Il mistero polacco dei cento alberi sbilenchi

“Che cosa diamine sta succedendo, Lord Sqweework III, cos’è questo rumore assordante?” Le cima del pino silvestre si piegò vistosamente da una parte, mentre il suolo stesso pareva vibrare per l’effetto di una forza stranamente cadenzata. “Accidenti, temo proprio che questo non sia affatto un terremoto, Mr. Ratten Hazelnut! Stavolta siamo davvero nei guai.” I due scoiattoli si aggrapparono, per quanto possibile, al secondo ramo a partire dal tronco principale, laddove il nido del chiurlo pareva relativamente al sicuro alla vibrazioni. Ma i cespugli sottostanti, agitandosi come una cosa viva, parevano inscenare l’ultima battaglia del Macbeth Shakespeariano. “Io devo dirtelo, devo dirti l’unica tremenda verità: l’ho saputo dal duca Corvus di Czarnowo… Lui l’ha visto l’altro giorno, mentre sorvolava le pianure dinnanzi Stralsund: sembra proprio che gli umani siano scesi in guerra, con possenti macchine d’acciaio mai viste prima. Le chiamano Pan-zer!” Quasi a sottolineare questa descrizione, da dietro una collinetta antistante la piccola radura al centro della foresta, spuntò una cupola lucente e stranamente spigolosa, con un lungo tubo simile ad un cannocchiale. Ratten rabbrividì fino all’ultimo ciuffo di peli sulla coda: “Oh. Ooooh, di nuovo? E…Che cosa ci fanno da queste parti? Che abbiamo fatto di male?” Il suo nobile compagno col monocolo, seduto a zampe incrociate dentro la nido ormai da tempo privo di occupanti, pareva decisamente meno terrorizzato dalla situazione. Del resto, ne aveva viste di campi di battaglia, lui. E poi trincee, con la piccola maschera antigas e il suo fucile con la baionetta lunga 3 centimetri e mezzo. Sgranocchiando la migliore nocciola possibile verso la fine di questo autunno del 1939, Sqweework III socchiuse gli occhi, quindi esclamò: “Eccoli che arrivano, stai pronto!” Il mostro di ferro e compatta ingegneria tedesca era ormai del tutto al di sopra della linea dell’orizzonte, con la corazza lucente e i grossi cingoli completamente ricoperti di fango. Il cannocchiale-cannone cominciò a spostarsi lentamente verso la parte posteriore del mezzo, allo scopo di evitare eventuali danni, mentre il pilota accelerava al massimo potenziale del suo motore Maybach a 12 cilindri. Fu evidente, a quel punto, che non avrebbe mai deviato per evitare la foresta. Ma intendeva, piuttosto, passarci attraverso. Il fumo dei tubi di scappamento, a questo punto, raggiunse il duo arboricolo, spinto innanzi da un minaccioso spostamento d’aria. Con un sonoro CRACK, il primo tronco ricevette l’impatto delle 22 tonnellate, lanciate a 35-40 Km/h sul suolo ricoperto di foglie morte. “È terribile… Amico mio. La nostra casa…Questi alberi non si riprenderanno mai più.”
