Classe, semplicità, eleganza e un senso di rispetto nel mantenimento dei valori estetici di un tempo. Questi sono i meriti, più di ogni altro, che individuiamo come validi nel metodo impiegato per ripristinare i fasti di un’antica dimora, specie se si tratta di un castello. Simbolo per eccellenza del potere assoluto, su un territorio che può estendersi ben oltre i limiti spioventi del suo fossato. Ed ancor più quando è mancante quel particolare elemento, venuto meno l’originario scopo difensivo di tali alte mura, trasformate dalle circostanze in alternativa più rurale del grattacielo. Non è forse vero che l’odierno capitalista, in questo vigente periodo della storia, può diventare il possessore di un’autorità distinta e trasversale, soprattutto quando messo a confronto con coloro che devono chiedere il permesso, anche soltanto per cambiare il colore dell’uscio di casa propria? Ce lo dimostra l’insolita ed impressionante vicenda dello chateau La Stelsia (già Lalande) costruito nel distretto di Lot-et-Garonne nel Sud-Ovest della Francia, a quanto affermano le poche fonti attorno al XIII secolo come parte della linea difensiva contro eventuali scorribande da parte degli Inglesi. Il cui approfondimento diviene relativamente più semplice a partire dal XVII secolo, quando membri non meglio definiti dell’aristocrazia locale ne fecero una fattoria fortificata, quindi l’elegante dimora che possiamo vedere tutt’ora. Se ci riesce di scrutare oltre la sottile scorza di quella vernice variopinta che oggi offusca i crismi architettonici che tenderemmo a dare per scontati.
Questa l’idea e tale la realizzazione ad opera di Philippe Ginestet, l’imprenditore ed uomo d’affari natìo proprio di un paese a pochi chilometri da qui, che avendo guadagnato una fortuna non indifferente grazie alla catena di negozi per la casa Gifi ha scelto di acquistare quasi quindici anni fa l’imponente struttura da 31 camere e 40 bagni, ormai da tempo adibita ad hotel ma ormai prossima al fallimento. Impegnandosi a restaurarla completamente a patto che: 1 – Potesse avere i permessi di rinnovare il business per riuscire a renderlo redditizio. 2 – La colorazione esterna dell’edificio restasse totalmente a sua esclusiva e indisputabile discrezione. Il che, vista l’alternativa per un posto che sembrava già destinato a cadere in rovina, non lasciò materialmente grandi alternative alla commissione per i beni culturali del dipartimento…
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Le oltre 7.000 stanze tra le nubi per la colorata Monte Carlo della Malesia
Si tende normalmente ad assegnare gli stereotipi sulla base dell’esperienza pregressa. Così non percepiamo nulla di anormale nell’affermazione: “L’albergo più grande del mondo si trova a Las Vegas.” Peccato che assegnare un simile primato alle 7.115 stanze del Venetian sarebbe stato si, corretto tra il 2006 e il 2015, come conseguenza di una corsa agli armamenti che ricorda vagamente quella per l’altezza dei grattacieli. Con la singolare differenza che nel caso di strutture ricettive vaste, ma non eccezionalmente elevate, risulta sempre possibile procedere in un secondo momento all’ampliamento strutturale così come fatto nel deserto del Nevada, aggiungendo ali, piani e addirittura interi edifici. Il che ha permesso ad uno storico rivale da quel particolare punto di vista di riemergere e riuscire ad elevarsi, nuovamente, sulla vetta di una delle istituzioni turistiche più eccezionali dell’intero ambiente globale. Nonché le meno conosciute, almeno fuori dal suo particolare contesto nell’Estremo Oriente, di nuovo a causa dei rigidi ruoli