Il chiodo indistruttibile che regge il quadro storico della città di Delhi

“Altissimo Sovrano, Shah di tutto l’Iran, guardiano della Fede, Punitore degli Infedeli, Servitore di Tahmasp, supremo Qurchi-bashi dell’invincibile armata di Persia, ascoltate la mia petizione. Il vostro indegno capo dell’artiglieria che avete onorevolmente incaricato di distruggere il pilastro sacrilego nella moschea di Allah non intendeva offendere la tua magnificenza. Ed ogni danno accidentale riportato al lato prospicente della Quwwat-ul-Islam nella Qutb, invero, è il risultato di un drammatico incidente. Come potevamo sapere, Luce dei miei occhi, che puntando la bocca del nostro cannone all’indirizzo dell’alto pilastro stavamo commettendo un grave errore? Giacché nel corso della vittoriosa campagna contro le diaboliche forze dei Mughal, molte colonne simili sono state avvistate dalle nostre truppe. Insegne appartenute un tempo, ci hanno detto, all’autorità suprema di un impero vecchio più 1.000 anni. Che l’imperatore di Maurya era simile impiegare per esporre il proprio nome e i conseguenti editti, incisi laboriosamente sulla loro superficie convessa. Ciascuna egualmente sgretolata, con la stessa rapidità ed efficienza, dalla forza inarrestabile delle nostre potenti armi. Così al Vostro glorioso ingresso nella piazza costruita dal grande taṣawwuf Muḥammad Bakhtiyār, la spada ingioiellata ancora sfoderata all’indirizzo dell’offensivo oggetto, abbiamo interpretato tale gesto come segno che fosse venuto il momento di far fuoco. Potrete dunque constatare, se vorrete ritenermi meritevole di un sopralluogo, la crepa orizzontale da noi causata a mezza altezza nel pesante orpello. Prova di una mira assolutamente perfetta, nonostante il risultante effetto sul pilastro di ferro sia risultato comparativamente trascurabile al confronto delle aspettative. Ma nessuno poteva, in tutta sincerità, immaginare che il proiettile sarebbe RIMBALZATO finendo contro il muro della moschea, causando i danni che purtroppo tutti ben conosciamo. Per questo, Supremo Signore, chiedo a voi ed ai vostri giudici clemenza. In fede, il vostro soldato e matematico Dehkordi, nell’anno della conquista (n.d.T.) 1739.”
Fortuna? Sfortuna. Prestigio? Problemi. Alterne furono le molte vicissitudini, e i trasporti pregressi, di uno degli oggetti maggiormente misteriosi dell’intera parte nord dell’India. Sotto ogni aspetto degno di essere annotato, un monumento. Ma anche un simbolo, importante e imprescindibile, di quello che un sovrano fosse in grado di commissionare la fine di rendere omaggio alla divinità che giudicava il proprio nume tutelare. Il potente, saggio e attento Vishnu, a grandi lettere indentificato, assieme al committente, sull’immancabile iscrizione principale a mezza altezza, di un qualcosa che potremmo paragonare dal punto di vista funzionale a un obelisco del Mondo Antico dell’Occidente. Firmato in modo “anonimo” da colui che stato ormai da lungo tempo identificato, grazie a ragionamenti di contesto, come Chandragupta II (r.c. 375-415) alias Vikramaditya, terzo dinasta e supremo condottiero della dinastia di Gupta, durata tra il quarto e il sesto secolo dopo Cristo. La cui stessa capitale, ancora oggi centro amministrativo dell’intero subcontinente, sarebbe stata destinata a polarizzare l’attenzione dei molti nemici e oppositori del potere centrale. Ragion per cui, probabilmente, all’epoca decise di far erigere il più grande omaggio nei confronti della fede, un pilastro commemorativo di metallo dell’altezza di 7,21 metri e un peso (stimato) di oltre 6 tonnellate, non qui ma presso il complesso di caverne di Udayagiri, sito di un monastero dedicato al supremo protettore del Dharma e del Mondo. Così come avevano già fatto i suoi insigni predecessori, benché utilizzando un modo nuovo e totalmente privo di precedenti. Come largamente spiegato dalle guide turistiche dell’attuale punto di riferimento, l’oggetto noto come pilastro di Delhi è frutto della tecnica di saldatura a fuoco di multiple fusioni di un materiale ferroso, dal contenuto carbonifero abbastanza basso da poter essere chiamato ghisa. Eppure ad oggi, dopo oltre un millennio e mezzo di esposizione agli elementi, esso appare ancora privo di ruggine e perfettamente integro nel suo complesso. La ragione, per chi ha voglia di considerarla, sfida con preponderanza l’immaginazione della gente…

Le iscrizioni sulla superficie della colonna sono diverse, molte delle quali datate e con riferimento ai pregressi spostamenti intercorsi di un così celebre simbolo del potere costituito. La grafia utilizzata è alquanto insolita, probabilmente a causa delle difficoltà tecniche d’incidere il metallo.

