Scoperta una salamandra che ha scelto di non diventare mai adulta

È una triste faccenda posta molto spesso al centro dell’opinione pubblica, benché nessuno faccia praticamente nulla per contrastarla: specie animali si estinguono di continuo, a causa di alcune delle più problematiche implicazioni del mondo moderno. Le città si espandono, le strade si allungano, le antiche paludi della Florida subiscono un costante processo di riduzione. Quello che tanto a lungo avevamo mancato d’immaginare, tuttavia, è che un simile territorio potesse esistere un animale lungo quasi un metro che nessuno, semplicemente, era mai riuscito a notare. Siamo ai livelli di Bigfoot, l’abominevole anello mancante tra scimmia e uomo: più volte discusso negli articoli sensazionalistici, “assolutamente” riconfermato nella sua esistenza da pellicole sfocate, testimonianze inesatte, vaghi racconti popolari. Finché qualcuno, un giorno… Riuscirà effettivamente a stringere l’arto che termina con una delle sue quattro mani? E se la creatura in questione, di braccia, gambe o zampe che dir si voglia, dovesse possederne un totale di due soltanto in un aggiunta a una lunga coda? Più o meno come le leggendarie meretrici dei mari, che tentarono di rapire lo sconfortato Ulisse dalla tolda della sua stessa nave.
Non affrettatevi a farvi legare al sedile del vostro hovercraft delle Everglades, tuttavia: come ampiamente dimostrato dalla coppia di ricercatori Graham e Steem, scopritori già nel remoto 2014 di questo bizzarro animale durante un sondaggio relativo alle tartarughe, non c’è praticamente nulla che una sirena leopardo (Siren reticulata) possa fare per nuocere agli umani. Eccettuato, possibilmente, mordere l’incauta mano col becco aguzzo, durante una manovra azzardata da parte del suo eventuale catturatore. E in ogni caso, l’avete vista? Quale minaccia potrebbe nascondersi all’interno di una creatura strisciante dai minuscoli piedini tetrapodi, la testa enorme ed il muso a metà tra un boa ed un cucciolo di cane, sormontato da una coppia di complesse branchie esterne che ricordano tanto da vicino, anche per funzionalità, la struttura di altrettanti piccoli alberi di Natale! Ciò che occorre tuttavia comprendere, per contestualizzare adeguatamente la sensazionale scoperta pubblicata all’inizio di dicembre sulla rivista scientifica PLOS One, è che non siamo di fronte comunque a una tipologia di creatura del tutto nuova. I cosiddetti sirenidae infatti (da non confondere coi sirenii, ovvero dugonghi e lamantini) sono un tipo di salamandre che abitano da sempre la regione meridionale dell’attuale territorio statunitense fin oltre il confine messicano, nutrendosi quietamente di molluschi, pesci, insetti e altri artropodi, oltre a non disdegnare l’occasionale pasto a base di alghe. Loro caratteristica è la capacità di riprodursi a ritmi estremamente elevati, arrivando a costituire talvolta un rischio per la biodiversità dei grandi stagni o piccoli laghi della più famosa penisola nordamericana. Si tratta di esseri esclusivamente acquatici, che in letterale colpo di scena evolutivo hanno abbandonato la natura anfibia dei loro parenti più prossimi, evitando di sperimentare la metamorfosi al confine con la maturità, che li avrebbe portati a sviluppare la terza e la quarta zampa, perdendo quindi la lunga coda da pesce per iniziare a deambulare nel sottobosco. Sostituita da un diverso tipo di dote innata, altrettanto valida per non perire durante quelle occasionali stagioni in cui le loro pozze s’inaridiscono, minacciando l’umidità vitale che è sinonimo di sopravvivenza…

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Le case che galleggiano quando si verifica un’inondazione

