Pensionato cinese costruisce in 20 anni il castello della Creazione

È stato affermato, da generazione di filosofi, studiosi e scienziati, che i Tre Esseri Pellucidi (ovvero semi-trasparenti) della somma Trinità taoista siano del tutto privi di forma, e quindi impossibili da identificare. Ma nessun tabù, attraverso la storia della Cina, è mai stato emanato in merito alla creazione di un loro ritratto. Yuanshi, l’Immortale di Giada; Lingbao, l’Universalmente Onorato tra tutte le divinità e i tesori; Daode, Somma Purezza, personificazione trascendente del più saggio tra gli umani (Laozi): secondo la reiterata opinione degli antichi popoli, tre distinti uomini di mezza età, di cui soltanto il terzo sufficientemente anziano da possedere quel segno di suprema sapienza, una lunga barba bianca appuntita nello stile di Gandalf o mago Merlino. Ma nel corso delle generazioni, a seconda delle necessità delle alterne dinastie, essi hanno acquisito molti altri aspetti: quelli di guerrieri, imperatori celesti, condottieri dei popoli e sommi amministratori. O per Song Peilun, il visionario possessore di un ampio appezzamento di terra nella verdeggiante valle di Yelang, nella regione meridionale cinese di Guizhou, gigantesche teste di pietra, con lo sguardo fisso verso l’orizzonte. Che cosa staranno scrutando, i loro occhi granitici, sostenuti da vertiginose cataste di blocchi tenuti assieme dal solido cemento? E che dire degli altri infiniti Dei e Spiriti eretti per fargli compagnia…. Sarebbe in effetti scusato, il visitatore esterno di questi luoghi, se dovesse credere momentaneamente di essere stato trasportato in un altro regno o paese, tra i ponderosi resti di un’antica civiltà costruttrice di monumenti di tipo religioso, vedi i Maya, gli Incas o il popolo degli Khmer. Ma non c’è niente di realmente antico, negli straordinari bastioni ornati da statue di questo castello, costruito dalle maestranze locali sotto la guida, non sempre così stringente, di questo personaggio decisamente fuori dal comune. Eppure nessuno potrebbe affermare che manchi di quella preziosa scintilla, un remoto grado di autenticità.
Si racconta che l’origine dell’idea sia venuta, a costui, durante un viaggio negli Stati Uniti effettuato in giovinezza, durante il quale ebbe l’occasione di vedere coi propri occhi la statua incompleta di Cavallo Pazzo nel Sud Dakota, il progetto iniziato negli anni ’40 dallo scultore Korczak Ziolkowski per emulare i quattro volti presidenziali del celebre e non troppo distante Monte Rushmore. Un monumento tanto affascinante, ai suoi occhi, da portarlo a chiedersi se non fosse possibile onorare in maniera simile le antiche etnie del suo distante paese. E in particolare il popolo spesso bistrattato dei Tujia, dal quale aveva sempre ritenuto discendere se stesso e il resto della sua famiglia, originaria della Cina centro-meridionale. Fu così che, esattamente al culmine di una lunga carriera di docente universitario e designer, decise di andare in pensione, abbandonando per sempre quella vita urbana che aveva sempre trovato scomoda e inadatta a lui, per andare a vivere tra le montagne come fatto dai suoi antenati e mitici ispiratori: quegli eremiti taoisti totalmente slegati dal concetto di razionalità, che danzando sulla cima dei picchi montani, elaboravano a giorni alterni le più supreme ed eterne verità. E tutto questo, attraverso il tramite di una dottrina, o per meglio dire una religione, ormai relegata in molti luoghi ai libri di storia e le antologie folkloristiche compilate dagli studiosi: il culto del Nuoismo, spesso associato all’esorcismo degli spiriti malvagi che infestano questo mondo. Secondo cui, all’origine di ogni umano su questo pianeta, esistevano due capostipiti, Nuogong e Nuopo (Lord e lady Nuoh) prima che incolpati ingiustamente dall’Imperatore del Cosmo di una immaginaria