Vita e morte nel giardino genderfluido del pagliaccio dei mari

Ed in fondo, chi saremmo noi per criticare la dinamica di un simile stile di vita? Senza dubbi o recriminazioni, la civiltà industriale replica e produce il tipo di stabilimenti, progetti tecnologici e strutture, che costituiscono anatema di ogni altra forma di vita sulla Terra. O quasi. E se l’essere umano fosse incline a trarre forza, protezione o meramente una conferma delle proprie convinzioni dal tentacolare distruttore d’incolpevoli creature marginali… Difficilmente ci porremmo problematiche sul tema della loro conservazione. Nulla, nella nostra scala di valori, c’indurrebbe più a farlo. “Tra tutti gli esseri che vivono sotto la superficie degli abissi, il più importante è l’Amphiprioninae.” Questo il credo di quegli esseri medesimi, il cui passaggio è argentovivo per il susseguirsi variopinto delle strisce che costituiscono la loro livrea nei recessi tropicali facenti parte degli oceani Indiano e Pacifico. Pesci clown la cui più grande via d’accesso alla celebrità del senso collettivo può soltanto essere fatta derivare dalla popolare coppia di film d’animazione disneyana sulle disavventure del vermiglio Nemo, responsabile dell’incremento esponenziale dei commerci di chi valuta la loro vita come quella di un criceto o pesce rosso acquistato alla fiera. Poiché nulla può arginare l’ambizione di creature per cui l’anemone costituisce una decorazione degli acquari. E non l’esiziale via d’ingresso per la fine inconfutabile dell’esistenza.
Trasferiamo il punto della nostra prospettiva a proporzioni più coerenti, dunque, per meglio comprendere il pericolo di cui stiamo parlando: un pesce pagliaccio è il membro di una sottofamiglia di 28 specie riconosciute, all’interno dell’ordine dei blenniformi, le cui dimensioni medie si aggirano attorno alla decina di centimetri ed il cui metodo impiegato per sopravvivere tende a trarre quotidiano beneficio dal processo del commensalismo. Ovvero quella convivenza obbligatoria con l’anemone cnidario, pseudo-medusa sessile generalmente accomunata al concetto di vegetazione dei mari. Ma un animale a tutti gli effetti e di un tipo carnivoro, grazie all’impiego di papille digestive coadiuvate dalle cellule all’interno di braccia tentacolari che prendono il nome di nematocisti. Capaci di uccidere pressoché qualsiasi cosa sufficientemente piccola gli capiti a tiro. O che i loro irrinunciabili, beneamati ospiti decidano di offrirgli su un metaforico piatto d’argento…

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Dietro al dilagante ossimoro mediatico del mini-calamaro colossale

