Il volo della slitta di metallo: le portaerei ricominciano da qui

Ford Carrier EMALS

Ore 1300, 17 giugno 2015: una sirena che risuona fragorosa tra gli ampi spazi del ponte di volo della nuova USS Gerald R. Ford, la più grande nave militare che abbia mai solcato i mari della Terra, varata alla fine del 2013 ma che non riceverà un suo ruolo attivo almeno fino a Febbraio del prossimo anno. È questo il segnale, tutt’altro che inatteso, per dare il via al momento culmine di una particolare cerimonia, da compiersi sotto la supervisione silenziosa del capitano, il suo entourage, uno stuolo intero di ingegneri. E soprattutto grazie a lei, la donna che questo vascello l’ha bagnato per la prima volta, supervisionando l’uso della classica quanto allegorica bottiglia di champagne. Stiamo parlando, tanto per attribuire un nome alla figura in abiti informali, di Susan Ford, l’unica donna tra i quattro figli del 38° presidente degli Stati Uniti, il cui paterno nome è stato iscritto sullo scafo della solcatrice degli oceani qui presente. E che nave: la prima di una nuova classe, destinata a rimpiazzare nel corso dei prossimi 20 anni le pur ottime, ma ormai attempate 10 consimili della storica USS Nimitz (varo: 1972) prima super-portaerei statunitense con doppio reattore nucleare A4W, fornita quindi di un’autonomia essenzialmente non condizionata dall’esaurirsi del carburante. Ma già scende il silenzio carico di aspettativa sopra questa nuova erede, mentre gli addetti spingono in posizione la vera protagonista dell’evento. Un curioso e ingombrante dispositivo rosso, dalla forma solo vagamente aerodinamica e dotato della telecamera di bordo su una gondola (estrusione di supporto) frontale, il cui peso complessivo, presumibilmente, dovrebbe assomigliare a quello di un qualche aeromobile destinato a far parte dei 75 che trasporterà la nave. Assai probabilmente un qualche modello di F/A-18, ovvero il successore del mai dimenticato F-14, la cui forma angolare, tante volte orgogliosamente messa in mostra al cinema e in tv, aveva condizionato i parametri dell’estetica automobilistica degli interi anni ’70 e ’80. Mentre adesso, nell’epoca del futuribile come ideale collettivo, ci ispiriamo direttamente al mondo della pura fantasia. Due marinai con elmetto protettivo, a questo punto, assicurano dei grossi cavi di metallo al gancio che spunta in mezzo alla rotaia, l’unica parte visibile di un nuovo meccanismo, poi si allontanano e ritornano sull’attenti. L’aria pare quasi fermarsi, mentre l’ospite d’onore alza il braccio sinistro e, in un gesto un po’ rigido, inizia a puntarlo nella direzione del decollo. Ora, naturalmente tutti noi sappiamo che gli aerei della marina in servizio attivo vengono lanciati grazie all’uso di una catapulta. Ma ciò che avviene dopo è un puro esperimento di fisica applicata…
Tra gli aspetti tecnici più problematici delle portaerei a propulsione nucleare, da sempre concepite per restare in servizio molte decadi e venire aggiornate mano a mano, ne permaneva uno dalla significativa inefficienza, eppure troppo oneroso, o complesso da sostituire: il vecchio sistema di lancio del CATOBAR (Catapult Assisted Take Off But Arrested Recovery) basato sull’impiego di pistoni a vapore. Un meccanismo potente e affidabile, ma che non aveva mai potuto disporre di alcun feedback nei controlli, agendo sempre nella sua massima potenzialità e conducendo dunque a una significativa usura delle strutture degli aerei. Ciò senza nemmeno considerare la bassa efficienza energetica del dispositivo (ovviamente un problema secondario su un vascello nucleare) stimata attorno a un miserevole 4-6%. Proprio per questo, al momento dell’ordine da 13 miliardi di dollari fatto presso i cantieri di Newport appartenenti alla Huntington Ingalls nel 2005, fu reso subito chiaro che la nuova portaerei avrebbe dovuto ricevere la prima generazione delle nuove catapulte EMALS ad elettromagnetismo (Electromagnetic Aircraft Launch System) in grado non soltanto di generare una spinta potenzialmente maggiore, ma di farlo in modo maggiormente regolare e variabile, riducendo sensibilmente la massima minima degli aeromobili lanciabili con il sistema. Ad esso si abbina un sistema di recupero aeromobili, anch’esso elettromagnetico, dalla maggiore applicabilità e delicatezza. Un aspetto molto significativo, in quest’epoca di droni sempre più leggeri.
Ma eccoci al momento della verità: lei che accentua il suo segnale poi, guardando l’ufficiale a fianco che si abassa e punta in avanti con il fare plateale tipico dei controllori di volo militari, piega le ginocchia e socchiude gli occhi, per meglio osservare il “decollo”. Quindi il blocco di metallo con le ruote che parte, a una velocità considerevole, accelera fino al ciglio del ponte di volo e decolla, sparendo lieve verso l’orizzonte, fra le nubi candide e distanti a largo della California come un agile gabbiano, SPLASH!

