La lucentezza imperturbabile di elementi meccanici, strumenti tecnologici, componenti veicolari avanzati. Per non parlare dei caratteristici occhiali a specchio, fin da subito ricorrenti nelle opere facenti parte di quel nuovo genere narrativo. Nell’ottenimento di una superficie riflettente, normalmente associata alla tonalità del cromo, elemento della tavola facente parte del gruppo 6 (metalli d’importanza industriale) pur trovando applicazioni relativamente limitate nella stratificata civiltà del mondo contemporaneo. Perché mai, dunque, il materiale simbolo della cultura cyberpunk non dovrebbe essere riconosciuto nella plastica? Prodotto polimerico preponderante e irrinunciabile, spina dorsale delle plurime visioni contrastanti di un’epoca possibile, fin troppo prossima, in cui la natura è stata superata dall’anelito ad avere tutto e subito, in quantità di molto superiore alle aspettative. Sto parlando della plastica capace di formare involucro dell’informatica e di altri oggetti, telecamere, persone… Ovvero la sostanza, intesa come innumerevoli mattoni dell’esistenza, capace di costituire la struttura stessa del tentacolare dio urbano. L’esiziale megalopoli, che poi QUASI sempre è Tokyo o uno dei suoi derivati, in grado di costituire il personaggio più importante che accomuna la totalità dei film, romanzi, videogiochi di questo settore. Di certo la conoscete, o altrettanto probabilmente potrete prenderne atto dall’opera del tutto priva di precedenti esposta nel corso di due soli giorni alla fiera di Chicago di una settimana fa, incentrata sulle costruzioni-giocattolo ideate per la prima volta nel 1949 in Danimarca, prima di trasformarsi nella pura e imprescindibile antonomasia di quel settore merceologico all’interno del mercato globale. LEGO che permette d’insegnare ed acquisire un tipo di creatività tattile propedeutica a moltissime altre cose, nei giovani come negli adulti, come esemplificato dall’ormai celebre dicitura “Adatto per bambini dai 9 ai 99 anni”. Coloro che potrebbero finire a vivere, un giorno, in luoghi come Neo Hashima di Stefan Formentano, il nome principale associato ad uno dei progetti più imponenti, ed indubbiamente memorabili, ad aver partecipato ad uno di questi eventi. Sotto ogni aspetto rilevante una città, nella consueta scala 1:42 fornita dalle figure antropomorfe della compagnia produttrice, raggiungendo una dimensione complessiva pari a circa 10 metri di lato e 2,7 d’altezza. Benché l’individuazione di un singolo autore potrebbe portare al fondamentale fraintendimento del progetto, trattandosi di un’impresa collaborativa frutto delle mani di 70 partecipanti provenienti da molteplici paesi, portati sotto una bandiera dall’intento collettivo nel creare qualcosa di assolutamente innovativo, che potesse dirsi a tutti gli effetti privo di precedenti…
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Il significato nascosto nelle sequenze di nodi che tennero unito un impero
Fondamento del pensiero figurativo, il sistema logografico di una popolazione produce profonde ripercussioni nello schema dei valori, le priorità culturali e l’approccio ai problemi messo in opera dagli utilizzatori, offrendo sentieri non propriamente tangibili all’implementazione di un’identità collettiva. Così procedendo, un frammento alla volta, è possibile ricostruire l’origine di una determinata civilizzazione a partire dalle testimonianze invariabili, l’essenziale lascito delle generazioni trascorse. Ma tutto appare maggiormente difficile, nel suo complesso, qualora lo spirito della conoscenza sia stato espresso, piuttosto che tramite tavolette d’argilla o iscrizioni su pietra, mediante un mezzo per sua natura deperibile, purtroppo incapace di attraversare i secoli restando fondamentalmente integro nei suoi fattori costituenti. Rivolgete a questo punto l’occhio della mente ad un vasto territorio, della grandezza approssimativa dell’Impero Romano d’Occidente, attraverso cui strade di pietra permettevano ad agili messaggeri di sfruttare i muscoli delle gambe al posto di alcuna cavalcatura equina o d’altra immaginabile natura. Laddove costoro, che avevano il nome di chaski, si ritrovavano frequentemente a doversi arrampicare lungo irti passi gelidi, o discendere pietrosi scivoli dovuti alla continua erosione delle montagne. Cosa potrebbe effettivamente utilizzare costui, di meglio, che un leggero e maneggevole agglomerato di corde? Il cui nome era per l’appunto quipu o khipu: legare [assieme]. Siamo perciò in Ecuador, Perù, Cile, Argentina, Colombia… Una qualsiasi delle terre occupate, tra il dodicesimo e il sedicesimo secolo, dal cosiddetto Reame delle Tre Parti (Tawantinsuyu) eufemismo poetico destinato ad essere sostituito, nel proseguire della sua vicenda storica e successivamente all’arrivo degli Spagnoli, con il termine in lingua Quechua usato per riferirsi al concetto di “sovrano”: Inca.
