Striscianti esseri delle opprimenti tenebre del mondo ctonio, gli anellidi di terra possono contare unicamente sulla propria inclinazione alla furtività nella speranza spesso vana di riuscire a rimanere inosservati. Sotto il suolo, in mezzo all’erba, fluendo in mezzo agli umidi sostrati dove l’occhio dei moltissimi nemici non riesce a penetrare con la solita, spietata efficienza. Strategia non così diversa da quella impiegata nel remoto regno della fauna bentonica, costantemente sorvegliata dalle pinne agili che discendono a piacere lungo l’asse verticale della colonna marina. Ma sfuggire dalla bocca del proverbiale “pesce più grande”, soprattutto in profondità dove lo spettro luminoso ha una composizione fragile o incompleta, non è un gesto in grado di rispondere a una serie del tutto riconoscibile di leggi ottiche a noi note. Sorprendente presa di coscienza, quest’ultima, in grado di trovare basi solide nell’identificazione di un appartenente al genere Aphrodita, sulle sabbiose coste dell’Atlantico o il Mediterraneo Occidentale, trasportato in modo accidentale dal flusso certe volte imprevedibile delle correnti marine. Piatto, peloso essere della lunghezza di fino a 20 cm, che incede sulla sabbia mediante metodo sinuoso e da essa riesce ad essere quasi del tutto ricoperto. Trovando ispirazione per quel nome anglofono palesemente utile a descriverlo, sea mouse o topo di mare, dal possesso delle setole posizionate dall’evoluzione a ricoprire la sua parte dorsale. Il cui affioramento ben visibile non assorbe meramente, bensì riflette e amplifica la luce dell’astro solare di superficie. Rosse, quando le si osserva da una posizione obliqua, per poi diventare arancioni al nostro avvicinarsi e tendere ad un verde intenso simile alle elitre dei coleotteri, quando ci si mette perpendicolarmente alla sua forma stranamente scintillante in mezzo alle ineguali depressioni della ripida interfaccia tra la terra e il mare. Ricordando con modalità egualmente metaforiche l’aspetto stagionale di un ornamento natalizio, dimenticato dal trascorrere del tempo fino a emergere in differente contesto. Questo grazie ad una strategia notevole, che attraverso il ciclo delle epoche ha donato al rilevante ramo dell’albero della vita il possesso non del tutto esclusivo della cosiddetta colorazione strutturale, frutto non di semplici pigmenti bensì la disposizione fotonica di una pletora di prismi esagonali nei sottili ed urticanti peli di quel mantello. Così da creare un irriconoscibile contrasto, a ridosso delle placide profondità sabbiose di origine ed appartenenza elettiva. Ma non sempre ciò che viene da specifici recessi, riesce a mantenere le sue implicite prerogative quando appare finalmente dentro il repertorio nozionistico degli umani. Il che offre rare opportunità per l’applicazione risolutiva del senso critico, assieme alla rigida deduzione scientifica del semplice contesto di appartenenza…
abissi
Me 323 Gigant, l’imponente profilo di un vagone ferroviario volante
Fin dagli albori del conflitto umano, l’ottenimento di una posizione sopraelevata costituisce uno dei vantaggi più importanti per incrementare la quantità di manovre possibili ed in conseguenza di ciò, le opportunità di tratteggiare i limiti e l’estensione della battaglia. La cima di una collina da cui lanciare oggetti, i bastioni di un castello pieno di cannoni, la tolda di un possente galeone preso d’assalto dagli abbordatori… Fu perciò del tutto naturale, con l’introduzione del volo a motore nella prima parte del secolo scorso, che una delle prime applicazioni degli aerei dovesse palesarsi in campo militare. Ben oltre l’uso circostanziale della grande guerra, tuttavia, le cosiddette macchine volanti avrebbero trovato il modo di moltiplicarsi, per foggia, grandezza e funzioni, soprattutto entro il verificarsi del secondo