indissolubili dalle assodate percezioni del senso comune. Ed in effetti non molti dalle nostre parti, immagino, avranno sentito parlare dell’altopiano di Genting. Ed il suo albergo più importante, il First World Hotel & Plaza nato con l’esplicita intenzione di superare in ampiezza le strutture comparabili al momento della sua originale inaugurazione: quando contava all’apertura nel 2001 “soltanto” 6.118 stanze, prima della ristrutturazione intercorsa 14 anni dopo, che l’avrebbe portato all’attuale record assoluto di 7.351 ospitate dietro le caratteristiche mura del complesso, decorate da una pletora di strisce multicolore. Che potrà mai essere superato? Che nessuno vorrà mai riuscire, effettivamente, a superare? Poiché la domanda lecita a questo particolare punto tende a diventare cosa ci sia, esattamente, ai 1.800 metri del Monte Ulu Kali nella catena Titiwangsa, situato ad appena una cinquantina di chilometri a nord della capitale Kuala Lumpur, per poter riuscire ad attirare tali quantità di persone. Un casinò: risposta che di nuovo, potrebbe sorprendere considerato come ci troviamo in uno dei più importanti paesi a maggioranza musulmana dell’Asia Orientale, per questo soggetto al divieto categorico del gioco d’azzardo ed ogni attività connessa alla commercializzazione delle scommesse. Ovunque, ma non qui… Campeggiano in effetti numerosi cartelli, all’ingresso degli edifici limitrofi e molti dei recessi maggiormente popolari del tentacolare resort montano, ove si riporta il divieto categorico d’ingresso ai devoti della religione islamica. Unica concessione richiesta, al famoso fondatore di questa città eminente, dall’allora Primo Ministro Malese, Tunku Abdul Rahman, nell’idea di creare un sito per questo tipo di attività indiscutibilmente haram che potesse risultare responsabile dal punto di vista della morale pubblica di quel paese. Il che ha fatto dell’altopiano di Genting da molti punti di vista una sorta d’enclave, e di colui che seppe porne le basi l’eroe di molti, anche e soprattutto considerata la sua provenienza da un contesto limitrofo, la Cina. Sto parlando dell’uomo d’affari Lim Goh Tong e la travagliata vicenda della sua complessa vita…
Il villaggio in bilico sugli argini della vecchia torbiera di Loosdrecht
Ci sono trincee in questo lago e come in altre località simili, i chiari segni di una guerra combattuta anni fa. I cui schieramenti, tuttavia, non erano entrambi umani, bensì tali da vedere la nostra specie in contrapposizione con il suo più antico rivale: la selvaggia, autonoma e incontrollabile natura. Nell’accezione di una profonda palude, dove nessuno avrebbe mai potuto coltivare alcunché né (si credeva) appoggiare le fondamenta di un qualsivoglia tipo di edificio destinato a durare mesi o anni. Ragion per cui verso l’inizio del XVI secolo, come nella restante parte dell’Olanda centro-settentrionale, si pensò di trovare un uso diverso per tale località geografica. Sto parlando l’estrazione, sistematica e continuativa del tempo, di quella sostanza spesso considerata indistinguibile dal fango, tuttavia preziosa in determinati periodi storici, almeno quanto gli altri due principali tipi di combustibile di derivazione organica, petrolio e carbone. Torba, ovviamente; niente meno che torba. Il deposito di resti vegetali all’interno di un brodo acido d’acqua e di terra, capace di ardere una volta fatta essiccare al sole, riscaldando potentemente le abitazioni disseminate attraverso un territorio in cui neve & ghiaccio, soprattutto nel corso del secolo noto come “piccola era glaciale” risultavano essere una vista tutt’altro che rara.