È purtroppo nota e certamente pregiudizievole la maniera in cui, nell’analisi storiografica delle sue circostanze, questa società precolombiana venga spesso definita in base alle mancanze, piuttosto che i pur significativi traguardi che aveva saputo conseguire. “Guardate cosa sono riusciti a fare” afferma l’antropologo generoso: “Pur dovendo rinunciare a bestie da soma, l’invenzione della ruota, la lavorazione dei metalli, un sistema di scrittura realmente degno di questo nome…” Ed è probabilmente giusto l’ultima, tra tali affermazioni, a dover lasciare maggiormente dubbioso chiunque possieda del senso critico residuo nell’attuale circostanza globalizzata del post-moderno. Laddove in effetti un particolare sistema di notazione computazionale, ed assai probabilmente molto più di questo, faceva parte del repertorio strumentale dei chaski e dei khipu kamayuqkuna, una particolare casta o professione d’individui dotati di ottima memoria e capacità cognitiva, incaricati di decifrare all’arrivo il prezioso repertorio d’informazioni facente parte del maneggevole carico delle controparti. Un’impresa presumibilmente non semplice che ne faceva, così come avvenuto moltissimi anni prima per gli scribi dell’Antico Egitto, una risorsa straordinariamente preziosa per i propri sovrani…
L’edificio avvolto nell’involucro dei suoi pilastri privi di una geometria evidente
C’è una strada che attraversa, nella parte nord-orientale di Los Angeles, il susseguirsi di proprietà industriali e grandi uffici che caratterizzano l’agglomerato parte della megalopoli che prende il nome di Culver City, cittadina formalmente indipendente già dai primi anni del Novecento. Può vigere d’altronde la latente sensazione, procedendo in auto parallelamente alla costa (non è pratico negli USA, e soprattutto in California, immaginare di poter fare i turisti a piedi) di stare addentrandosi nel regno surreale di un diverso piano dell’esistenza, in cui ogni creazione artificiale si conforma ad un particolare metodo d’interpretare la realtà, individuare punti di riferimento, dare una logica e un significato ulteriore all’utilizzo degli spazi esistenti. La visione, per esser maggiormente precisi, dell’instancabile ed ininterrotta collaborazione pluri-decennale, tra la famiglia di sviluppatori immobiliari dei Samitaur Smiths e l’architetto veterano Eric Owen Moss, maestro di un tipo di decostruttivismo che rifiuta ogni tipo d’etichetta imposta dal senso comune. Ma prima di notare, comprensibilmente, come ciò possa essere tutt’altro che raro, invito i vostri sguardi a posarsi per lo meno di sfuggita sul grattacielo ormai prossimo all’inaugurazione lungo il corso del Jefferson Boulevard, nuova “porta d’ingresso” di questo regno delle meraviglie costruito sul confine dei sogni. Il cui nome, (W)rapper riesce ad essere ben più che mera descrizione d’intenti, incorporando nell’aspetto grafico la coppia di parentesi che avvolgono, in qualche maniera, l’iniziale simbolo del termine di riferimento. Così come il singolare palazzo, alto 60 metri per 16 piani per quasi 17.000 metri quadrati di spazio utile, si presenta incapsulato nell’immaginifico incrocio di un’obliqua pletora di quelli che vorrebbero evidentemente sembrare dei sottili ed improbabili nastri di cemento. Pur essendo effettivamente costruiti in acciaio, ricoperto da un ritardante antincendio di colore grigio in base ai codici normativi vigenti, al fine di costituire non soltanto un insolito elemento decorativo. Bensì parte fondamentale di quello che può esser definito a pieno titolo una sorta d’esoscheletro, ovvero parte rigida dell’edificio, capace di sostituirne gli eventuali pilastri o altri orpelli capace d’ingombrarne gli spazi disponibili all’interno. Per il risultato di una letterale scatola di vetro totalmente vuota, utile a realizzare ampi ambienti con open space o persino, per assurdo e come afferma scherzando lo stesso architetto, “Una pista da bowling con vista sulla città antistante. Un privilegio e corollario importante, sotto mentite spoglie, quando si considera l’ottimizzazione