Dalle fiamme nascono figure: Dhokra è l’India che perpetua nel metallo un repertorio ancestrale

Ci sono gesti che trascendono il trascorrere dei secoli e in determinati casi, addirittura dei millenni. Convenzioni semplici, comunemente ripetute nella vita di ogni giorno. O soluzioni architettate per rispondere a esigenze di un tipo maggiormente complesso, come la necessità d’intrattenimento, la realizzazione di obiettivi immaginifici o la commemorazione di una circostanza. È d’altra parte straordinariamente raro, dal punto di vista degli archeologi, che ciascuno di questi fattori possa emergere con le proprie caratteristiche dall’approfondita osservazione di un singolo reperto. Oggetti con il calibro inerente della Danzatrice di Mohenjo-daro, testimonianza della prima civiltà della valle dell’Indo risalente al 2300-1751 a.C. La scultura in bronzo di una giovane del tutto senza veli, in posa dinamica, ricca di dettagli e sorprendentemente realistica, che potrebbe costituire la più antica raffigurazione del corpo umano. Realizzata tramite l’applicazione di una tecnica che ancora oggi, nel Pakistan e il resto del subcontinente, viene implementata con le stesse linee guida e caratteristiche procedurali inerenti. Chiamata Dhokra dal nome dei Dohkra Domar, successiva comunità di artigiani itineranti, che si spostavano da un villaggio all’altro degli odierni stati di Chhattisgarh, Odisha ed il Bengala Occidentale. Ma sviluppata in modo autonomo dalle popolazioni di molti distanti paesi, e che in Europa saremmo inclini a riconoscere come un diverso tipo di cire perdue o fusione a “cera persa”, uno dei metodi fondamentali per imporre una determinata forma a un metallo fuso, prima che lo spegnimento della fornace possa indurlo rapidamente a solidificarsi. Un’imposizione tra le più sofisticate, in questo senso, dell’uomo nei confronti della natura ed in funzione di ciò il passaggio verso la scoperta rivoluzionaria per gli anni ’20 del Novecento, di quanto tecnologicamente fossero avanzati i regni e le città stato del subcontinente lungo il corso della Preistoria. Giungendo a costituire un filo ininterrotto, come punto di partenza piuttosto che l’arrivo, di un progressivo aumento di raffinatezza ed allargamento dei temi rappresentati, in un’arte che trascende la semplice finalità decorativa, essendo entrata a pieno titolo nei rituali successivi di ambito sia religioso che laico, nonché la fabbricazione di gioielli, attrezzi, ausilii alla vita della gente comune. Giacché il Dohkra è ancora adesso strettamente interconnesso alla cultura di questi luoghi fino a definirne in modo tangibile l’ideologia, sopravvivendo per quanto possibile immutato all’evoluzione moderna delle aspettative e la logica dell’economia di scala. Mettendo in evidenza come i propri mutamenti, di un tipo largamente pratico e finalizzati alla semplificazione di alcuni passaggi, vadano subordinati al mantenimento dell’idea fondamentale, rimasta largamente intonsa dalle origini tanto distanti lungo il corso di questa cronologia imperitura…

Leggi tutto

I turbamenti cromatici del metallo sottoposto alla tensione elettrolitica incostante