Come ogni anno, con l’avvicinarsi della stagione delle piogge un senso d’aspettativa e terrore latente inizia a pesare sulla vita quotidiana di coloro che abitano attorno al delta del Mekong. Il grande fiume vietnamita, fornitore di acqua per l’irrigazione fin dall’epoca del ferro e per tutta la durata dell’impero millenario dei Khmer, un tempo associato unicamente a un lungo elenco di connotazioni positive. Ma che oggi, a causa del mutamento climatico e l’aumento di livello delle acque terrestri, è solito dare il benvenuto ai monsoni straripando copiosamente, per andare a sconfinare con estrema prepotenza negli spazi maggiormente cari agli umani. Il che comporta, il più delle volte, gravi conseguenze immediate per le piccole comunità e i villaggi della zona, occupati da una fascia di popolazione che possiede molto poco, in aggiunta alla singola e modesta abitazione familiare. È una terribile incertezza realizzata dalla meteorologia, tutto questo, di un disastro annunciato quanto irrimediabile, in grado non soltanto di avere un prezzo in termini di vite animali ed occasionalmente, persino umane.
Secondo le ultime notizie divulgate dalla GRP (Global Resilience Partnership) una cooperativa internazionale di enti a scopo umanitario finanziata in parte dalla Zurich Foundation, la situazione potrebbe andare presto incontro a un cambiamento positivo. Questo grazie al concorso recentemente indetto per gli enti di ricerca e le aziende interessate, intitolato Water Window Challenge e concepito allo scopo di stanziare 10 milioni di dollari, per un progetto in grado di arginare i danni da inondazione subiti dalle popolazioni svantaggiate di una buona metà del mondo. Missione che parrebbe ormai quasi certamente assegnata alla Prof. Elizabeth English del Water Institute presso l’università di Waterloo, in Canada, per la sua acclarata capacità di trasferire in simili contesti operativi un concetto particolarmente efficace: la cosiddetta casa anfibia o casa (talvolta) galleggiante. Che non è, sia questo immediatamente chiaro, una sorta d’imbarcazione o altro costoso implemento, bensì l’effettiva equivalenza della biblica Arca di Noè, costruita sulla terra ferma per lasciarla, sollevandosi verticalmente, nel momento stesso in cui quest’ultima dovesse trovarsi a scomparire sotto il pelo dell’acqua.
È un approccio semplice, ed al tempo stesso estremamente risolutivo, all’annosa e problematica questione. Non per niente mutuato direttamente da un paese occidentale che le inondazioni ha avuto modo di conoscerle fin troppo bene attraverso il verificarsi della sua storia antica e recente: l’Olanda. Per quanto riguarda la documentazione online in lingua inglese sull’argomento, tutto quello a cui si trova riferimento è l’opera della compagnia di costruzione Dura Vermeer di Dick van Gooswilligen, che attorno al 2005 ebbe modo di costruire un’intero villaggio composto da 37 di questi edifici, presso la piana alluvionale del fiume Maas. E benché qualcosa di simile fosse stato tentato come approccio anche dagli architetti inglesi dello studio londinese Baca, per un’insolita casetta panoramica sulle rive del Tamigi (Richard Coutts, Robert Barker) appare evidente come questa applicazione marcatamente umanitaria del progetto possa rivelarsi nei prossimi anni non soltanto la più meritevole d’encomio, ma anche quella a maggiore diffusione ed utilità risolutiva di un qualsivoglia scopo.
Sopratutto per la capacità, dimostrata dal team degli accademici operativi in-sito, di fornire ai nativi un approccio valido a riconvertire le loro case tradizionali pre-esistenti, facendone un letterale punto d’approdo nel mezzo dell’annunciata tempesta stagionale…

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Il canale navigabile sospeso 38 metri sopra il fiume Dee