Perciò eccoci adesso, quasi quattro secoli dopo, dinnanzi alle cinque pozze lacustri situate grossomodo tra Amsterdam e Utrecht, note collettivamente come Loosdrechtse Plassen, dove il livello dell’acqua è salito attraverso gli anni, riempiendo progressivamente i profondi solchi scavati dagli estrattori di torba mediante l’impiego del baggerbeugel, uno speciale bastone importato in Olanda dall’Anglia Orientale nel 1530, la cui grande rete all’estremità veniva impiegata come una sorta di cucchiaio, immerso a due mani nelle oscure acque dell’antica palude. Fluido inesorabile il quale ha ricoperto ogni cosa, fatta eccezione per gli argini di ciascun fossato, sopra i quali attraverso gli anni ha continuato, quindi, a crescere la vegetazione. E non solo. Poiché se è vero che la gente dei Paesi Bassi risultava essere nota per il suo ingegno nel trovare un significato al proprio territorio fino all’ultimi giorno del Rinascimento, tanto maggiormente ciò può essere affermato per i suoi rappresentanti dell’epoca moderna & contemporanea, che proprio su queste acque hanno pensato, a partire dalla metà del ‘900, di stabilire uno dei principali resort a tema sportivo della nazione: barche a vela, canoe, moto d’acqua, eccetera. E far da contrappunto, le numerose strutture costruite sulle costole asciutte del monumentale scheletro di torba (chiamate in lingua locale legakker) spesso direttamente a strapiombo sull’acqua, quasi impossibilmente limpida e calma. Creando in svariati casi l’apparente contraddizione in termini di un uscio di casa che, invece di avere uno zerbino, si affaccia direttamente sul molo e la barca di famiglia, unico mezzo in grado di collegare gli abitanti di queste mura alla civiltà. Visioni di una verde Venezia, per certi versi, condotta fino all’estremo dell’olandese faccenda…
Dal Giappone case di polistirolo in grado di resistere a qualsiasi terremoto
Fiero edificio un tempo appartenuto a Kato Kiyomasa, signore samurai capace di trionfare sui molti campi di battaglia della sua Era, il torrione sopra il terrapieno parzialmente integro lascia l’impressione di aver visto tempi migliori. L’alto castello di Kumamoto nell’isola occidentale del Kyushu, dalle mura scure come l’orsacchiotto che oggi rappresenta l’omonima regione del Giappone, ormai sgretolate in vari punti. Le tegole non pienamente parallele, alte impalcature e per finire una svettante gru, in grado di superare in altezza la ponderosa magnificenza ereditata dai nostri tempi. Poiché nulla può resistere, come alle cannonate o i colpi di trabucco di un esercito nemico, dinnanzi all’incontenibile ferocia della Terra, quando libera d’un tratto tutta l’energia di mesi o anni di pressione, traslazione, flessione e accumulo preparatorio, verso l’inizio di un terribile jishin – 地震 dal grado 7.0, quello che all’estero chiamiamo un vero, grosso terremoto.
Eventi come il qui trascorso del 2016, capace di costare la vita a 50 persone (e l’equivalente di 7,5 miliardi di dollari di danni) anche senza uno tsunami, lasciando nel contempo un chiaro segno sulla ricca eredità culturale e il patrimonio infrastrutturale di questi luoghi: distrutto il grande ponte di Aso sul fiume Kurukawa, parte delle antiche fortificazioni, la galleria commerciale di Kengun al centro della capitale regionale e l’iconica Janes’ Residence, primo edificio in stile occidentale cronologicamente costruito nella grande città.
Ma quando ancora non si erano posate le polveri di un simile disastro, tra l’ansia e la tristezza della gente, una strana presa di coscienza prese posto prepotentemente piede tra le cognizioni collettive: che un solo luogo, nei dintorni, sembrava non aver subito nessun tipo di danno. Niente vetri rotti, mura fessurate, infissi scardinati o il benché minimo ferito, nonostante la vicinanza all’epicentro del fenomeno che aveva appena dissipato la sua forza. Tra tutte le evenienze, forse la più inaspettata? Sto parlando del famoso (oggi, più che mai) resort denominato in lingua inglese Aso Farm Land benché non abbia alcuna implicazione agricola, rappresentando piuttosto l’essenza di un resort turistico dedicato “alla salute del corpo e della mente” e costituito da niente meno che 450 casette a forma di cupola, apparentemente progettate dalla Capsule Corporation di Dragonball, ancorché i Puffi, i Flintsones o altri membri di fantasiose società alternative. Per cui l’aspetto estetico, a conti fatti, non è neanche quello maggiormente sorprendente, quando si considera quale sia il materiale di cui sono fatte: nient’altro che il candido, leggero e (convenzionalmente) friabile conglomerato di molecole semplici, spesso usato come confezione per gli elettrodomestici e il cibo. E che invece mostra, in questo luogo ben preciso prima che altrove, tutto il suo inusitato ed architettonico potenziale…