevede, in linea con l’usanza di questa nazione, due esempi delle cosiddette piscine oceaniche o “bagni”, costruite in corrispondenza di speroni rocciosi, ove l’acqua salmastra dei marosi può liberamente fare il suo ingresso, offrendo sin dall’epoca delle colonie penali uno spazio per immergersi in relativa sicurezza. L’otto giugno 2007 tuttavia, la più celebre di queste iconiche strutture vide palesarsi innanzi l’ombra di un qualcosa di particolarmente ingombrante, trasportato dalla forza degli elementi nella stessa maniera in cui era solito succedere con l’occasionale pesce, piccola medusa o conchiglia. Rossa, grossa e del tutto fuori controllo, la nave panamense lunga 225 metri dal nome Pasha Bulker gettò la sua ombra di prima mattina sopra il parco e gli edifici antistanti la turistica località di Nobby’s Beach. Ed ogni persona tra i curiosi presenti, circondati dalla pioggia e i venti di una delle tempeste più notevoli degli ultimi anni, convenne nel pensare che l’oggetto fosse semplicemente, palesemente un PO’ troppo vicino. Alle 9:51 esatte, la bulker in attesa di ricevere il suo carico finì spiaggiata. Ed in quel singolo, fatal momento, entrò nel capitolo più surreale della sua lunga, e tutt’ora incompleta storia.
Un evento fuori dal contesto, in gergo astronomico, è l’inspiegabile verificarsi di un avvistamento. Una cometa fuori dalle traiettorie più probabili, un pianeta particolarmente distante dalla sua stella, l’oggetto oblungo e affusolato che ricorda, con la sua forma, la probabile venuta di un’astronave aliena. E nel caso di quel particolare vascello adibito al trasporto di carbone, come molti altri che frequentano il porto della città industriale di Newcastle, l’ultima di queste ipotesi avrebbe potuto corrispondere a un’imprevista verità. Mentre i 22 marinai ed il capitano venivano tirati fuori, ancor prima che il vento si calmasse, dagli abili piloti e soccorritori della Westpac Rescue Helicopter Service, con le onde che ancora s’infrangevano clamorosamente contro il fianco dello scafo, lasciando intendere che da un momento all’altro, la sua intera forma ponderosa potesse spezzarsi rovinosamente in due o più parti. Al diradarsi delle nubi verso il termine di quella lunga giornata venne organizzato un sopralluogo, sotto gli occhi appassionati della collettività, che giudicò lo scafo ancora ragionevolmente integro e pronto a navigare, a patto che si riuscisse a spostarlo di lì. Nel frattempo l’intera popolazione di Newcastle sofferta una perdita di 10 vite umane a causa di vari incidenti causati dalla recente catastrofe atmosferica, sembrava ora incline a trarre un qualche grado di cupa soddisfazione dalla sua conseguenza più scenografica e priva di precedenti.
Passando in mezzo alla folla assiepata oltre la zona d’esclusione stabilita per sicurezza nei giorni immediatamente successivi, il fotografo Murray McKean prese allora l’iniziativa che l’avrebbe reso indirettamente famoso, salendo sulla torre della Cattedrale di Cristo per scattare quella foto dalla prospettiva quasi surrealista, in cui il Leviatano delle acque appare sospeso, come per magia, sopra gli edifici del parco cittadino antistante. Ma la balena, per così dire, non aveva ancora esalato il suo ultimo respiro…