Mentre ci si avvia verso la parte meridionale del caratteristico paese di Llangollen nel Denbighshire, nella parte nord-orientale del Galles, le rustiche casette lasciano gradualmente il posto a un’ombrosa foresta di frassini verdeggianti. Il che non significa che la mano dell’uomo cessi di avere un ruolo preciso nel paesaggio, con la sottile striscia d’acqua, racchiusa tra storiche pareti di metallo, che scorrendo con estrema sicurezza verso il centro prospettico della scena sembra procedere verso la gloria stessa dell’infinito. Quindi colui che dovesse percorrerla con gli occhi, oppure con il corpo, a un certo punto noterà qualcosa d’inaspettato: le chiome dei suddetti alberi che iniziano a farsi più basse, finché ad un certo punto si trovano al di sotto dei propri stessi piedi. Per poi scomparire, d’un tratto, lasciando lo spazio a un grande vuoto. Sottolineato dal suono distante di un vero e proprio fiume perpendicolare, che scorre a una distanza notevole sotto quello che si rivela essere, a tutti gli effetti, un acquedotto costruito secondo la scuola tecnica degli antichi Romani. Se non fosse per una singolare differenza: qui ci passano le barche. E che scena surreale, che riescono a costituire!
Tra tutte le propensioni della storia dell’ingegneria britannica, la più raramente menzionata è probabilmente quella della costruzione di canali. Un sistema efficace per spostare cose o persone, come ampiamente dimostrato in epoca rinascimentale dai vicini geografici e culturali dei Paesi Bassi, dove tuttavia, assieme ai mulini, questo tipo d’infrastrutture sono diventata una ragione d’orgoglio nazionale. Laddove comparativamente, nell’intero resto d’Europa, ben pochi hanno avuto modo di conoscere la fitta e complessa ragnatela di corsi d’acqua artificiali che furono scavati, particolarmente nel ventennio tra il 1790 e il 1810 tra la parte occidentale d’Inghilterra e il Galles meridionale. Ed ancor meno, in effetti, sono mai saliti sulla tipica narrowboat inglese, che non è una reinterpretazione del drakkar vichingo come potrebbe dare ad intendere il nome, bensì la perfetta interpretazione pratica del modo in cui una barca possa avere una larghezza massima di 2,13 metri per 17,37 di lunghezza, secondo quanto imposto da precisi standard governativi. Capite quindi, essenzialmente, ciò di cui stiamo parlando? I canali inglesi affiancarono la ferrovia, nel consentire la propagazione di merci e materie prime in un momento cruciale per la storia di questo paese e il mondo intero, comunemente definito come la (prima) Rivoluzione Industriale. Non pensate tuttavia per questo che un simile approccio funzionale al movimento prevedesse fin da subito sistemi da propulsione ultramoderni: poiché un’intera caldaia a vapore, e il relativo combustibile, sarebbero stati piuttosto difficili da stipare a poppa di queste capsule idrodinamiche, per non parlare del problema sempre presente dei costi operativi. Così che, fino alla metà del XIX secolo almeno, il “motore” preferito delle narrowboat sarebbe stato un tiro di cavalli o muli, per i quali la convenzione prevedeva che venisse riservato uno spazio a lato dell’argine destro di ciascun passaggio idrico, da dove avrebbero potuto compiere questa mansione di primaria importanza.
E in effetti tale passerella figura chiaramente, sullo spazio ristretto del ponte idrico di Pontcysyllte, il cui nome è stato ritenuto per lungo tempo una storpiatura della parola gaelica cysylltiadau (unire, collegare) laddove rappresentava in effetti una mera contrazione dell’espressione ponte di Cysyllte, nome di un sobborgo periferico facente parte del distretto di Llangollen. A lato della quale, nella loro encomiabile magnanimità, gli ingegneri furono abbastanza magnanimi da prevedere, nel 1795 in cui furono iniziati i lunghi e complessi lavori di costruzione, una ringhiera finalizzata a bloccare gli eventuali equini imbizzarriti. Mentre dal lato delle barche mancò del tutto una simile sensibilità, arrivando casualmente a costituire un’anticipazione dello stesso concetto contemporaneo di infinity pool: con l’acqua che sembra sconfinare nel nulla, mentre ai bagnanti (o in questo caso, naviganti) viene concessa l’illusione di trovarsi a galleggiare beatamente nel bel mezzo dell’azzurro cielo. Vertigini permettendo…

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Lo spettacolo pakistano degli tsunami generati a comando

