La storia sconosciuta della grande muraglia indiana

Questa è guerra. Il chiaro segno di un conflitto, impresso nel paesaggio rurale del nord dell’India non come una cicatrice, bensì la testimonianza a rilievo, costruita nella pietra e con dispendio significativo d’impegno, manodopera e potere, di un intento profondo e irrinunciabile: preservare la propria religione, cultura e società. Un’impresa, se vogliamo, straordinariamente difficile verso la metà del XV secolo tra i confini geografici di quella che oggi siamo soliti chiamare, semplicemente, la regione del Mewar. Ma che allora costituiva, sopra ogni altra cosa, il regno tutt’altro che inviolabile del vecchio clan Sisodia dei Rajput, a maggioranza Giainista con significative fasce di popolazione ancora devota al culto degli dei Indù, proprio là, dove ogni zona limitrofa vedeva l’alterno predominio dei sovrani che, di lì ad un secolo, si sarebbero riuniti nel sempre più vasto impero dei Moghul. Uno stato, questo, di conflitto stabile e duraturo nel tempo, come quello capace di condurre alla costruzione di grandissime muraglie nella storia dell’umanità. E di certo non sarebbe poi così tremendamente azzardato, un paragone trasversale tra il grande imperatore e unificatore della Cina Huangdi, costruttore tra le altre cose dell’esercito di terracotta, e Kumbhakarna (regno: 1433-1468 d.C.) colui che assunse il titolo informale di paladino, contro il dilagante potere del sultanato della città di Delhi in questo particolare risvolto storico del subcontinente d’Oriente. Entrambi personaggi capaci di riunire dinastie sconvolte dalle lotte interne, amanti delle arti e della filosofia, capi guerrieri di potenti eserciti. E inoltre, costruttori di un agglomerato di mattoni capace di serpeggiare tra gli erbosi colli, agendo al tempo stesso come strada di collegamento e baluardo per l’avanzata nemica. Utile non tanto a mantenere fuori lo straniero. Quanto a scagliare verso le sue armate un nugolo di frecce, giavellotti e pietre, come sarebbe puntualmente capitato più e più volte, nell’immediato periodo successivo alla costruzione del Kumbhalgarh (trad. Forte di Kumbha).
Affermare che la storia di un personaggio storico tanto fondamentale per il Mewar possa essere dedotta da quella del suo principale castello sarebbe certamente riduttivo, eppure è indubbio che, a suo modo, il complesso costituisca un contributo emblematico al patrimonio archeologico dell’intero paese. Sia per lo svettante edificio principale costruito sulla cima di un colle, arricchito ed ingrandito svariate volte nel corso dei secoli a venire dalle successive generazioni dei Rajput Sisodia, che per l’impressionante cinta muraria che si estende a partire dal suo perimetro, lungo 38 Km ed alto tra i 4 e 14  metri a seconda del punto considerato, e sufficientemente spesso affinché secondo le cronache, otto cavalieri potessero galopparvi l’uno a fianco all’altro, senza nessun rischio di cadere giù nel precipizio antistante. L’effettiva funzione di una simile opera ciclopica, ovvero proteggere i luoghi di culto sanzionati dal potere dinastico, non potrebbe quindi essere resa maggiormente chiara che dalla presenza di ben 360 templi all’interno del suo perimetro, quasi tutti dedicati all’antica dottrina Giainista indiana. Come per gli altri cinque forti di collina del Rajastan, iscritti collettivamente alla lista dei patrimoni dell’umanità tenuta dall’UNESCO, non fu tuttavia sempre così. Basta infatti un mero intento di approfondimento, per venire a conoscenza di come la prima forma di una simile fortezza, definita all’epoca Machhindrapur, risalga almeno all’epoca del tardo impero dei Maurya (321-187 a.C.) come narrato nei testi e nei poemi epici del credo Indù, per poi assumere di nuovo un ruolo difensivo al tentativo d’invasione del sultano Alauddin Khalji durante buona parte del XIV nei confronti del regno di Chittaur. L’importanza strategica di un tale luogo, d’altra parte, è palese sotto gli occhi di tutti: stiamo parlando dell’unico colle di un ampio territorio pianeggiante, lontano da altri grandi centri abitati ma non dal fiume Banas, potenziale fonte d’acqua necessaria a resistere a lunghi e spietati assedi. Un’impresa che sarebbe riuscita più volte a Kumbha e i suoi generali a partire dal 1457 nei confronti dello Shah Ahmed I del Gujarat prima e l’anno successivo, dei guerrieri del terzo imperatore dei Moghul, Akbar I. Tanto che nel giro di poco tempo, iniziò a circolare la voce che il castello fosse protetto dalla dea Ban Mata in persona, sacra protettrice del Mewar. Ma neppure devastare i suoi templi, e perseguitare ogni qualvolta fosse possibile i sacerdoti devoti all’antico culto, avrebbe mai concesso la vittoria ai molti nemici della dinastia dei governanti del clan Sisodia. Soltanto l’uso di una tecnica disonorevole come il veleno avrebbe, un giorno ancora lontano, permesso di conseguire una vittoria di breve durata….

Quando si affronta il tema di un antico castello, si può sempre fare affidamento sulle riprese aeree di un utilissimo drone. Ah, se soltanto i generali di allora avessero potuto disporre dell’arma, spesso risolutiva, dell’odierna tecnologia audiovisiva!