confronto mondiale. Quando in maniera quasi naturalistica, i ruoli possibilmente ricoperti da un pilota e il suo velivolo videro questi ultimi adattarsi alla funzione specifica per cui erano stati costruiti. Oltre alla dottrina e le priorità sentite dalla classe ingegneristica di ciascuna nazione. Così dell’avanzata selezione tedesca, si tende a ricordare gli agili caccia, i potenti bombardieri concepiti per portare il carico a destinazione. Laddove poche parole vengono comunemente spese nel contempo, per il maggior esempio di trasportatore alato costruito fino a quel momento nella storia: un apparecchio dall’apertura alare di 55 metri e una lunghezza di 28, essenzialmente paragonabili ad un moderno Airbus A310 o Boeing 767. Tanto massiccio che persino tramite la potente macchina industriale dei primi anni di guerra, fu possibile costruirne poco meno di 200 esemplari. La stragrande maggioranza dei quali, finì per essere abbattuta in varie circostanze dalle forze aeree alleate. Con un significativo vantaggio strategico al conseguimento di ciascuna vittoria; dopo tutto, era questo l’unico oggetto in aria capace di contenere fino a 130 uomini ed il loro equipaggiamento o 12.000 Kg di carico, consistente di un pezzo d’artiglieria da 15 cm sFH 18 con il suo trattore, piuttosto che un cannone antiaereo Flak da 88 mm dotato di completo munizionamento ed accessori. Il che poteva sottintendere, ad ogni consegna portata a termine, un impatto significativo sull’andamento della linea del fronte, a patto di riuscire a portare a termine il tragitto pre-determinato. Un proposito generalmente tutt’altro che scontato, data l’agilità praticamente nulla anche nelle versioni maggiormente perfezionate, a causa dei sei motori prodotti nella Francia occupata del modello Gnome-Rhône 14N, per un totale di appena 7.080 cavalli di potenza, il che portava spesso a considerevoli difficoltà nello staccarsi da terra. Ostacolo previsto a margine dell’ideazione del progetto stesso, creato su specifiche esigenze ed a partire da quello che era stato, in origine, un semplice velivolo senza motore con designazione numerica di Me 321. Finché non fu scoperta, con conseguenze alquanto dispendiose in termini di uomini e materiali, la sostanziale impossibilità di utilizzarlo con finalità di assalto…
Giù nell’Everest sommerso, labirinto più letale nella storia delle immersioni cinesi
L’affollato ambiente virtuale pullula di voci, storie di esperienze, situazioni, valide testimonianze degli errori commessi e possibili approcci per rimediare. Nel brusio sovrapposto digitalizzato, d’altro canto, spiccano talvolta serie di parole, così terribili, tanto straordinarie o emblematiche, da porre un freno temporaneo alla navigazione. Trasportando il fruitore d’occasione in quei frangenti lontani nello spazio e nel tempo. Per apprendere quanto possano essere profondi gli oscuri abissi della disperazione umana. Una di queste storie è la narrazione del cosiddetto disastro della grotta Jiudun Tianchuang (九顿天窗 – Lucernario delle Nove Porte) profondo abisso tra le rocce carsiche del parco di Chengjiang, all’interno della regione autonoma di Guangxi Zhuang. Un luogo la cui superficie, sacra al popolo degli Yao, era stata lungamente nota agli abitanti delle zone limitrofe, così come il sospetto che potesse interfacciarsi ad una rete straordinariamente complessa di gallerie completamente allagate. Ipotesi destinata a rimanere meramente teorica fino alla primavera del 2013, quando un gruppo di speleologi sommozzatori del club australiano Wet Mule giunse con l’intenzione di raggiungere il punto più profondo della grotta misteriosa di cui avevano ricevuto testimonianze dai viaggiatori. Un’esperienza destinata a rivelarsi più difficile del previsto, mentre continuavano ad allontanarsi progressivamente dalla superficie, fino a 