Ecco, tuttavia, la più nobile realtà della faccenda: non tutto ciò che muore, muore per davvero. Scegliendo di entrare piuttosto in uno stato intermedio, in cui l’esistenza si rifugia presso le pieghe dell’inusitata possibilità. E qualche volta, se le condizioni sono giuste, qualora il fato venga trascinato verso il migliore fiumiciattolo nella pianura alluvionale degli eventi, ciò che era prossimo a spezzarsi, si piega. Lasciando ai posteri l’ardua sentenza. Quella bellica, in realtà, non è che una delle numerose diverse teorie elaborate in merito a Krzywy Las, la foresta polacca degli alberi sbilenchi, in merito alla quale biologi, naturalisti e storici s’interrogano da 3 abbondanti generazioni. Una vista inspiegabile, che tuttavia spiega se stessa, nella sua immediatezza ed apparente inamovibile presenza. Nel mezzo di un fitto bosco, nei pressi del villaggio di Nowe Czarnowo in piena Pomerania, c’è un gruppo di pini. Il cui tronco, invece che crescere verticalmente, si produce in un’ansa, come la curva a gomito di un rally pedemontano. I più creativi potrebbero definirlo un punto interrogativo, oppure l’accenno di una chiave di violino. Fatto sta che mai nessuno, in effetti, è riuscito a dimostrarne il perché. La spiegazione del carro armato è ovviamente invitante, intanto per la data di origine degli alberi (il conteggio dei cerchi li ha datati tutti attorno al 1930) ma anche per farne una parabola storiografica di ciò che abbia dovuto soffrire, in epoca moderna, uno dei più centrali ed antichi paesi europei. Ma non convince a pieno: se davvero la piegatura fosse il frutto accidentale del passaggio di una colonna di mastodonti sferraglianti, perché mai gli alberi sono piegati tutti dalla stessa parte, verso nord? La logica vorrebbe che essi avessero formato come una sorta di tunnel, da una parte e dall’altra della rotta impostata nel verde oceano dalle post-landship tedesche. No, c’è qualcosa di chiaramente intenzionale, nell’intera faccenda. Il marchio infernale della mente e della mano dell’uomo. Ecco, dunque, una possibile alternativa: qualcuno ipotizza che le genti della regione avessero un’usanza, relativa nell’imporre la strana curvatura ai giovani virgulti di pino. Ben sapendo che quelli, crescendo, avrebbero fornito dei lunghi tronchi già curvi, da impiegare per costruire botti, navi o navi a forma di botte e così via. Il che non spiega, tuttavia, perché non si abbia notizia formale di una simile attività in alcun luogo e da nessuna parte: in fondo, non sono passati neanche cento anni! Ovvio, prosegue il teorico ottimista: poco dopo che gli alberi sono stati piegati, da queste parti il carro armato ci è venuto veramente. E i vecchi arboricoltori, per una strana “coincidenza” sono tutti morti, d’emblée. Oppure…

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La prima regola per l’estrazione dell’uranio

Sotto il suolo del Saskatchewan settentrionale, nella parte gelida del Canada, un tesoro senza tempo né confini: il più grande giacimento mai trovato al mondo del minerale uranio. Un metallo bianco-argenteo, un tempo trasportato dai numerosi affluenti del fiume McArthur, oggi ritornati nelle viscere del mondo. Ma i suoi depositi residui, no. Terreno ben compatto, tutt’altro che friabile, rimasto in pace per generazioni. Finché nel 1988 qualcuno, finalmente, non si è armato di contatore Geiger. E giungendo presso questi luoghi, ha iniziato a udire il suono tic-tic-tic-tic […] subito seguìto dalle ruspe, le trivelle, i mezzi da cantiere della Cameco (Canada Mining and Energy Corporation) usati per costruire una delle miniere più famose, e redditizie, dell’intero panorama estrattivo nordamericano. E adesso…Chi lo sa, come funzione tutto questo? Come può essere acquisito quel segreto di un successo che parrebbe destinato a durare ancora molto a lungo, vista la riserva stimata di 1.037.400 tonnellate di U3Opuro al 15,76%, più che conforme agli standard medi del settore. Quasi nessuno, a quanto pare, fino a poco tempo fa. E adesso tutti, pressapoco, grazie all’episodio dedicatogli dall’ultra-popolare trasmissione canadese “How it’s Made” (Come è Fatto) andato in onde in dozzine di paesi del mondo. Il 360° per essere precisi, dopo due segmenti dedicati rispettivamente agli endoscopi ed ai megafoni, rigorosamente pubblicati con intento divulgativo sul canale YouTube dello show. Ma qui andiamo oltre la semplice curiosità relativa alla produzione dei principali oggetti di uso quotidiano… Qui si sta svelando uno dei processi più importanti dell’energia contemporanea, destinato a diventarlo sempre di più con l’esaurimento dei carburanti fossili e il ritardo nell’adozione delle rinnovabili, mentre la civilizzazione tenta di aggrapparsi disperatamente alle ultime risorse del pianeta Terra. Scegliere di sfruttare un tipo d’energia piuttosto che un altro, in questa chiave d’analisi, diventa futile, semplicemente perché prima del momento finale, tutto dovrà essere trasformato e metabolizzato, pena orribili conflitti per accaparrarsene il controllo. Il ritrovamento dell’uranio, più che una gradevole sorpresa, è un impegno ed un dovere. Che presuppone un’ampia serie di processi ingegneristici più che mai collaudati.