trasgressione, venissero decapitati, sacrificandosi per permettere alla loro discendenza di sopravvivere e prosperare. Discendenza tra cui figuravano i già citati Tre Esseri, ma anche gli dei patroni del Cielo (Fuxi, il primo cacciatore ed addomesticatore di animali) della Terra (Nuwa, la donna serpente della creazione) e dell’umanità (Shennong, inventore della medicina) per non parlare delle cinque Direzioni Cardinali, associate ad altrettanti colori, e il Dio che Risiede sul Trono, ovvero di volta in volta, la somma figura politica del territorio cinese. E costoro figurano tutti, in una forma o nell’altra, tra gli altri bastioni di questo tentacolare edificio, il misterioso castello nella valle di Song Peilun…

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Il difficile destino del castello di Sammezzano

“L’Italia è in mano a ladri, esattori, meretrici e sensali che la controllano e la divorano. Ma non di questo mi dolgo, bensì del fatto che ce lo siamo meritato.” Se voi sentiste il bisogno di trasmettere ai posteri un simile messaggio, dove lo scrivereste? All’interno di un libro, magari. Ma i testi di argomento politico tendono ad essere letti solamente da chi già la pensa a quel modo. Nel mondo moderno, forse, qualcuno affitterebbe uno spazio pubblicitario, su Internet o un semplice cartellone, affinché gli effettivi protagonisti di una simile affermazione, volenti o nolenti, vengano a patti con la sua esistenza. E poiché la pubblicità è forte, ma effimera, un simile gesto diventerebbe l’argomento della giornata. Prima di svanire come neve, al verificarsi di un successivo scandalo sotto al Sole. No, probabilmente, l’unico modo certo per assicurarsi che resti è scriverlo in modo indelebile sopra un muro. Ricoprendo col proprio astio una struttura che appaia, agli occhi di chi dovesse passare in futuro di lì, eterna e immutabile, persino degna di rappresentare un’Era. Così Ferdinando Panciatichi Ximenes d’Aragona, fiorentino e uomo del Risorgimento, figura politica, scienziato, botanico, imprenditore e bibliofilo (non laureato) scelse nel 1853 di farselo costruire, questo muro. Ed attorno ad esso uno stretto corridoio decorato con stalattiti. Con all’estremità, una vasta sala da ballo bianca circondata da 24 colonne con capitelli, il soffitto decorato da un centinaio di fregi astrali e il pavimento in grado di far zampillare l’acqua, se necessario. E tutto attorno a questo, un’intero castello in stile marcatamente orientalista, di cui l’intero paese non avesse mai visto l’eguale. Certo, per quanto fosse un uomo che era giunto ad odiare i suoi contemporanei ed il proprio difficile lavoro presso la Camera dei Deputati, nella Firenze capitale di Marco Minghetti, uomo di destra ed opposto a lui politicamente, sarebbe riduttivo limitare l’opera della sua vita al semplice veicolo di un singolo velenoso messaggio. Eppure tutto, nella vasta struttura del Castello di Sammezzano, sembra in qualche modo parteciparvi: la scelta di andare a vivere in quella che era e in parte resta aperta campagna, presso la frazione Leccio del comune di Reggello. Che differenza, con la posizione privilegiata del palazzo di Borgo Pinti a Firenze, angolo con Via Giusti, dal quale non era possibile uscire senza incontrare proprio coloro di cui Panciatichi aveva una tale risibile opinione! E poi, c’è la già accennata questione dello stile scelto per rinnovare l’antica residenza, proprietà della famiglia Ximenes d’Aragona dal 1605, nella quale lui era entrato tramite il matrimonio, e in cui ogni singola pietra, ogni anfratto o decorazione, sarebbero ben presto diventati un metodo per evocare il luogo geografico più distante che gli riuscisse d’immaginare: la terra d’Oriente, o forse sarebbe più giusto dire, l’evanescente paese creato dallo spettro di un sogno, trasformato in materia tangibile e apparente.