La dura legge del metallo detta regole implacabilmente solide, prive della tiepida clemenza delle cose viventi. Prima regola: un colore resta quello, se pure può essere chiamato tale, essendo meramente grigio, al massimo argentato, soltanto in un caso, oro splendente. Eppure non è certo questo il caso della menacanite, scoperta in natura dal reverendo William Gregor nel 1791, in una valle della Cornovaglia. E in seguito ribattezzato con il nome dei più imponenti titani mitologici, ad opera del tedesco Heinrich Klaproth: titan, titanium, titanio. Leggero, resistente, reattivo. Sia con elementi prossimi nella sua stessa sezione centrale ed a sinistra della tavola periodica, che altri non direttamente collegati, vedi l’O(ssigeno) che permea l’atmosfera del nostro stesso pianeta. Il che significa, nelle sgradite contingenze, che il suddetto può essere soggetto ad arrugginimento. Ma significa anche molte altre cose. Poiché ciò che non può dirsi, da ogni punto di vista, del tutto inerte non può essere del tutto privo di quella scintilla dell’esistenza, che in maniera metaforica siamo inclini a definire “vita” ovvero il regno dei sublimi mutamenti. Anche qualora siano indotti, con tecniche specifiche, tramite fattori ed intenzioni esterne. Ah, la contingenza elettrica: potere indotto tramite l’eccitazione delle particelle, moto d’attrazione e repulsione in alternanza o del tutto contemporaneo, l’origine di un ricco repertorio di processi. O come in questo caso, la fine pratica ed incontrovertibile di altri. Avete mai provato, per esempio, a intingere il terminale ritorto in fil di ferro di un assemblaggio di batterie all’interno di una bacinella conduttiva, entro cui siano stati immersi preventivamente dei bulloni, anelli o altri componenti del metallo figlio poetico di Oceano, Giapeto ed Iperione? Certamente avrete in quel momento visionato con i vostri occhi quel fenomeno, che in tempi meno tecnologici vi avrebbe messo di traverso ai promotori dell’incessante processo per stregoneria e delle arti oscure. Mentre la chincaglieria in questione diventava, in un progressivo florilegio di stupore e meraviglia: viola, azzurra, gialla, rosa, fucsia, verde opalescente e sul finire del fenomeno pomeridiano, nera come un lucido carbone ultramondano. Ancorché non sia del tutto necessario che un arcobaleno simile incontrasse il proprio termine eminente. Poiché continuando ad aumentare la tensione, sempre che vi fosse stato possibile nello scenario della nostra delicata ipotesi pre-moderna, la sequenza di colori avrebbe ricominciato da capo… Certo: questa è la terza regola dell’anodizzazione. Ove la prima è non parlare mai dell’anodizzazione. Per condurci alla seconda, tradizionalmente posta in forma di domanda ovvero, come diavolo funziona esattamente, l’anodizzazione?

Leggi tutto

Chakram, arma segreta del Sikhismo: l’indubbia letalità di un disco volante

Nell’antico romanzo epico indiano del Mahābhārata, scritto da Viyasa nel IV secolo a.C, si narra tra le altre cose delle gesta di Krishna, avatar terreno del dio Vishnu. E di come egli, affrontando più volte il nemico e cugino Shishupala, aveva imposto un numero di volte massimo in cui avrebbe tollerato di essere offeso. E così alla 101° volta in cui gli venne mancato di rispetto, estrasse dalla manica il divino Sudarshana Chakra, arma magica creata per la distruzione dei demoni, e lo lanciò all’altezza del suo collo. In questo modo, egli fu decapitato e la giustizia venne restaurata nel regno degli uomini. Naturalmente si trattò di un gesto non-violento, poiché guidato dal senso supremo della giustizia dell’oltremondo. Eppure resta indubbio come uno strumento simile, capace di emettere fiamme a comando, colpire sempre il suo bersaglio e separare arti o altre parti del corpo umano risultava essere piuttosto terrificante. In tal senso, tra tutte le armi divine menzionate negli antichi testi, esso potrebbe essere individuato come una delle più caratteristiche, proprio perché priva di dirette corrispondenze fuori dalle sue terre d’origine in Oriente. D’altra parte il chakram, termine in sanscrito che significa semplicemente “cerchio” o “disco” fu effettivamente utilizzato sui campi di battaglia, almeno a partire dall’epoca del grande Maharaja e sovrano dell’impero Sikh del Punjab, Ranjit Singh (regno: 1801-1839) essendo strettamente associato alla principale setta della casta guerriera del suo popolo, i Nihang. Anche detti Coccodrilli Immortali o “Coloro che sono al di là del tempo” volendo in tal modo significare che soltanto gli Dei potevano pretendere di giudicarli. Un tipo di prerogativa da cui fu sempre tipico, in ogni cultura immaginabile, far derivare un distintivo modo di porsi ed abbigliarsi, pretendendo di affrontare le casistiche del mondo. Che includeva, nel loro specifico caso, una grande quantità di armi. Immaginate, in tal senso, quanto segue: ogni soldato di fanteria di un’armata pre-moderna avrebbe dovuto essere, idealmente, uno schermagliatore. Giacché nella fluida impostazione di un’ordine di battaglia, risultava altamente probabile ci si trovasse col nemico fuori dal confronto all’arma bianca tra gli eserciti, in una situazione cui l’attacco a distanza diventava niente meno che fondamentale. Così come avveniva per gli Antichi Romani ed i loro giavellotti o le plumbata, proiettili tenuti dietro lo scudo e pronti da lanciare (idealmente) all’indirizzo dei barbari oltre i confini dell’Urbe. Ma i Sikh, combattenti spesso privi di armatura e dotati di equipaggiamento comparativamente più leggero, erano soliti equipaggiare i propri proiettili in modi alternativi. Come attorno ai polsi, alle braccia, alle spalle ed infilati nel turbante. Ragion per cui fu in pratica inevitabile, che costoro progettassero un’arma che aveva la forma di un cerchio, dotata di un foro centrale per trasportarla nella maniera già anticipatamente descritta dallo scrittore ed ufficiale Duarte Barbosa (1480-1521) che aveva parlato in un celebre paragrafo del tipo di effetto devastante che potevano avere in battaglia i Sikh. Il loro simbolo addizionale sarebbe diventato dunque, nel corso dei secoli, il chakram ma il suo nome alternativo, per l’efficacia che sarebbe in grado di dimostrare, avrebbe anche potuto concretizzarsi in “terrore volante”…