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Come una padella se potesse cuocere il gelato

Thai ice pan

Qual’è il segreto di quest’uomo? L’individuo che sopra un piastra getta latte e cioccolato, poi percuote il tutto con la sua paletta fino a che…L’insieme, meravigliosamente, si trasforma in una dolce e splendida frittella. Ma non pronta da staccare: perché il freddo crea tensione sulla superficie, e l’aderenza, parimenti, si sviluppa tra le cose lisce e quelle fluide, se soltanto gli dai modo. Poco importa? Questo non è affatto un male. Anzi, crea l’origine di un piatto nuovo, in cui gustosi rotolini (per citare quel binomio già sentito) provengono dalle implicazioni stesse di un simile metodo, ormai esportato ai quattro angoli del globo, ma soltanto qui espletato fino alle sue estreme conseguenze. Siamo a Ko Phi Phi Don, la più grande delle sei isole che compongono uno degli arcipelaghi più amati dai turisti della Thailandia, dove ancora una volta si sta dando adito quella pratica realizzativa parecchio invitante, del gelato un tempo detto Chǎo xuěgāo (炒雪糕) ovvero, in cinese: saltato in padella, mentre in inglese stir-fried. Un termine che nel presente caso, diversamente dall’accezione trattata sui maggiori dizionari, non sottintende nessun tipo di frittura, ma bensì l’immersione degli ingredienti in un fitto strato di brina, creata grazie all’uso dell’azoto in bombola pronto per tutte le occasioni. Una sorta di pratica della brutale evoluzione: non c’è praticamente nulla, a questo mondo, che tritato e posto assieme a un qualche tipo di cremoso impasto, raffreddato ben oltre i -100 gradi centigradi, non si trasformi in un gelato. Per citare il motto a margine di un’istituzione simile statunitense: “Se può essere frullato, noi lo rendiamo un gelato.” L’unico limite è la fantasia, nonché per inciso, le contrapposte situazioni di partenza.
È la naturale differenza, profonda come quella tra culture poste all’altro capo dell’universo dei palati, tra il cibo da passeggio e quello che invece, per sua massima natura, nasce sulla strada e lì rimane, diramandosi dai carrettini con la bombola, i furgoni, le basi mobili di scaltri operatori commerciali. Noi dello Stivale, ad esempio, che del bar abbiamo fatto una struttura portante della nostra intera società fuori le mura abitative, abbiamo questa concezione per cui la merenda o lo spuntino vengono quasi sempre consumati nello stesso luogo in cui li acquistiamo, salvo un paio di eccezioni e tutto ciò che ruota attorno ad esse: la pizza al taglio e il cono gelato. Certe particolari alternative, di contro, vedi le caldarroste o lo zucchero filato, compaiono in contesti situazionali assai specifici, sempre più rari. Mentre basta rivolgere lo sguardo verso Oriente, per scrutare un mondo in cui qualsiasi viale, vicolo e/o piazzola, vengono percorsi dalla gente con le mani piene, di ogni sorta di delizia, di frittelle o dolci e patatine, alimenti stravaganti o piccole dolcezze della tradizione. Ce n’è letteralmente un po’ per tutti i gusti e le stagioni. Perché ovviamente, come in tutte le questioni alimentari, nulla ha un effetto maggiore sopra l’appetito che il variare da un estremo all’altro della temperatura ambientale, che in alternativa può concedere un sollievo che trascende la comune sazietà, estendendosi alla regolazione del calore nell’esofago, che pur stando in ombra, è collegato a tutto il resto. E chiede sempre gran soddisfazione, però come si dice, pure l’occhio vuole la sua parte e…