Il castello di Sammezzano viene generalmente descritto come un esempio di architettura moresca italiana, benché le influenze siano in realtà ancor più eclettiche e varie. il committente che in larga parte, fu anche progettista, lo fece in effetti disseminare d’influenze indiane, persiane e persino dell’Asia orientale, includendo per buona misura nel processo di rifinitura una vasta serie d’epigrafi in latino. Qualcuno, inoltre, ha ipotizzato un’attenzione riservata all’inclusione di simboli e proporzioni massoniche, come la ricorrenza della forma geometrica del triangolo perfetto, anche se, per lo meno ufficialmente, lui non entro mai a far parte di tale confraternita. Né viaggiò mai, e forse proprio questo è l’aspetto più interessante, nell’Oriente che tanto amava. Che aveva avuto modo di conoscere, piuttosto, attraverso i libri che amava e le sue visite ai principali musei d’Europa, nonché un occhio della mente straordinariamente sviluppato. Mentre coloro che incaricò di ricostruirlo per il suo maggior piacere, incredibile a dirsi, erano tutte maestranze di provenienza locale. Personalmente istruite sui metodi e la ricerca estetica dei loro colleghi dell’altra parte del mondo, da un uomo che certamente non doveva essere privo di un certo grado di carisma, ma soprattutto, disponeva di pecunia pressoché illimitata. Così prese forma, in questo luogo che era appartenuto in precedenza agli Altoviti e poi ai Medici, ma che ancor prima, secondo alcune versioni, era stato visitato addirittura da Carlo Magno in epoca medioevale, la visione di un mondo nuovo, il Prodotto della sua fantasia. L’edificio fu ricostruito come una sorta d’esperienza sensoriale, a partire dalla doppia scalinata ritorta, sotto la torre dell’orologio, che conduceva nel’appariscente foyer. All’interno del quale, tra stucchi e decorazioni di gesso straordinariamente variopinte, campeggiava la scritta di tutt’altra modestia NON PLUS ULTRA, incorniciata da greche e figurazioni geometriche di vario tipo. Per poi proseguire, avanzando di qualche passo, nella sala cosiddetta delle stelle, ispirata alla Spagna meridionale, dove un complesso sistema di oculi (finestrelle circolari) proiettavano giochi di luce tra colonne e candidi rosoni vagamente arabeschi e la scritta in bassorilievo NOS CONTRA TODOS e TODOS CONTRA NOS, anch’essa in grado di cambiare d’aspetto a seconda dell’ora della giornata. Ma le meraviglie del castello, ovviamente, non finivano qui…

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L’antica arte del nuoto samurai

Le acque del fiume Toyo erano ancora influenzate dal gelo notturno, mentre colui che le aveva sfidate nuotava silenziosamente mediante l’impiego di soli tre arti, con il braccio destro riservato tenere la spada al di sopra della testa. Alcune sagome dotate di lancia si stagliavano contro la luce tenue, al di sopra degli argini distanti. Torii Suneemon sapeva bene che una volta riusciti ad entrare nel castello di Nagashino, i Takeda avrebbero ucciso il suo signore, la sua famiglia e i suoi commilitoni, fino all’ultimo guerriero del clan Okudaira senza la benché minima esitazione. E immaginava fin troppo bene che cosa gli sarebbe successo, se l’avessero scoperto: “Nessuna pietà per i traditori” questo avrebbe enunciato Katsuyori, sotto molti punti di vista il degno figlio di suo padre, l’invincibile tigre Takeda Shingen. Ma il mandante di questa missione, Okudaira Nobumasa, evidentemente, non l’aveva vista a tal modo, quando alla morte della belva del Kai in circostanze sospette per il colpo di un cecchino di questo 1575 di sangue, aveva gettato gli stendardi nel fango, inviato alcuni messaggeri (al tempo non serviva altro) ed issato sopra i bastioni del suo seggio fortificato il triplo petalo di malvone del feudo di Mikawa, passando al servizio dei Tokugawa, e per loro tramite, del sovrano dei demoni Oda Nobunaga. Un uomo ammantato d’ombra, capace di uccidere persino coloro che avevano dedicato la loro vita alla venerazione del Buddha sopra le montagne ai confini del mondo. Ma cosa avrebbe mai potuto fare, un semplice ashigaru (servitore ausiliario) nelle vaste schiere di un daymio minore? Torii aveva dunque chinato il capo, e di nuovo messo la propria fiducia al