La miniera di McArthur River funziona ha trovato i suoi ritmi grazie all’impiego di un processo di lisciviazione, ovvero separazione chimica, tramite l’impiego di sostanze acide corrosive, della roccia attentamente sminuzzata e trasportata fino ad un impianto di lavorazione non troppo distante. Ciò è conforme ai metodi impiegati in molti altri siti. Ma è l’estrazione in se, a trovarsi connotata da un procedimento assai particolare: l’AGF, o Artificial Ground Freezing, che consiste nell’inserire una serie di tubature nell’area soggetta a trivellazione in una sorta di griglia tridimensionale, collegati ad un impianto refrigerante di superficie. All’interno dei quali, quindi, vengono pompate grosse quantità d’acqua salata (che non può congelarsi) a -25, -35° C con la finalità di compattare e rendere meno cedevole il terreno. Tale approccio, considerato una best practice di qualsiasi miniera sotterranea, ha qui costituito la base degli svariati riconoscimenti ricevuti dalla Cameco per l’attenzione dimostrata nel ridurre l’impatto ambientale. Il raffreddamento del suolo infatti, oltre a renderlo più facile da lavorare, impedisce la circolazione delle falde acquifere filtranti e la loro conseguente contaminazione. Una volta completato tale passaggio per ciascuna nuova zona da trivellare, attraverso una fase che può anche durare svariate settimane di duro lavoro, si trasporta in posizione uno dei trapani più grandi che abbiate mai visto. Il quale, da un passaggio superiore al giacimento, inizia a realizzare quello che viene convenzionalmente definito il “buco pilota” un pertugio destinato a trapassare, come la lancia di un eroe medievale, l’area giudicata sufficientemente radioattiva, prima di sbucare in un’ampia area di lavoro sottostante. Alla colonna di perforamento, quindi, viene attaccata una punta del tutto diversa, definita reamer, molto più larga e con protuberanze metalliche nelle sue parti laterale e superiore. Essa viene quindi trascinata nuovamente verso l’alto, spaccando la pietra e lasciandola cadere fragorosamente verso il basso, dove una serie veicoli comandati a distanza la raccolgono e trasportano fino al segmento successivo della filiera. Nel corso dell’intero processo lavorativo, nessun essere umano viene in contatto con l’uranio radioattivo, garantendo quindi il più alto grado di sicurezza procedurale. Si passa, a questo punto, alla vera e propria fase di sminuzzamento…

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La miniera che consente l’esistenza delle batterie al litio

Il litio è quell’elemento appartenente al gruppo dei metalli alcalini, situato all’estremità sinistra della tavola periodica, che trova posto immancabilmente in tutti i nostri cellulari, tablet, laptop, videocamere, auto elettriche, console per videogiochi… Arrivando talvolta ad esplodere, per errori di progettazione o un qualche tipo di errato utilizzo. È una di quelle colonne portanti del consumismo moderno a cui, nonostante le premesse, quasi nessuno sembra aver voglia di attribuire l’importanza che potrebbe meritare. Eppure, resta fondamentale comprendere come circa la metà di tutto il litio attualmente in circolazione sul mercato provenga da un singolo, gigantesco impianto, sito presso quella striscia di terra totalmente arida che si trova tra la catena montuosa delle Ande e l’Oceano Pacifico: il deserto Cileno dell’Atacama. Stiamo parlando, dopo tutto, di una sostanza definita talvolta “il petrolio bianco” benché si tratti di una metafora che può facilmente trarre in inganno. Perché questa particolare risorsa del pianeta Terra non produce energia, ma la immagazzina, e non è in effetti per niente rara e nemmeno prossima all’esaurimento. I metalli alcalini, per loro prerogativa, si trovano ovunque all’interno dei massicci montuosi e sotto gli strati superficiali del suolo. No, piuttosto il punto è un altro: è talmente facile, ed economicamente vantaggioso, tirarlo fuori da questo particolare luogo, che finché il giacimento non arriverà ad esaurirsi, l’azienda amministratrice manterrà il controllo di una fetta di gran lunga preponderante dell’intero mercato. Le ragioni di questa anomalia sono molteplici, ma derivano fondamentalmente tutte dallo stesso problema: il metallo in questione, nella sua forma più pura e chimicamente rappresentativa, è una sostanza estremamente instabile, al punto che reagisce persino con l’acqua, assumendo una forma liquida che può facilmente generare fiammate, non appena sottoposta ad un calore eccessivo. Proprio per questo, la versione che trova l’applicazione costante nella nostra vita quotidiana, ovvero quella che ad oggi viene chiamata effettivamente “litio” è in effetti la sua versione elettricamente neutra, in cui la combinazione con altri minerali nel suolo ha creato la mescolanza di un acido e una base, dando luogo alla creazione di un qualcosa di molto più facile da trasportare. In altri termini, la forma grezza di questa preziosa risorsa, pompata ogni giorno in quantità enormi dal suolo del Cile ed inviata nei principali paesi produttori d’elettronica al mondo, non è così diversa dal sale marino, fondamento essenziale della nostra familiare cucina mediterranea.