Leggi tutto

Il peso della corona di ferro e la sua valenza storica per la monarchia rumena

All’epoca il più giovane sovrano nella storia d’Europa, Michele I accedette al trono all’età di soli 5 anni quando il padre, il principe Carlo II, venne coinvolto in uno scandalo dovuto alla relazione controversa con Magda Lupescu, che lo costrinse ad abdicare. Ed il suo regno sarebbe stato probabilmente lungo e prospero a partire dal 1921, se non fossero intercorsi un paio d’importanti problemi: in primo luogo l’inefficacia del suo consiglio di reggenti, composto da suo zio Nicola e il Patriarca Miron Cristea, che portò il genitore a far ritorno a Bucharest dalla Svizzera per subentrargli per tutto il tempo della decade a partire dal 1930. E poi di nuovo nel 1947, dopo il periodo in cui la dittatura militare che si era sovrascritta alla monarchia rumena (ormai poco più che un simbolo) portò il paese ad allearsi con la Germania nazista, quando la rivoluzione comunista supportata dall’Unione Sovietica avrebbe portato all’abolizione della famiglia reale e la conseguente fuga in esilio dei suoi titolari sopravvissuti. Ciononostante figura tenuta in alta considerazione, in quanto discendente indiretto di uno dei più importanti personaggi della storia nazionale nonché membro della dinastia Hohenzollern-Sigmaringen, Michele I sarebbe in seguito stato accolto di nuovo dal suo popolo dopo la caduta di Nicolae Ceaușescu nel 1989, fino allo storico discorso tenuto il 25 ottobre del 2011 all’età di 90 anni. Sei anni dopo sarebbe infine deceduto, evento a seguito del quale gli venne fatto un funerale con tutti gli onori degni della carica che aveva un tempo ricevuto. Chiunque abbia dunque presenziato alla cerimonia, o l’abbia vista più probabilmente in televisione, ricorderà dunque un interessante manufatto collocato sopra il feretro del ex-monarca, scintillante nonostante l’assenza di materiali o pietre preziose. Una corona, chiaramente, ma di una foggia totalmente insolita ed inusitata: poiché questa fedele riproduzione della sola ed unica Coroana de Oțel, come lascia intendere il suo nome, era stata forgiata interamente da un metallo nominalmente vile. Nient’altro che ferro, laboriosamente lavorato in modo tale da imitare i fregi presenti nei tipici copricapi dei monarchi europei. E caso vuole che la storia di un simile oggetto risulti essere notevolmente interessante, in larga parte poiché rispecchia e permette di comprendere, in molte maniere, la storia della stessa Romania.
Per approfondirne l’origine tutto ciò che occorre fare, dunque, è riportare indietro l’orologio delle decadi fino all’ascesa di colui che la fece creare, scegliendola come l’allegoria dominante del suo concetto di potere e ciò che un signore supremo dovesse rappresentare, idealmente, per i suoi fedeli sudditi e sottoposti…

Leggi tutto

1 2 3 10