Il grillo che perpetua la sua specie nei deserti lavici creati dalla Dea del monte Kilahuea

Essere o non essere, stati contrapposti nella percezione noetica dell’Universo, come punti estremi dello scorrimento lungo l’asse temporale degli eventi. Un punto di partenza estremamente funzionale, e a dire il vero ineluttabile, da cui venne anticamente elaborata la teoria fondamentale della generazione spontanea. Dove cadono le briciole, nascono formiche. Se l’umidità raggiunge il punto di stoccaggio, la dispensa si popola di curculionidi del grano. Se un essere vivente muore senza essere tolto di mezzo, la sua carne si trasforma in larve di mosca che nei giorni o settimane successive, spiccheranno il volo. “Quello che non vedo con i miei occhi, non è reale.” Affermavano comunemente i primi cercatori della verità in merito alle circostanze ed il comportamento delle creature. “Per questo l’unica spiegazione possibile, è che avvenga senza soluzione di continuità apparente.” Un simile ragionamento strumentale, nella maggior parte delle circostanze, non offre spunti di chiarezza superiori a qualsivoglia tipo di credenza religiosa. Per questo le due linee hanno continuato a combattersi per lunghi e dolorosi secoli, da quando gli umani svilupparono la curiosità necessaria a scrutare con occhi indagatori la biosfera eternamente persistente. Non ebbero particolari dubbi, d’altra parte, gli abitanti dell’Isola Grande di Hawaii, giunti dai loro remoti lidi polinesiani d’origine, nel caratterizzare un particolare insetto dell’arcipelago come figlio fenomenico della divina Pele, Colei che Regola e Determina la Fuoriuscita di Lapilli e Pietra Fusa dalle Cavità del Mondo. Come spiegare altrimenti l’esclusiva presenza di questo particolare ortottero all’interno degli scarni territori ricoperti dalla lava solidificata da non più di qualche mese o anno a questa parte, proprio là, dove nessun’altra creatura sembrava capace di sopravvivere in alcun modo? E dove andavano i piccoli brulicanti, ogni qual volta erba e vegetazione, inevitabilmente, riuscivano di nuovo ad attecchire in quegli torturati frangenti? Normalizzando gradualmente questi luoghi, mentre il quasi leggendario ‘ūhini nēnē pele (“piccolo saltatore ronzante della lava”) ritornava, misteriosamente, nell’apparente dimensione parallela della sua quotidiana esistenza!
Non prima del 1978 dunque, ad opera dei ricercatori del Bishop Museum di Honolulu, Gurney e Rentz, il Caconemobius fori sarebbe stato finalmente fotografato e classificato, assegnandogli una qualifica tassonomica nel gruppo di un recente genere, ospitante primariamente grilli degli ambienti sotterranei sulle coste del Pacifico dall’Asia alle Hawaii. Coi quali condivide il metabolismo poco esigente in termine di nutrimento ed alcune caratteristiche riproduttive, nonché l’assenza quasi totale di ali e di un canto udibile dall’orecchio umano. Ma per il resto, potrebbe costituire uno degli insetti maggiormente caratterizzati dalla propria endemismo estremofilo, raggiungendo quasi le vette di un batterio o microrganismo…

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Verdi sguardi per draconiche famiglie intente a sorvegliare le alte chiome di Guadalcanal

Non è tipico in un appartenente alla classe dei rettili la presenza di una serie di caratteristiche somatiche, una linea della bocca ed un contegno oculare, tale da sembrare il possessore di una vera e propria espressione. Curiosa, concentrata, non del tutto priva di una certa intensità inerente. Al punto che scrutando dal basso in alto uno di questi membri dell’antica società dinosauresca, parrebbe quasi impossibile trovarsi a immaginare in esso un senso lato di empatia o persino il timido barlume di un’emozione. Eppure ciò potrebbe essersi verificato, già ben prima della loro classificazione scientifica avvenuta solamente nel XIX secolo, per questi membri del bioma situato sul confine più remoto della pianeta emerso. Frammentato e discontinuo, a suo modo, data la corrispondenza coi ritagli d’arcipelago facenti parte del famigerato nascondiglio, a dire di uno dei suoi primi esploratori, del leggendario oro dell’antico Re Salomone. Ipotesi remota nel 1568, così come il tentativo quasi tre secoli dopo da parte del naturalista John Edward Gray di proporre come nome per l’animale largamente noto ai nativi, in quanto presenza silenziosa o piatto beneamato dell’ora di cena, il binomio latino Corucia zebrata, o “brillante” analogo con strisce in alternanza del più rappresentativo equino africano. Associazione non così palese per tali lucertole, anche per la poca visibilità di suddetta livrea, a cui gli anglofoni si sarebbero trovati a preferire la definizione di scinco dalla coda di scimmia, data la natura prensile e notevolmente muscolosa del quinto arto posseduto dalla strana creatura. Rappresentante di maggiori dimensioni esistente, per l’appunto, della vasta a diversificata famiglia degli Scincidae, lucertole con zampe corte e scaglie sovrapposte simili ad un’armatura medievale. Notevole coi suoi 81 cm di lunghezza inclusa la coda, paragonabili ad una piccola iguana, con cui condivide lo stile di vita erbivoro ed alcune delle abitudini quotidiane. Fatta eccezione per quella, straordinariamente atipica, di formare gruppi di famiglie estese scientificamente identificate come cerchie o circuli formati da membri di ambo i sessi che convivono condividendo il territorio, ma soprattutto proteggendosi a vicenda e salvaguardando i piccoli dall’eventuale minaccia dei predatori. E guai anche ai membri della loro stessa specie, appartenenti ad unità diverse, che dovessero trovarsi sconfinare nel reame di uno di questi affiatati clan. Dimostrando un’indole feroce che in linea di principio, non saresti incline ad aspettarti da presenze tanto placide e predisposte come ogni lucertola alla conservazione residuale delle energie…

