Dietro al dilagante ossimoro mediatico del mini-calamaro colossale

“Negli abissi profondi nessuno potrà sentirvi gorgogliare” usava come slogan il regista Ridley Scott, in un universo alternativo in cui l’affermazione secondo cui sappiamo più sul cosmo infinito che l’oscuro ambito degli oceani terrestri (più o meno vera in base al punto di vista) avrebbe avuto la ragione di trovarsi al centro di un movimento collettivo di ambizione speculativa. Se davvero le divinità del cosmo giacciono sopite sui fondali, nell’attesa del risveglio apocalittico profetizzato, non è necessariamente indicativo né davvero interpretabile in senso letterale. Sebbene Qualcosa sia capace di acquisire validi vantaggi da una dimora tanto remota, indisturbata per quanto possibile dagli esseri che traggono dal Sole la propria forza. Alieni sono d’altra parte tutti quei molluschi, che fluttuando nella colonna oceanica, permangono di taglio tra gli strati di molecole dell’apparenza, particolarmente quando tanto rari da poterne contare gli avvistamenti di esemplari già defunti sulla punta di otto tentacoli. Ed aggiungerne alfine un altro, in cui per la prima volta… La! Creatura! Sta! Nuotando!
È un Mesonychoteuthis hamiltoni quello, o sei soltanto felice di vedermi?” Avrebbero potuto interrogarsi a vicenda i colleghi, metaforicamente parlando, in quel fatidico 9 marzo scorso (2025) a bordo della nave oceanica dell’Istituto Schmidt denominata “Falkor (too)”, con un chiaro quanto inaspettato riferimento al romanzo fantasy de La Storia Infinita. Così come post-modernista si profilava il nome del mezzo a controllo remoto sottomarino SuBastian, che si trovava in quel momento a 600 metri di profondità dell’Oceano Atlantico, vicino alle isole antartiche delle Sandwich Australi. Un luogo ed un’impostazione professionale che, una volta messe in relazione, lasciano immaginare un’ambizione in particolare dei presenti situata al di sopra di qualsiasi altra: l’avvistamento ed identificazione, come già tentato innumerevoli altre volte in passato, di QUESTO particolare animale. Il calamaro colossale, da non confondere con la seppia gigante di tutt’altra famiglia, ancorché in lingua inglese siano entrambi definiti con il termine squid che per tanto tempo avrebbe alimentato le leggende nautiche sul Kraken o altri simili mostri marini tentacolari. Potendo agevolmente raggiungere, come dimostrato grazie al precedente recupero di esemplari già defunti o i resti dentro lo stomaco dei capodogli, una lunghezza di 14 metri ed un peso probabile tra i 600 e i 700 Kg. Il che non significa, è importante sottolinearlo, che gli operatori del ROV si fossero remotamente ritrovati al cospetto di un simile gigante. Trattandosi nel caso del già celebre segmento videoregistrato, di un esemplare molto giovane, della lunghezza di 30 cm appena. Non che fosse facile capirlo in assenza di punti di riferimento nell’inquadratura. E non che molte delle testate internazionali che hanno riportato il caso, si siano preoccupate di specificare “l’insignificante” dettaglio…

Leggi tutto

Occhio blu, occhio giallo ed una fragola nel mezzo: acuti bagliori di seppie distanti