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I corrieri di Varsavia con il sangue freddo e i cuori nel bauletto

Motorcycle Warsaw

Un uomo cade a terra nell’ora di punta in mezzo alla città, in quanti si fermano a guardare? Quindici curiosi, dieci perché sono impressionati, cinque tentano di offrire il loro aiuto. Fra tutti quanti un paio, grosso modo, impugnano il telefono e compongono i tre numeri del Pronto Intervento. Si fa ancora in tempo per salvarlo…Forse, se la Luna ed i pianeti avranno il giusto allineamento. La prima variabile è la causa: attacco di cuore? Emorragia cerebrale? Magari solo un calo degli zuccheri. Ciò che conta, ad ogni modo, è giungere sul luogo in tempo per capirlo e in caso offrirgli un qualche tipo di assistenza. Il che non sarebbe un problema, in un mondo ideale. Se bastasse la sirena per far smuovere i palazzi, se nessuna auto si trovasse in mezzo a quelle strade da percorrere in velocità. Qualora l’ambulanza, guadagnadosi un bel paio d’ali, avesse il modo di fluttuare lievemente fino all’obiettivo. Tuttavia non sempre un elicottero è a disposizione, né risulta possibile farlo giungere in velocità. E un furgone carico di paramedici, per quanto agile e veloce, dovrà pur sempre arrendersi a determinate scomode evidenze: che le quattro ruote presuppongono una massa, una larghezza, e che l’insieme dell’una e l’altra qualità impedisce di filtrare fino all’obiettivo, fluidamente, in mezzo al traffico delle spietate circostanze. Un serio problema, a meno che…Fra tutte le costellazioni che risplendono sul caso e la fatalità, giungesse a palesarsi quella del Centaurus, resa manifesta al mondo fisico nei gesti e nelle doti di un particolare fornitore di soccorsi: il pilota quotidiano di una delle sette Yamaha XT660Z Tenere, gestite dalla fondazione polacca non a scopo di lucro Jednym Sladem (Una Sola Strada) fondata nel 2009 da Christopher Rzepecki, con lo scopo di promuovere la reputazione dei motociclisti, nonché far cambiare in meglio la legislazione nazionale in materia di sicurezza stradale. Ma che soprattutto, a partire dall’anno scorso, ha iniziato a salvare attivamente la vita della gente, grazie alle gesta degli spericolati volontari partecipanti al progetto MotoAmbulans, che in caso di necessità disegnano un linea di fuoco da un punto Y della città fino all’X che segna il rischioso imprevisto, l’incidente, l’individuo di cui sopra, troppo prossimo a lasciare questo mondo. E niente affatto strano a dirsi, c’è davvero molto che possa fare anche un singolo operatore armato di un kit medico e un defibrillatore automatico Philips FRx AED, soprattutto se può comparire come per magia, oltre i limiti di ciò che sarebbe lecito e ragionevole aspettarsi da un “comune” paramedico. Senza affatto sminuire quest’ultimo, che magari ha un’esperienza persino superiore in materia di prime cure, ma difficilmente nasce in ambito professionale come un grande appassionato di velocità, disposto a superare il rosso del semaforo frenando in modo poco più che simbolico. Operazione al limite del responsabile, questa, che viene mostrata più volte nella ripresa dell’intervento di uno dei loro mezzi nel quartiere di Saska Kepa di Varsavia, con lo scopo preciso, nel presente caso, di portare a destinazione del non meglio definito “materiale medico”.
E visto il ritmo della corsa, non ci sono molti dubbi su ciò di cui stiamo parlando: l’abile pilota in questione si sta prodigando a margine di una qualche operazione estremamente delicata, trasportando fino a destinazione presso un ospedale, assai probabilmente, un organo o del sangue.  Ed è una lunga serie di difficoltà ed ostacoli, quella che si trova ad affrontare presso questa zona ad est del fiume Vistola, dove venivano stazionate le guardie sassoni dei re di Polonia fino al diciottesimo secolo, un luogo caratterizzato da strade relativamente ampie, ma pur sempre insufficinti ad ospitare il traffico di una moderna metropoli da quasi due milioni di abitanti. Finché ad un certo punto, per giungere a destinazione in tempo utile, non gli resta che spostarsi nello spazio dedicato alle rotaie del tram, la cui presenza rischia di conoscere davvero da vicino, quando ne sfiora le fiancate una, due, tre volte con i gomiti, gli specchietti e tutto il resto.