50, 70, 112 metri… Entro la seconda ora, armati di copiose bombole di riserva, le nutrite squadre si trovarono a dover prendere la sofferta decisione di tornare indietro, ma i pertugi proseguivano, fino alle viscere destinate a rimanere segrete del sottosuolo. Tre giorni dopo avrebbero effettuato un secondo tentativo, raggiungendo i 212 metri, abbastanza da rivaleggiare i sistemi sommersi di Hranice in Repubblica Ceca o la caverna di Font Estramar in Francia. La loro storia di precisa competenza e gesti in grado di condurre al pratico conseguimento degli obiettivi preposti, oltre a non figurare facilmente su Internet, ricorderebbe d’altro canto quella di molti altre imprese adiacenti, nel reame straordinariamente inflessibile della speleologia sommersa. Il che ha lasciato un più ampio spazio alla disanima di poco successiva, della coppia di sommozzatori cinesi Wang Tao e Wang Yang che avendo scelto l’anno successivo di affrontare lo stesso tragitto, non erano in alcun modo meno preparati ed esperti. Ma furono, purtroppo, condannati dal verificarsi di una condizione imprevista. E l’impossibilità immediata di rimediare. Il pericolo ben conosciuto da Teseo, durante la sua mitica e metodica esplorazione del Labirinto cretese…
L’anguilla che si annida nel dirupo e mostra i denti per assomigliare a un vecchio lupo
Pareidolia è l’umana condizione psicologica, presente in ogni singolo rappresentante della specie, che induce gli osservatori di uno spazio vuoto ad individuare in esso la forma riconoscibile di un volto. Due pertugi diventano occhi, una semplice sasso ci ricorda un naso, i fili d’erba si trasformano nei denti nelle fauci di un gigante in agguato… E così via a seguire. Tendenza frutto di un preciso piano evolutivo, tale approccio all’individuazione di uno schema può in realtà costituire un’utile strumento di sopravvivenza, per individuare il predatore tra i cespugli, la tigre in mezzo al sottobosco, l’irsuto cacciatore pronto ad ululare definendo l’obiettivo del branco. Ed anche in più infrequenti contesti, qualora ci s’inoltri nel vasto mondo sotto la superficie del globo terracqueo, al fine di scovare viste in grado di aumentare il materiale disponibile per questa nostra fantasia allenata. Incredibile, nonostante i presupposti, a vedersi: in mezzo a quelle pietre, il guizzo di un leggero movimento. È l’ombra di quel pesce che il subconscio riconosce, perché sembra avvicinarsi al grugno di un canide di superficie, o in alternativa, lo spettro pensoso di un nostro antenato, trasportato come per magia dentro il palazzo del dio Nettuno. Finché in modo graduale non manca mai d’emergere, spinto dalla curiosità e l’intento indagatorio, mostrando un corpo lungo 180-250 cm che sinuosamente si agita nella colonna che si estende dal sostegno del fondale roccioso. Non è difficile, a quel punto, comprendere il mito della tradizione Tinglit dei Nativi del Nord-Ovest del Pacifico, che chiamavano simili creature Gonakadet, o Konakadeit, ovvero “lupi del mare”, essendo convinti che potessero risalire la costa e visitare gli sciamani per portargli consiglio. Idea in qualche maniera mantenuta anche nel nome scientifico della famiglia degli Anarhichadidae, dal greco anarrhichesis che significa arrampicarsi. Associazione relativamente ragionevole, rispetto a quella del nome comune che allude all’anguilla, con la quale in questo caso non esiste alcun grado effettivo di parentela. Essendo l’intero gruppo biologico dei pesci lupo, diffuso con due generi e cinque specie in entrambi gli oceani che fiancheggiano il continente americano, quello di un’esperta tipologia di predatori attinotterigi (pesci ossei risalenti al Siluriano) per cui la masticazione, e resistenza del palato, costituiscono strumenti niente meno che primari per incrementare le proprie possibilità di sopravvivenza…