È uno dei paradossi più imprevisti della natura il fatto che a profondità abissali, lontano dalla luce rivelatoria dell’astro solare, sia presente il maggior numero di adattamenti ottici prodotti dall’evoluzione animale. Pesci che impiegano la propria esca che risplende, l’illicium posto innanzi a fauci sempre pronte a serrarsi; esseri fosforescenti al fine di trovarsi quando necessario, o lampeggiare all’improvviso per scoraggiare l’assalto dei predatori. Ed occhi dalle dimensioni superiori alla media, per riuscire a scorgere il più minimo tra gli accenni di movimento. Il genere di seppie Histioteuthis del Pacifico può rappresentare, in tal senso, un riassunto vivente di molte di queste caratteristiche, concentrate nella sagoma sfuggente di una singola creatura. Concepita dall’evoluzione per nutrirsi di crostacei, cefalopodi più piccoli e l’occasionale pesciolino di passaggio, mentre elude a sua volta la predazione da parte di tonni, focene, squali, balene o foche. Predatore e preda allo stesso tempo dunque in un ambiente straordinariamente competitivo, non c’è molto da sorprendersi del fatto che tale creatura abbia ritrovato concentrate in se stesse un’alta percentuale di specifici adattamenti al proprio habitat piuttosto particolare. Che la vede prosperare a profondità notevoli, di fino a 7-800 metri, principalmente lungo il tragitto delle correnti della California e di Humboldt, talvolta all’interno di canyon oceanici dove soltanto rare spedizioni scientifiche possono affermare di essere penetrate. Il che spiega, almeno in parte, l’apparente discrepanza riscontrabile online sul tema delle sue dimensioni, che non supererebbero secondo alcune fonti gli 8-9 cm, mentre in base ai dati presenti in altri studi sono stati avvistati maschi il cui mantello o corpo principale si estendeva per 20 o più, con un traino di tentacoli capace di raggiungere un metro. Il che ci lascia sempre ben lontani, d’altronde, rispetto all’imponenza impressionante della seppia o il calamaro abissale, probabili protagonisti d’antiche elucubrazioni sui mostri marini. Quasi niente, d’altra parte, parrebbe massimizzare un aspetto mostruoso in queste distanti cugine, la cui pelle ricoperta di fotofori equamente distanti è alla base del soprannome di “seppie fragola” (particolarmente riferito alla specie H. heteropsis) il cui altro tratto dominante può comunque suscitare un certo senso di disagio alquanto rilevante. Giacché una così marcata asimmetria, nella forma e dimensione dei bulbi oculari, non è certo comune in natura, ricordando vagamente l’aspetto di possibili alieni o creature da incubo con possibili condizioni cliniche latenti. Laddove non c’è niente di più utile, laggiù, che poter scrutare due aspetti dei dintorni allo stesso tempo

Leggi tutto

Aloha, la seppia luminosa che ama tanto seppellirsi con piè leggero

Un certo tipo di proporzioni, una determinata serie di tratti distintivi. Costituiscono l’insieme del complesso di fattori estetici, complessivamente determinanti al fine di attribuire a una specifica creatura l’aggettivo di “carino”. Non splendente, né magnifica o gloriosa, termini che sono paradossalmente più generici nel proprio vasto ventaglio di applicazioni, bensì propriamente limitati ad un particolare tipo di bellezza, quella che deriva dal sembrare al tempo stesso inoffensivi ma zelanti, giovani ed inconsapevoli del continuo rinnovarsi dei giorni. Un processo attraverso il quale causa ed effetto si perpetuano, continuamente, sulla base dei bisogni espliciti della natura… Alla seppia non più lunga di 3 cm Euprymna scolopes non importa affatto, di suo conto, dell’apparente provenienza da un pratico disco volante atterrato direttamente dal mondo dei cartoni animati. Quando tutto quello che essa è, ovvero la sua pura essenza, costituisce il dono ereditario di un preciso corso evolutivo, mirato a massimizzare la percentuale di esemplari in grado di raggiungere l’età riproduttiva, preservando la continuità di una tanto distintiva e incomparabile creatura dai 10 arti operativi e i grandi occhi attenti che si voltano in qualsiasi direzione. Mentre cerca, molto attentamente, il profilarsi di potenziali prede di passaggio nel Pacifico Centrale, ovvero gamberetti, larve di pesce ed altri appartenenti al grande bioma sovrapposto del sostrato oceanico hawaiano, di cui è in grado di nutrirsi soprattutto nel profondo della notte del suo territorio, quando sorge dal profondo sonno diurno e inizia ad aggirarsi verso il pelo trasparente della superficie. Situazione d’importante vulnerabilità per tutti gli esseri pinnuti, alati oppure privi di uno scheletro come i molluschi, salvo l’utilizzo di efficaci contromisure di qualche tipo. Ed in questo, il cefalopode in questione appare particolarmente ben dotato, data l’efficacia di un particolare metodo di mimetismo che deriva dall’esatto opposto del senso comune. Poiché quando ci pensiamo al posto suo, nel profilarsi di una tale contingenza, l’ultimo pensiero che potremmo elaborare è: “Senz’altro passerei davvero inosservato, illuminandomi d’un tratto come un lampadario.” Ma la seppia, che è depositaria di un diverso tipo di saggezza, ben conosce l’essenziale verità. Di quale sia l’approccio più frequentemente utilizzato dai suoi predatori per scovarla e farne un sol boccone, tra cui foche monache, pesci lucertola e barracuda, ovvero l’individuazione di una sagoma più scura, che si staglia innanzi al tenue lucore del cielo notturno. Innanzi al quale non sarebbe forse meglio, presentarsi come la possibile scintilla di un astro distante? O magari perché no, persino la Luna stessa…