La miniera in questione, di proprietà dagli anni ’70 della compagnia privata SQM – Sociedad Química y Minera, un vero gigante da oltre 600 milioni di dollari di fatturato annuo, è stata visitata a dicembre dell’anno scorso dalla testata statunitense Bloomberg nel contesto della sua serie Hello World, con la finalità di offrire uno spunto ai potenziali investitori stranieri. La visione che ne viene fuori, sorprendentemente semplice e dal contenuto tecnologico relativamente semplice, è quella di una essenziale commistione tra un impianto di estrazione del petrolio ed una salina, con schiere di giganteggianti piscine distese l’una accanto all’altra sul suolo del deserto, mentre i fenicotteri rosa locali, a poca distanza, immergono le zampe nella poca acqua incontaminata concessa alla loro sopravvivenza. Questo perché, come dicevamo, tutto quello che serve per effettuare la prima lavorazione del litio dell’Atacama è trivellare fino alla falda acquifera sottostante, pomparlo fuori e lasciare che il Sole battente di questi luoghi svolga il resto dell’arduo lavoro. In un tempo piuttosto breve, la parte liquida della sostanza sarà portata ad evaporazione, lasciando uno strato biancastro di un tale agognato, ormai fondamentale dono della natura. E considerate che si tratta di uno stato di grazia che continuerà a sussistere ancora per molto tempo. La quantità di litio contenuta nella batteria di un moderno cellulare è in effetti pochissima, appena un cucchiaino da caffè, mentre persino i veicoli da trasporto elettrico più sofisticati, come un’automobile della Tesla Motors, non utilizzano che 10-15 Kg del materiale. Nel corso della loro intera vita operativa. Sarà dunque estremamente apparente, a questo punto, come Michael Stanley Whittingham, lo scienziato inglese che scoprì per primo nel 1970 le proprietà energetiche di questo formidabile materiale, abbia fatto un enorme favore al mondo moderno, al punto da non poter immaginare un domani in cui esso non si trovi al centro perfetto delle nostre necessità. Nonostante un significativo problema residuo…

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Il suono formidabile di un’emergenza nucleare

Qui al liceo di Glen Rose non organizziamo gite coi ragazzi, ma esperienze a 360°, che permettano di sperimentare a pieno almeno un particolare aspetto della loro vita futura: come ad esempio, la MORTE. Di ogni pregressa aspettativa. Quando ci si trova in un particolare campo di battaglia esagonale, la postazione coi computer posta in centro, la luce soffusa delle lampade dietro i pannelli trasparenti, milioni di quadranti, schermi e superfici di controllo posti tutto attorno, dalla specifica funzione sconosciuta. E la dantesca guida con maglietta color salmone facente parte del personale locale, non senza un evidente ghigno d’aspettativa, spiega brevemente ciò che sta per verificarsi. Quando nulla in effetti, avrebbe mai potuto prepararvi a ciò che viene dopo. Poi con ferrea risolutezza, l’uomo si china in avanti e da il comando di “GO!” Le luci si spengono, la stanza inizia a gridare, tutto quel che può farlo, lampeggia freneticamente…
C’è una ragione scontata, per cui una tale scena assume un senso ed un’inevitabilità pressoché assolute: dove mai sarebbe possibile addestrare un tecnico per la sicurezza delle centrali nucleari? Se non dentro, per l’appunto, una centrale nucleare… Come quella di Comanche Peak a Somervell County, Texas, dove a quanto pare ci sono (almeno) due diverse sale di controllo principali. La prima usata per, beh, CONTROLLARE le cose mentre l’altra serve a simulare, simulare, recitare. Mettere paura ai visitatori. Le diverse parti di un preciso copione, relativo alle ragioni dell’Evento, l’unico per quanto vario nelle cause, quella situazione, occasionalmente ricorrente, che induce la necessità di porre un freno alla fissione degli