dell’ultimo piano al fine di ospitare uno spazio panoramico a 360 gradi, potenzialmente destinato ad essere dotato di ristorante. Ma prima che un simile piano possa realizzarsi, mentre i livelli sottostanti si riempiono del tipo d’aziende diventate comuni a Culver City nel corso degli ultimi anni, moderne, anti-conformiste, scevre di sovrastrutture latenti, la strana torre ha continuato progressivamente ad ergersi attirando gli sguardi della gente, accompagnati da una vasta gamma d’opinioni prevedibilmente contrastanti. Uno stato dei fatti non raro per le opere di questo architetto, che è stato riportato affermare “Nel panorama degli spazi abitativi contemporanei, se vuoi essere davvero originale dovresti costruire un semplice parallelepipedo con porta, tetto, finestra.” Pur continuando a muoversi coi propri gesti in direzione diametralmente opposta, poiché “Se puoi costruirlo, sei anche in grado d’immaginarlo” E il risultato è quanto mai notevole per gli occhi di tutti…
La città bianca del Turkmenistan, marmorea capitale dal fascino ultraterreno
La disastrosa esperienza di un grave terremoto può costituire a posteriori molte cose. L’annientamento delle aspettative, la devastazione dei sistemi, la rovina delle famiglie. La fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Particolarmente quando, nel quadro d’analisi, si decidesse d’integrare il punto di vista di un’intera nazione. Come quella che nel 1985 il segretario del Partito Comunista del Turkmenistan, Saparmurat Niyazov, si sarebbe ritrovato a guidare dopo il progressivo ritiro degli interessi sovietici, fino alla caduta del muro di Berlino e conseguente rinascita di questa terra d’Asia come un luogo dall’economia rilevante, soprattutto in forza delle notevoli risorse minerarie ed energetiche nascoste nel suo sottosuolo. Lo stesso luogo d’origine di un disastro di 7,1 di magnitudine dalle radici tutt’altro che recenti centrato sulla capitale Ashgabat, risalente a 37 anni prima ed a causa del quale lo stesso Niyazov perse entrambi i genitori, finendo per crescere all’interno di un orfanotrofio. Eppure sufficiente a dare inizio ad un profondo cambiamento nello schema urbanistico del principale centro urbano (in effetti l’unico) del vasto ma poco popoloso territorio nazionale, quella stessa città che fin da tempi remoti aveva costituito un punto di scambio lungo l’estendersi della Via della Seta, famosa per i suoi vigneti. Così cresciuta nei secoli, a partire dall’originale consorzio di yurte semi-nomadi, fino all’agglomerato di bassi palazzi in mattoni di adobo menzionato per la prima volta nel XIX secolo negli scritti dell’autore russo Vasily Yan, il quale parlò estensivamente della disposizione regolare e prevedibile delle sue strade. Almeno fino alla devastazione scatenata in quel fatidico giorno, quando la stragrande maggioranza degli edifici alti più di un piano crollarono definitivamente e senza possibilità di appello, aprendo il sentiero a una totale riconsiderazione del piano regolatore, completamente privo di limitazioni imposte dall’alto. Ma sarebbe stato solamente dopo l’ottenimento dell’indipendenza nel 1991, e conseguenza salita al potere assoluto del suo primo presidente, che gli aspetti meno prevedibili di questo strano luogo avrebbero trovato l’effettiva opportunità di manifestarsi, portando ad una dura repressione sotto diversi aspetti, compreso per l’appunto quello dell’imprenditoria edilizia. Veicolato attraverso i crismi di un potente culto della personalità, spesso paragonato e non del tutto dissimile da quello della Corea del Nord, assieme al bisogno fortemente sentito di trovare nella stessa Ashgabat un prestigioso biglietto da visita di fronte agli occhi del mondo, nonché una possibile destinazione turistica tra le più attraenti della sua intera regione. Iniziò, in questo modo, il drastico progetto d’ampliamento e de-saturazione cromatica di un’intera comunità di circa un milione di persone. Alle quali, che ci crediate o meno, fu persino imposto di far verniciare di bianco le proprie automobili ed altri mezzi di lavoro…