Qualcosa d’enorme sta prendendo forma nel distretto di Pakhtunkhwa, 105 Km a nord-ovest di Islamabad. Nel più assoluto entroterra? L’onda anomala: uno dei più terribili eventi “naturali”. La crescita esponenziale dell’energia implicata dal moto oceanico, a causa di una forza introdotta all’interno di quel sistema, generalmente proveniente dalle viscere stesse del pianeta Terra. Un pugno d’acqua che può abbattersi sulla costa, distruggendo ogni cosa che abbia la grave sfortuna di trovarsi sul suo cammino. Quando l’acqua del mare inizia a ritirarsi oltre la linea del bagnasciuga, segno dell’inizio imminente della fine, nessuna persona informata rimane nei dintorni, ben sapendo che anche pochi metri di elevazione, in determinati casi, possono fare la differenza tra la vita e la morte. E allora che cos’è questo? Svariate decine di persone dietro un parapetto alto si e no mezzo metro, che osservano, commentano e scattano foto a svariate tonnellate d’acqua, spinta innanzi lungo il pendio per l’effetto dell’implacabile forza di gravità. E sembrerebbe di trovarsi dinnanzi a una cascata, se non fosse che nessun flusso naturale, nel corso della storia geologica pregressa, ha mai potuto scorrere per un periodo prolungato con questa potenza, senza che il pendio stesso ne venisse eroso nel giro di poche settimane. Ma il flusso di una simile scena, questo è un fattore fondamentale, non trova espressione continua dinnanzi alle telecamere dei curiosi. Esso inizia all’improvviso, successivamente all’estendersi di una stagione delle piogge. Quindi cessa, con lo stesso tenore repentino, lasciando soltanto il ricordo di una così impressionante deflagrazione. Quasi come se qualcuno tirasse a se una leva. Quasi.
E in effetti non saprei dirvi, se il sistema di controllo della diga di Tarbela larga 2,7 Km sul fiume Indo (maggiore impianto idroelettrico al mondo ed una delle strutture più grandi mai costruite dall’uomo) sia una leva, un pulsante oppure un comando inviato digitalmente, mediante il click del mouse collegato a un potente computer. Mentre sappiamo fin troppo bene, grazie ai rapporti ufficiali inviati alla Banca Mondiale che ne finanziò la costruzione a partire dal 1968, che il suo bacino artificiale di 13,96 chilometri cubici è soggetto ad un riempimento e una non-permeabilità tali che ogni anno, circa il 70% dell’acqua in eccesso deve essere scaricata, nell’unico modo possibile per un simile meccanismo: mediante l’apertura degli stramazzi, o canali ausiliari di sfogo. Vie di fuga per l’acqua paragonabili ai tunnel sotterranei, attraverso cui essa viene comunemente instradata per alimentare le fondamentali turbine, capaci di produrre, all’ultima stima, la quantità notevole di 3.478 MW d’elettricità. Dei quali, alle origini del progetto ne erano stati previsti tre, in aggiunta a ulteriori due impiegati allo scopo d’irrigare i campi della regione. Se non che apparve chiaro, entro pochi anni, che l’apporto idrico generato dai ghiacciai dell’Himalaya nei confronti di questa struttura era semplicemente eccessivo, perché un simile piano bastasse a trarne il massimo beneficio. Ed è questa la ragione per cui, a partire già dal 1970, sono stati iniziati una serie di progetti di ampliamento ed installazione di ulteriori turbine, culminanti nella riconversione del quarto tunnel con finalità idroelettriche ultimato nel 2015, un destino che coinvolgerà anche il quinto ed ultimo negli anni immediatamente a venire. Se mai c’è stata una dimostrazione dei tempi che corrono… L’abbandono pressoché completo dell’antico sistema di auto-sostentamento dei popoli, l’agricoltura, a vantaggio di una più proficua nonché redditizia generazione di una corrente d’atomi, usata per far funzionare televisori e lavastoviglie! Eppur se si osserva l’intera questione con occhio clinico, è impossibile non notarlo: ciascuno tsunami artificialmente indotto nel distretto di Pakhtunkhwa, costituisce uno spreco…

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