atomi nell’irresistibile barile. Ovverosia un transiente, così come lo chiama chi lavora nel settore. Le origini della crisi possono essere svariate: forse la temperatura era salita eccessivamente, oppure l’output energetico era fuoriuscito per un attimo dai valori ritenuti sicuri per il particolare impianto. O ancora, c’era stata un incertezza momentanea degli strumenti collegati alla distribuzione del liquido di raffreddamento. Il che porta, immancabilmente allo SCRAM. Ovvero il reactor trip, l’arresto del reattore. Vorreste conoscere l’origine del termine? Ci arriveremo presto. Ma nel frattempo, rassicuratevi così: il più delle volte, previa accurata e rapida verifica, non si tratta di nulla di grave e tutto ciò che devono fare gli operatori, per riprendere la produzione di energia, è premere un pulsante che ripristina la situazione di normalità. A meno che il transiente in questione non sia stato del tipo peggiore, quello che porta le luci della stanza, anche soltanto per un attimo, a perdere vistosamente di potenza. Perché ciò significa che sono entrati in funzione i generatori d’emergenza, ovvero in altri termini, c’è stato un Loss of Offsite Power. Ovvero la centrale nucleare, per soltanto alcuni attimi, non ha più ricevuto energia dall’esterno. “Ma come…” Mi sembra quasi di sentirlo, il primo/la prima della classe a margine del capannello degli alunni: “…può mancare l’energia in un luogo che la PRODUCE?” La risposta è un clamoroso, rimbombante: SI… Più o meno. Perché naturalmente, un’installazione di questo tipo è in grado di isolarsi dalla rete, se quest’ultima presenta delle gravi, temporanee carenze distributive, ma ciò che assolutamente non può fare, è percorrere una tale strada durante il delicato processo di spegnimento. Perché è proprio a quel punto, che si presenta la più grave necessità, di un nocciolo che continua per lunghi minuti, ed ore, a produrre temperature di una generosa frazione di quelle dello stesso Dio Sole, minacciando d’andare incontro a fusione parziale o completa del carburante. E c’è soltanto un certo margine di manovra con le pompe dell’acqua di raffreddamento, quando si opera mediante le batterie di un gigantesco gruppo di continuità! Proprio per questo, nella maggior parte degli impianti, in assenza di corrente viene indotto immediatamente lo SCRAM.
Non è certo un caso se la prima capacità che viene coltivata attraverso l’addestramento del tecnico addetto alla sicurezza nucleare è la capacità di mantenersi calmi sotto pressione. Quando un’alta quantità di segnali, contemporanei e spesso contrastanti, si accende presso la parete di propria competenza, e tutto quello che resta da fare è estrarre il raccoglitore d’ordinanza sotto i controlli (potete vederli chiaramente nel video) per verificare se una simile combinazione, in effetti, si sia già verificata in precedenza. In quei momenti, sono molte le cose da verificare: gli apparati di sicurezza sono entrati in funzione correttamente? Le turbine a vapore si sono arrestate? Bastano 3-5 secondi di funzionamento delle stesse, in assenza di produzione di vapore per effetto della fissione, perché si vada a incontro a danneggiamenti per un’entità di svariati milioni di dollari. Ma soprattutto, occorre affrettarsi presso il pannello, anch’esso convenzionalmente esagonale come la stanza stessa, che indica lo stato dell’inserimento delle barre di contenimento, l’unica spada in grado di deviare il colpo di coda del furioso drago radioattivo. Lentamente, inesorabilmente, il materiale assorbitore di neutroni (argento, cadmio o boro) viene introdotto in ciascuna cella dell’ambiente di fissione, inducendo progressivamente il silenzio. Almeno, se non è il 1979, e se non vi trovate, per vostra massima sfortuna, presso la famosa centrale nucleare di Three Miles Island…

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