“Negli abissi profondi nessuno potrà sentirvi gorgogliare” usava come slogan il regista Ridley Scott, in un universo alternativo in cui l’affermazione secondo cui sappiamo più sul cosmo infinito che l’oscuro ambito degli oceani terrestri (più o meno vera in base al punto di vista) avrebbe avuto la ragione di trovarsi al centro di un movimento collettivo di ambizione speculativa. Se davvero le divinità del cosmo giacciono sopite sui fondali, nell’attesa del risveglio apocalittico profetizzato, non è necessariamente indicativo né davvero interpretabile in senso letterale. Sebbene Qualcosa sia capace di acquisire validi vantaggi da una dimora tanto remota, indisturbata per quanto possibile dagli esseri che traggono dal Sole la propria forza. Alieni sono d’altra parte tutti quei molluschi, che fluttuando nella colonna oceanica, permangono di taglio tra gli strati di molecole dell’apparenza, particolarmente quando tanto rari da poterne contare gli avvistamenti di esemplari già defunti sulla punta di otto tentacoli. Ed aggiungerne alfine un altro, in cui per la prima volta… La! Creatura! Sta! Nuotando!
È un Mesonychoteuthis hamiltoni quello, o sei soltanto felice di vedermi?” Avrebbero potuto interrogarsi a vicenda i colleghi, metaforicamente parlando, in quel fatidico 9 marzo scorso (2025) a bordo della nave oceanica dell’Istituto Schmidt denominata “Falkor (too)”, con un chiaro quanto inaspettato riferimento al romanzo fantasy de La Storia Infinita. Così come post-modernista si profilava il nome del mezzo a controllo remoto sottomarino SuBastian, che si trovava in quel momento a 600 metri di profondità dell’Oceano Atlantico, vicino alle isole antartiche delle Sandwich Australi. Un luogo ed un’impostazione professionale che, una volta messe in relazione, lasciano immaginare un’ambizione in particolare dei presenti situata al di sopra di qualsiasi altra: l’avvistamento ed identificazione, come già tentato innumerevoli altre volte in passato, di QUESTO particolare animale. Il calamaro colossale, da non confondere con la seppia gigante di tutt’altra famiglia, ancorché in lingua inglese siano entrambi definiti con il termine squid che per tanto tempo avrebbe alimentato le leggende nautiche sul Kraken o altri simili mostri marini tentacolari. Potendo agevolmente raggiungere, come dimostrato grazie al precedente recupero di esemplari già defunti o i resti dentro lo stomaco dei capodogli, una lunghezza di 14 metri ed un peso probabile tra i 600 e i 700 Kg. Il che non significa, è importante sottolinearlo, che gli operatori del ROV si fossero remotamente ritrovati al cospetto di un simile gigante. Trattandosi nel caso del già celebre segmento videoregistrato, di un esemplare molto giovane, della lunghezza di 30 cm appena. Non che fosse facile capirlo in assenza di punti di riferimento nell’inquadratura. E non che molte delle testate internazionali che hanno riportato il caso, si siano preoccupate di specificare “l’insignificante” dettaglio…

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Datemi neutrini: lamine di luce per l’enorme calice nel sottosuolo della montagna

Scrutare l’invisibile tende a richiedere l’impiego di uno sfondo adeguato. Il che significa, un mezzo entro il quale lo status quo possa essere influenzato dal passaggio di un’entità che sfugge normalmente alla percezione e la coscienza dell’uomo. Questo è il principio dell’utile strumento del contatore Geiger, sostanzialmente un piccolo tubo pieno di gas, elio, neon o argon, all’interno del quale particelle di radiazioni ionizzanti producono una leggera carica elettrica, tradotta dal sistema in numeri del display situato all’esterno. Perciò ingrandisci quello stesso approccio funzionale mille, duemila volte, ed ogni cosa diventerà possibile; persino scrutare fino al nocciolo dell’annosa questione, sulla natura stessa ed il funzionamento dell’Universo. Leptoni: particelle facenti parte della materia la cui infinitesimale piccolezza permette di accertare l’esistenza soltanto indirettamente, in funzione degli effetti che producono nei rispettivi contesti d’appartenenza. Eppure persino tra queste, esistono classi diverse d’impercettibilità inerente. Laddove fondamentale per la produzione degli stessi legami chimici in quanto tali, risulta essere il microscopico elettrone, portatore di una carica negativa che si riflette nella costruzione di qualsiasi molecola a noi nota. Mentre meramente teorico sarebbe rimasto, fino al 1930 grazie al lavoro di Wolfgang Pauli, l’esistenza del suo cugino neutrino, privo d’interazione elettromagnetica di qualsivoglia tipo. Tanto che, inerti all’interazione forte, sarebbero stati considerati per quasi un secolo del tutto privi di una massa funzionale apparente.
E probabilmente lo sarebbero ancora oggi, se non fosse per l’intercorsa efficacia dimostrata a più riprese dall’osservatorio del monte Ikeno nella prefettura giapponese di Gifu, costruito a una profondità di 1.000 metri nell’ex-miniera di Mozumi con l’originale scopo di rilevare il decadimento protonico (missione destinata a rimanere ancora oggi incompleta) sotto la supervisione dell’Istituto della Ricerca sui Raggi Cosmici dell’Università di Tokyo. Ferma restando la stretta associazione del neutrino con tali fenomeni spaziali, per la cognizione acclarata che il passaggio di questi ultimi attraverso l’atmosfera terrestre tendesse ad indurre un decadimento delle particelle, tale da generarne una certa quantità inerente. Ragion per cui la prima iterazione del progetto, operativa per due anni a partire dal 1983, fu da subito associata all’osservazione cronologica delle ondate d’energia capaci d’investire la Terra, successivamente all’esplosione di una supernova distante, all’origine di diffusione di radiazioni oltre il grande vuoto del medium galattico interstellare. Già, ma come, esattamente? Grazie all’impiego apparente di una quantità spropositata di “lampadine”…