servizio del Suo volere. Ma adesso, era giunta l’ora della fine. “Ciò che facciamo, riecheggia nell’eternità” Avrebbe detto qualcuno di lì ad un paio di decenni, Yamamoto Tsunetomo nel suo Hagakure, il testo sacro dei samurai. “Percorrere la via della spada significa scegliere sempre, tra la vita e la morte, la morte. Nient’altro è possibile.” E pur non avendo ancora sentito simili parole Torii aveva risposto, per primo, alla chiamata per la missione suicida: violare l’assedio dei rossi Takeda, al fine raggiungere gli Oda e i Tokugawa e avvisarli del pericolo corso dal castello di Nagashino. Se tutto fosse andato nel modo migliore, a quel punto le schiere del più crudele signore della guerra nella storia del Giappone avrebbero sorpreso alle spalle la cavalleria dei magnifici 24 generali dalla folta chioma, mentre si preparavano all’ultimo assalto, sterminandoli fino all’ultimo uomo! O almeno, c’era questa remota possibilità. Avendo cura di continuare a scrutare regolarmente il movimento dei soldati nemici, Torii Suneemon rallentò momentaneamente, per togliersi i capelli da davanti agli occhi. Mentre agitava le gambe in un moto simile a quello di un mulinello, la sua testa era perfettamente stabile. La presa sulla spada, più salda che mai. Se fosse stato necessario, avrebbe combattuto strenuamente prima di essere ucciso. Questa era la via del vero guerriero, che avesse del sangue nobile, oppure venisse dalla coltivazione dei campi o le barche dei pescatori, che fosse un apicoltore o il capo di una risaia. Proprio questo, lo distingueva dagli artigiani e i mercanti, orpello inutile delle città.
L’impresa semi-leggendaria del guerriero degli Okudaira, più volte rappresentata nell’arte, nel teatro e in innumerevoli drammi televisivi in costume, fu soltanto possibile perché il nuoto, a quell’epoca, era uno dei fondamenti stessi della tecnica e delle discipline guerriere. Lo era stato per molti secoli, da quando le forze dei Minamoto avevano trionfato a Dannoura nel 1185, con la più grande vittoria navale mai conosciuta dagli storici giapponesi, condannando gli odiati Taira ad affogare nelle acque della baia di Shimonoseki, dove si diceva che fossero stati trasformati per volere degli dei in granchi. Il castello di Nagashino sorgeva infatti alla convergenza tra due fiumi, il Taki e l’Ono, che si univano a ponente formando il vorticoso corso del Toyo. Questo tipo di ricerca paesaggistica non era rara nella costruzione delle fortificazioni dell’epoca Sengoku, che tendevano a sfruttare l’acqua per proteggere i lati più esposti o limitare l’investimento necessario a costruire il terrapieno principale, su cui erigere le mura costellate di feritoie. Proprio per questo il Suijutsu (水術 letteralmente: tecnica del nuoto) era fiorito attraverso la tipica pletora di scuole e interpretazioni, che si affollavano nel proporre la soluzione ideale all’attraversare un corso d’acqua a cavallo, in armatura o con l’intera attrezzatura di un guerriero che si preparava all’assalto. Che includeva, naturalmente, il vestiario da guerra: un insieme di ferro, stoffa e bambù, che poteva talvolta superare il peso di 30 Kg armi escluse, tanto inferiore a quello di un’armatura a piastre europee. Eppure, gettate un cavaliere del nostro Medioevo in un fiume, sono poche le probabilità che quello riesca a raggiungere l’altra sponda. Questo vuole lo stereotipo e certamente, così deve essere stato. Qual’era, dunque, la differenza? Una, soprattutto: che il Giappone era sempre stato, e per sempre sarà, un insieme di isole, permeato e separato dalle acque del mare, nonché caratterizzato da un profilo idrografico particolarmente complesso ed interessante. Non era perciò assolutamente possibile pensare di montare una campagna bellica senza fare nuotare, prima o poi, i propri soldati…

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Dietro il forte più famoso dei mari europei