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Lo strano fascino del polpo a ombrello

Octopus Adorabilis

È una vecchia regola non scritta del mondo della scienza il fatto che chiunque descriva per primo/a, in una sua pubblicazione, le caratteristiche di una specie animale o vegetale, riceva l’indubbio onore di scegliere il suo appellativo. Così abbiamo, fin dall’inizio dall’epoca delle prime sperimentazioni, curiose creature con il nome proprio di persone (quale miglior modo di aspirare all’immortalità?) Piuttosto che lievi variazioni lessicali dei termini precedentemente usati per i parenti biologici più prossimi, perché non tutti hanno una grande fantasia, né voglia di mettersi in mostra per il proprio gusto personale. Ma l’approccio più accattivante usato per denominare una creatura, indubbiamente, resta quello che consiste nel cristallizzare l’emozione provata nel momento in cui l’esponente della comunità scientifica se l’è trovata innanzi per la prima volta: così nascono binomi quali “il geco diabolico”, “la scimmia ragno” oppure “la farfalla illusoria” che generalmente riescono a colpire subito la fantasia dell’uomo della strada. E forse proprio a margine di tale considerazione, tanto maggiormente rilevante in quest’epoca di comunicazioni digitali, la scienziata Stephanie Bush, ha deciso di associare la sua occupazione principale di ricerca in questi ultimi mesi a un concetto talmente semplice e diretto che, in effetti, a molti sarebbe sembrato buffo nella sua spontaneità. Così giunge, per la prima volta sotto i nostri occhi, la forma fluttuante dell’Opisthoteuthis Adorabilis, leggera variazione di una vecchia conoscenza di molti pescatori della California, che spesso di simili polipetti a ombrello ne trovavano qualcuno casualmente nelle reti. “Non è adorabile?” Scherza lei, tra un segmento e l’altro del video, mentre mostra l’esemplare sezionato sotto formalina. Si, davvero l’opera dello scienziato si perpetra tramite sentieri differenti. E ciò che per qualcuno appare degno di un’occhiata o poco più, all’interno dei laboratori può essere mostrato al mondo in luce nuova.
Stiamo parlando, per intenderci, di un vicino parente del cosiddetto flapjack devilfish, una creatura della foce del Columbia River talmente bizzarra, nonché invendibile per scopi alimentari nella sua piccolezza (misura circa 20 cm) che colloquialmente era stata sempre associata all’arbitraria categoria dei cosiddetti “pesci del diavolo” concettualmente associata a certe specie di razze, polpi, rane pescatrici e addirittura la balena grigia dai fanoni, astuta filtratrice di Km di plankton galleggiante. Non chiedetemi perché! Mentre la dicitura flapjack proveninva, nel suo caso, da un termine gergale usato per riferirsi al semplicissimo pancake, il dolce statunitense simile a una crepe che tante volte abbiamo visto nelle sit-com degli anni ’90, accompagnato da una generosa dose di sciroppo d’acero d’importazione canadese. Questo perché la delicata creaturina in questione, una volta trascinata a forza via dal fondale, generalmente giungeva in superficie già defunta, spianata come una frittella, striata dai segni della rete e con gli occhi sporgenti, simili ad antenne degli alieni dei pulp magazine. Soltanto in tempi recenti, con il miglioramento e la diffusione delle tecniche legate all’immersione individuale, assieme al fortunato caso di esponenti del Genere che si spingessero in relativa prossimità della riva continentale dai 300 e passa metri sotto la superficie del loro habitat naturale, sono iniziati degli avvistamenti che ci hanno fatto conoscere il vero, grazioso aspetto di queste creature. Così, in modo graduale, hanno iniziato a sovrapporsi i soprannomi: dal polpo di Pac-Man, per la sua vaga somiglianza con i fantasmini del gioco in questione, a “Dumbo” visto l’aspetto delle sue due vistose pinne sopra il pallio (corpo principale) collocate giusto dietro agli occhi, così apparentemente simili ad orecchie da cartone animato. Che per di più, durante gli spostamenti, vengono agitate dall’animale, per bilanciarsi e dirigere la spinta offerta dalla sua membrana principale, in un moto non dissimile da quello di una medusa, con due piccole bandiere sulla testa. Adorabilis, nevvero?

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