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Tre metri di diametro: scoperto il fungo in grado di sostenere il peso di uno scienziato adulto

Testimone silenzioso di un secondo tipo di foresta, assai meno visibile ma non per questo priva dello stesso grado d’importanza ecologica per la sopravvivenza di un sistema complesso. Il regno dei polipori, funghi con il compito di decomporre il legno marcescente per poter restituire le sostanze nutritive alla terra, possiede un’ampia quantità di affioramenti possibili, nella guisa dei carpofori che spiccano visibili sui tronchi delle varie tipologie di arbusti. Senz’altro il più grande, notevole e imponente conosciuto fino ad oggi è lungamente stato il cosiddetto Sandozi peloso (Bridgeoporus nobilissimus) descritto dalla scienza per la prima volta nel 1949 dopo essere stato avvistato da occhi increduli nelle fredde foreste del Nord-Ovest statunitense. Fino a 140 cm di diametro, per 140 Kg di peso posseduti da un singolo corpo fruttifero, grossolano ed imponente come la scultura opera di un falegname intagliatore figlio del popolo segreto del sottobosco. Nulla di simile è stato perciò acquisito dal novero della tassonomia micologica, fino al recente 2017 quando sui pioppi Ussuri della Cina fu classificato inizialmente il B. sinensis, un possibile parente più piccolo del gigante, almeno finché non venne successivamente spostato nel genere degli Oxyporus, funghi maggiormente rappresentativi del Vecchio Mondo. Distinzione non da poco poiché indicativa di un diverso tipo di metabolizzazione della cellulosa, sostanzialmente incompatibile ed anche più efficace dei processi chimici sviluppati dal suo fratello maggiore.
Per un destino che parrebbe al momento differente da quello della terza possibile specie di quel genere, per il momento in attesa degli approfondimenti genetici di rito, individuata stavolta nello stato indiano dello Arunachal Pradesh, distretto del Kameng Occidentale. Scoperta dal ricercatore del Servizio Botanico di quel paese, Arvind Parihar durante un’escursione motivata dalle voci fatte circolare dai visitatori occasionali di quel territorio per lo più rurale. Dove i nativi, abituati al pragmatismo dalle circostanze, per lungo tempo avevano dato per scontato la presenza di questi funghi tanto massicci quanto inutili ed incommestibili dal punto di vista di noi comuni mortali…

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Danzante Astrapia, cometa iridescente che illumina le alture del Paradiso

Suoni e movimenti, rapidi colori che dardeggiano nella foresta: avventurarsi tra le alture della Papua può essere un’iniziativa che conduce, nelle appropriate circostanze, allo stato mentale che viene chiamato sinestesia. Questa l’esperienza di chi ama scrutare i volatili, là dove le piume sono il simbolo di quel principio artistico che anticipa le scelte dell’evoluzione, l’intrinseca creatività che ha dato vita ad alcune delle specie più notevoli e diverse da ogni altra forma di vita terrestre. Prendete, ad esempio, gli uccelli del Paradiso. Una famiglia di passeriformi, concentrati primariamente in Asia meridionale, fatto salvo per talune varietà australiane, che paiono voler testimoniare ad ogni osservatore la quantità di modi in cui è possibile riflettere la luce tramite l’impiego delle proprie piume, incorporate in magnifiche strutture anatomiche pensate per stupire, affascinare, trasportare verso un tipo di emozioni che trascendono la mera specie di appartenenza. Così come senz’altro ebbe metodo e ragione di sperimentare il celebre naturalista d’Oceania Fred Shaw Mayer, quando nel 1938 si trovò ad annotare nei propri diari l’avvistamento di un qualcosa che nessuno, in precedenza, sembrava aver trovato il modo di testimoniare di fronte al pubblico accademico del mondo della scienza. Come una lunga freccia scagliata da invisibili giganti, verde, nera e bianca, la cui forma oblunga possedeva le caratteristiche di un moto ondulatorio apparente. Incline a piegarsi ed oscillare libera nel vento, finché giunta presso un posatoio (poiché essa possedeva, contrariamente all’ingenua presunzione di precedenti studiosi, le zampe) diventava un’asta longilinea in posizione perpendicolare al suolo. Permettendo al possessore di tal mitico implemento di guardarsi agevolmente intorno, la vistosa piuma sferica sopra il suo capo dalle tonalità metalliche ad accentuare l’ornata magnificenza di un impatto finale del tutto privo di precedenti. Fu perciò automatico inserire, così tardivamente, l’uccello avvistato e caratterizzato con lo stesso nome del suo scopritore (Mayeri) nel genere risalente al 1816 dei cosiddetti Astrapia, dal termine greco ἀστραπή (astrapē) che significa “lampo” o “fulmine”. E benché nessuno degli esemplari categorizzati fino a quel momento vantasse l’aspetto complessivo dell’impareggiabile A. Festonata, nessuno si sarebbe trovato a dubitare della loro capacità di non sfigurare in un’eventuale sfilata di moda tra gli elevati rami della foresta. Giacché molte possono essere le strade per poter raggiungere la vetta ignota dell’eleganza. Tante quante le tonalità capaci di riflettersi, in un caleidoscopio sostanziale, dentro le iridi di chi guarda questi eroi dal basso…

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