Saldamente impresso nella memoria dei bambini degli anni ’90, quando ancora la Tv francese veniva trasmessa in chiaro fino alla nostra penisola del Mediterraneo, l’imprendibile fortino ha una forma perfettamente riconoscibile. Tondeggiante, compatto, con innumerevoli feritoie da ciascuna delle quali, un tempo, sarebbero emersi altrettanti cannoni. Ma basta gettare uno sguardo sulle foto satellitari di Google Maps, per scoprire come oltre 20 anni di inquadrature, in effetti, non tendessero mai a mostrare l’intera storia della faccenda. Perché dietro la costruzione a pianta ovale come una sorta di piccolo Circo Massimo, se vista da terra, ovvero sul lato ovest, c’è una struttura vistosamente quadrata, usata dalla produzione per approdare in sicurezza, portare i macchinari e il materiale necessari a realizzare quello che potrebbe essere descritto come il primo dei reality show. Stiamo parlando in parole povere di un jackup, la prima e più semplice delle piattaforme marittime, un tempo impiegata per l’estrazione delle risorse energetiche del mare: nient’altro che uno scafo con quattro zampe estensibili, che possono essere posizionate saldamente sul vicino oppure distante fondale. E quindi regolate, affinché la sovrastruttura del battello possa essere elevata a piacimento in base alle necessità, come quella di raggiungere, per l’appunto, un punto d’approdo concepito per l’impiego di antichi e possenti galeoni. E non è certo questo l’unico segreto ignoto al senso comune, tra i molti associati al possente Fort [de] Boyard…
È una problematica realtà sempre presente nella mente di un buon generale, il fatto che la costruzione di un arsenale rappresenti una risorsa bellica di primaria importanza, ma anche un punto debole per il paese che dovrà sfruttarne le risorse in battaglia. Così ogni deposito bellico della storia di Francia, e soprattutto così quello di Rochefort, il principale punto di riarmo, protezione e rifugio per l’intera flotta dei mari occidentali, dall’epoca del Re Sole fino alla sua chiusura nei tempi moderni, quasi tre secoli dopo nel 1926. Un luogo apparentemente arbitrario sulla costa dell’Atlantico, nella regione della Nuova Aquitania, fra le città di La Rochelle e Royan. Ma che costituiva, fin da principio, la base di un piano che l’avrebbe reso del tutto inaccessibile agli eterni nemici inglesi, a patto che il principale sogno architettonico dell’epoca potesse finalmente realizzarsi, grazie alla collaborazione di due grandi ingegneri, Benjamin Descombes e Sébastien Le Prestre de Vauban. Già rinomato progettista di resistenti fortificazioni marittime, il primo, e la singola più importante figura tecnica alla corte di Francia, il secondo, inventore tra le altre cose del concetto stesso di assedio scientifico, e delle sole fortificazioni “alla moderna” che potessero sperare di resistergli per la maggiore gloria del Re. L’idea dunque prevedeva la costruzione di due forti con batterie di cannoni, sulle isole d’Aix e d’Oléron, dinnanzi al punto d’approdo, se non che, col procedere dei lavori, fu d’un tratto segnalato un fondamentale problema: il tratto di 5 Km tra l’una e l’altra era sufficientemente largo perché un’intera flottiglia britannica, assumendo una formazione in colonna, potesse passare indisturbata e raggiungere l’arsenale di Rochefort. E la fortunata conformazione geografica di questo luogo sarebbe risultata del tutto inutile, agli occhi di ogni parte coinvolta, se non fosse stato per la trovata ingegnosa dello stesso Descombes: sfruttare una secca presente nel fondale tra le due terre emerse, nota ai naviganti col nome di loin Boyard, per costruire le fondamenta del singolo forte più incredibile che il mondo avesse mai visto. Un castello essenziale, come la torretta di un gigantesco sommergibile, che gettasse la sua ombra sul mare. Se non che il grande Vauban, a questo punto, espresse la sua opinione, facilmente riassumibile con la citazione diretta: “Sire, sarebbe più facile afferrare la Luna coi denti che costruire in un tale luogo…” Troppo friabile risultava essere, a suo parere, il terreno sottostante, e un’impresa al inumana trasportare i materiali fino alla loro ultima destinazione. Era semplicemente impossibile che nell’attuale ordine delle cose, costruito sulla suprema ragionevolezza e la fiducia del re nei confronti dei suoi nobili consiglieri, si potesse approdare all’effettiva messa in opera di un simile, illogica meraviglia. Il progetto, nonostante le premesse, venne dunque dolorosamente abbandonato.

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