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L’ultimo cimitero geologico a un pacchetto di patatine dalla fine del mondo

Era il 6 settembre scorso quando sulla pagina Facebook gestita dall’Ente Parchi, dedicata alla famosissima caverna di Carlsbad, la foto incriminante faceva la sua comparsa: vermiglio e scintillante, accartocciato tra le ombre, l’incarto minaccioso con il logo che preannuncia condanna: sono diventato Doritos, il distruttore dei mondi. Chi l’aveva lasciato, e perché? Com’era potuto succedere che i ranger non lo avessero notato? Ma soprattutto, da quanto tempo era rimasto incustodito, nelle profondità sacrali della prima e più importante cattedrale sotto l’esteriore scorza delle praterie soprastanti?
Ogni complesso di caverne americano è strettamente associato alla vicenda del suo scopritore, il portatore della torcia, depositario ed erede dello spirito di frontiera. Giovani avventurieri come l’allora teenager Jim White, successivamente autore di numerosi testi autobiografici e l’emblematica citazione “[Nella vita] Voglio essere un cowboy”. Ed è perciò che in quel giorno fatidico, nel 1898, all’età di soli 16 anni si trovava ai margini dei territori del cosiddetto XXX (poi Washington) Ranch in New Mexico, quando vide all’orizzonte il chiaro segno di un incendio boschivo: una coltre ombrosa nel tardo pomeriggio, che ritagliava forme geometriche nel cielo. Poiché dopo tutto, cos’altro avrebbe potuto essere? Non ci sono vulcani tra le Guadalupe Mountains. Soltanto qualche ora dopo, avendo camminato lungamente in direzione dell’anomalia, trovò inaspettatamente una voragine verso le viscere della Terra. Allorché comprese che quanto aveva scorto dovevano essere dei pipistrelli. Ed in una quantità tale da tradire l’esistenza di un dedalo sotterraneo dalle dimensioni letteralmente spropositate. Giorni dopo, non settimane, il dado era tratto: armato di una rudimentale lanterna, una scala di corda fabbricata artigianalmente e (si dice) accompagnato da un ragazzo messicano che non avrebbe mai menzionato per nome nei suoi racconti, Jim camminò all’interno di uno stretto passaggio fino al raggiungimento di qualcosa di assolutamente immenso: la cosiddetta Stanza Grande o Sala dei Giganti, un ambiente tra le stalattiti largo 191 metri e lungo 78. Semplicemente una delle più ampie camere sotterranee degli Stati Uniti e del mondo, riecheggiante del richiamo di milioni di chirotteri nascosti tra gli anfratti. Il senso di maestosità era notevole, ma ancor più i propositi imprenditoriali latenti. Così anni dopo il giovane cowboy avrebbe coinvolto l’imprenditore locale Abijah Long, con l’intento particolarmente redditizio di estrarre, per rivenderlo come fertilizzante, lo spesso strato di guano dei mammiferi volanti. Ma neppure queste due menti unite avrebbero potuto immaginare il successo e la fama turistica internazionale che, soltanto mezzo secolo dopo, si sarebbe guadagnata questa caverna…

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