Stabile e indistruttibile, costruito in pietra solida destinata a sorpassare le generazioni. Il castello del Kumbhalgarh propriamente detto, secondo più grande del Mewar dopo quello di Chittorgarh (naturalmente, escluse le mura esterne) era protetto da una serie di sette portoni fortificati, noti rispettivamente come Arait Pol, Hanuman Pol, Ram Pol, Bhairon Pol, Nimboo Pol, Paghara Pol e Danibatta. Tra quelli principali, ciascuno traeva il nome dal tempio più vicino o una particolare vicenda storica, come nel caso della Porta della Sventura, dedicata all’unica invasione riuscita del forte, risalente al 1567. L’alto edificio sulla sommità del colle, coronato da una coppia di cupole geometricamente perfette, fu costruito dal dinasta Rana Fateh Singh che governò la regione tra il 1885 e il 1930. Il suo nome è Badal Mahal (palazzo delle nuvole) ed all’interno si trovano importanti dipinti del XIX secolo assieme ad altre testimonianze della presenza di una corte indiana, come i paraventi jaali usati per permettere alle donne di partecipare alle occasioni sociali senza esporsi direttamente. Secondo le cronache, gli abitanti di questo luogo erano soliti bruciare fino a 50 Kg di ghee e 100 Kg di cotone ogni giorno all’interno di enormi lampade, soltanto per permettere ai contadini del terreno sottostante di continuare a lavorare fino a tarda sera.
Era il 1567 quando colui che governava allora nel forte, il grande guerriero e conquistatore delle armate Moghul, Maharana Pratap, che famosamente era nato proprio tra queste alte mura, si trovo a gestire una difficile situazione: le armate che per l’ennesima volta si trovavano alle sue porte erano riuscite, attraverso un fortunato stratagemma, ad avvelenare il corso del fiume Banas. Ora l’acqua, per qualsiasi struttura fortificata, è un bene di primaria importanza al punto che nei forti di collina del Mewar il serbatoio principale costituiva molto spesso un elemento architettonico di primaria importanza. Fatto sta che abbandonato il luogo dei suoi antenati, Pratap riuscì cionondimeno a sconfiggere i suoi nemici, ritornando a governarlo nel giro di una sola giornata. Successivamente a questo evento, lo storico Onkar Rathor avrebbe detto: “Bisognerebbe essere una mosca, per pensare di riuscire a sconfiggere le difese del Kumbhalgarh.” Non per niente, secondo una leggenda, queste stesse mura furono edificate soltanto successivamente ad un sacrificio umano, concesso agli antichi Dei affinché nessuno, mai, potesse aspirare a scardinarle dalla sommità del dirupo.
La leggenda di Kumbha, il primo costruttore della muraglia, avrebbe quindi attraversato le generazioni. Vittorioso più e più volte, egli avrebbe edificato monumenti, città, luoghi di culto. Riuscendo, con pugno di ferro e saggezza, a mantenere unito un regno precedentemente composto da identità dinastiche e tribù molto diverse tra loro. Almeno, fino al giorno della sua morte, causata da niente meno che il patricidio ad opera di suo figlio, Udaysimha. Quello che neppure gli eserciti della maggiore potenza islamica della sua epoca erano riusciti a fare, riuscì quindi per un mero tradimento del suo stesso sangue. In un trionfo che sarebbe stato, incredibilmente, di brevissima durata: lo stesso neo-re usurpatore fu infatti colpito da un fulmine, mentre si trovava in visita presso la città riconquistata di Delhi. Segue un periodo complesso con il susseguirsi di vari parenti, altrettanto pronti ad avvelenarsi e farsi fuori a vicenda, finché l’etica guerriera del già citato Maharana Pratap, figlio di Udai Singh II e Jaiwanta Bai, non avrebbe ripreso di nuovo in mano le redini del governo anche grazie all’evidente necessità di un valido protettore, di tutto quello che era sempre stato, e continuava a rappresentare il Mewar.

Una delle opere artisticamente più famose volute da Kumbhakarna è il Vijay Stambha del forte Chittorgarh, una torre incisa con bassorilievi dedicata alle sue molte vittorie contro i Moghul. Su di essa compaiono Shiva, Ganesh e molti altri dei della tradizione Indù.

Ma la storia, come sappiamo, difficilmente subisce battute di arresto e il territorio dell’impero Moghul era destinato ad espandersi sulle mappe d’India, fino a ricoprirne l’intero settentrione sotto il segno dell’islamica Mezzaluna. Pochi luoghi, isolati e imprendibili, sarebbero rimasti a sempiterna testimonianza di tutto quello che era esistito prima di allora e che in qualche maniera priva di conseguenze, aveva trionfato contro ogni tipo di avversità. Perché un conto è il potere sul momento presente, e il baratro vertiginoso di un traballante futuro. Mentre tutt’altra cosa, può essere l’imprescindibile testimonianza di un luogo capace di diventare una parte inscindibile del paesaggio stesso, attraverso i secoli e le generazioni.
Dunque se vogliamo trovare una differenza tra i costruttori delle due muraglie più imponenti ancora integre nel mondo intero (la rovina del Vallo di Adriano, ad oggi, la conosciamo fin troppo bene) potrebbe essere la seguente: che Huangdi avrebbe vinto in Cina la sua battaglia lasciando un’eredità lunga un millennio. A differenza di Kumbhakarna, sconfitto dai posteri per un risvolto imprevisto del proprio amaro destino. Eppure chi mai proverebbe, soltanto per questo, a privare i mattoni dell’antico significato!

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