Leggi tutto

Non è verme, non è seppia, non è un incubo venuto dal Pianeta Nove

Voglio, voglio, voglio. Devo avere: questo, il verme segmentato nelle tenebre dell’Universo, sin dall’epoca della sua nascita continuava a cogitare, nei suoi gangli contrapposti ed all’interno dei sedici cuori. Le setole deambulatorie distribuite lungo gli appena 9 cm del suo corpo, intente ad agitarsi con sinuosa successione, l’una dopo l’altra, mentre gli arti simili a tentacoli sulla nuca, ricoperti di organi sensoriali, si protendevano verticalmente verso il “cielo” in mezzo a cui fluttuava, alla ricerca dell’unica soddisfazione che gli fosse noto: un’altra particella di muco, l’escrezione di esseri sacrali, o il cadavere di un gamberetto transitato a miglior vita… Prima di precipitare verso un’esercito di bocche in attesa. Finché un giorno, quel silenzio senza fine venne rotto da un’insolita presenza, cubitale: enorme oggetto, l’astronave dei Terrestri, giunta fino a un tale luogo per lo scopo di seguir la scienza, fino alle più estreme, ancorché crudeli, conseguenze. E fu allora, con terribile risucchio, che il suo mondo venne messo sottosopra e poco dopo, terminato nella formalina. Poiché come si usa dire qui da noi “Conosciamo le profondità marine meno delle stelle fisse ad anni luce di distanza.” E neanche di quelle, nonostante tutto, le capiamo davvero!
Già: qual’è il punto più distante dalla nostra stella che sia logico chiamare ancora, a tutti gli effetti, parte del Sistema Solare? Senza inoltrarci eccessivamente in una simile questione, potremmo scegliere di dare seguito al parere di chi consideri tale definizione applicabile, in linea di principio, soltanto ad oggetti al di sopra di una certa dimensione. Poiché trattasi, nei fatti, di un insieme di “pianeti” e in quanto tale, dipendente da una simile definizione implicita, tanto sfuggente da aver visto declassare il caro Plutone a un semplice ETNO (ovvero Oggetto Estremo “al di là” di Nettuno) e nei fatti, probabilmente, il più grande della collezione. Ma proprio approcciandoci a questi ultimi, l’astronomo curioso non può fare a meno d’interrogarsi sulla maniera in cui le diverse orbite coinvolte sembrino in qualche maniera convergere ed intersecarsi, lungo il tragitto di un qualcosa che potremmo definire un vero e proprio mistero gravitazionale. Il cui nome, in date cerchie, risulta essere Nibiru: l’entità cataclismica, la Nemesi crudele della Terra, ad essa stranamente identica, nonché potenziale responsabile di una scampata distruzione qualche annetto fa. Almeno, secondo l’opinione di un certo numero di sedicenti profeti. Ma cose cosmiche possono trovarsi a contatto anche in regioni oltre la semplice materia! E qualche volta, se le condizioni sono giuste, esseri viventi possono riuscire a transitare lungo l’apertura dei portali, palesandosi d’un tratto all’altro lato.
Seguendo linee di ragionamento in qualche punto compatibili con tale ipotesi potrebbero aver reagito, almeno nei primissimi istanti, gli scienziati coinvolti nel progetto Census of Marine Zooplankton (CMarZ) quando nel 2007 si trovarono al cospetto di una tale…Cosa. Proprio al centro dell’inquadratura del loro ROV (batiscafo radiocomandato) ad oltre 2000 metri di profondità nel bacino afotico (privo di luce) del mare di Celebes, situato grossomodo tra le Filippine e l’Indonesia. Un sistema di profonde depressioni, suddivise da barriere territoriali invalicabili per gli esseri della zona bentica, ovvero abituati a vivere a stretto contatto con il fondale. Tra cui figurano, sopra qualsiasi altro, numerose specie di policheti, vermi segmentati, biologicamente simili agli anellidi di terra, per cui l’evoluzione ha tuttavia costituito una chiave d’accesso verso l’acquisizione di particolari “poteri”. Ciò che nessuno aveva prima d’allora sospettato, tuttavia, era che essi potessero in qualche maniera sollevarsi dalle sabbie senza nome, grazie a un lungo processo di trasformazione e adattamento, in fondo al quale si sarebbero trovati con 50 notopodia (arti a forma di spatola). Più che sufficienti, tutti assieme, a farne sollevare questa varietà dal suolo. E portarla a mezza altezza, proprio in mezzo al cupo nulla. Per intercettare, con gradito anticipo, gli scarti che costituiscono per essa il “cibo”…

Leggi tutto