Esistono, in effetti, numerose teorie sull’origine del termine di Delhi, tra cui quella che derivi dall’appellativo di un antico re dimenticato, che aveva il nome Dhillu. Un’altra possibilità è che venga dalla parola in lingua hindi silli, che significa sostanzialmente “la soglia”, come punto d’ingresso per la fertile pianura del sacro Gange. Ma forse la narrativa più affascinante è quella che collega tale aspetto a una specifica leggenda della dinastia Tomar (XVIII-XII secolo) durante cui l’egemonia della regione era stata riconquistata ai danni dell’impero Ghurid, antenato dei formidabili mammalucchi che avrebbero a loro volta preso nuovamente il controllo della capitale nel 1206, procedendo a costruire quella che sarebbe diventata la piazza sacra e le moschee della Qutb. Non prima, tuttavia, che i seguaci della fazione induista potessero camminare in quel luogo, costatando con somma sorpresa come la famosa colonna di ferro costruita da Chandragupta fosse stata spostata dagli islamici dove si trova ancora adesso, affinché potesse servire da simbolo delle conquiste pregresse (non prima, s’intende, di aver demolito la tradizionale insegna figurativa sopra il capitello, assai probabilmente raffigurante l’aquila divina Garuda, alata amica dell’eroe Rama, avatar terreno del dio Vishnu.) Il che diede luogo ad una problematica diceria. Si cominciò ad affermare, infatti, che la colonna di ferro fosse in realtà un chiodo piantato nel cappuccio carnoso di un grande cobra, il dio rettile Vasuki che supporta il peso del mondo. Così ne derivava che, nel momento esatto in cui l’oggetto avesse vacillato, la dinastia regnante avrebbe perso tutto il suo potere, dando inizio a un’irrecuperabile declino. E come avrebbe mai potuto resistere, a questo punto, la curiosità di chi era incline a giudicarsi onnipotente? Nella maniera riportata dalle cronache in relazione ad Anangpal (alias Bilhan Deo) re tomaride che si affrettò a far scavare sotto la colonna, per scongiurare la veridicità dell’improbabile leggenda. Soltanto per scoprire, tra l’orrore dei presenti, la parte inferiore della colonna imbevuta del sangue del grande serpente! E non ci volle molto, a quel punto, perché ordinasse di coprire tutto e dimenticare il malcapitato progetto. Benché da quel momento, o almeno così si narra, la colonna fosse risultata instabile e barcollante, ovvero in lingua hindi: dhilli (larga nella cavità ospitante). Così che dhilli → Delhi e direi che non c’è altro da aggiungere, in materia.
D’altra parte a rendere perplessi gli studiosi, fin dall’epoca delle prime descrizioni e articoli scritti sull’argomento nel diciannovesimo secolo dai commissari del colonialismo inglese, non è stato tanto il contesto storico ma l’effettiva composizione della colonna. Impossibilmente integra nonostante il clima piovoso ed umido dell’India settentrionale, ancorché composta di un materiale normalmente deperibile come il ferro. Un fenomeno che deriva, a conti fatti, da una fortunata contingenza…

La conquista di Delhi da parte di Nader Afshar, Shah di Persia, viene connotata dagli storici come un assoluto bagno di sangue, culminante con la morte di 20.000/30.000 civili nel corso di un solo giorno: il 22 marzo del 1739. Senza neanche giungere a considerare la distruzione ed il saccheggio di preziose opere d’arte che ne sarebbe, prevedibilmente, derivato.

Molte parole sono state spese, a tal proposito, parlando della formidabile resistenza dell’acciaio wootz dell’India arcaica, comparabile a quello di Damasco per durezza e resistenza alla corrosione. Fonte di una tecnica siderurgica risalente almeno al secondo secolo d.C, che derivava da precise tecniche rituali per la costituzione in essere del crogiolo e del suo contenuto. In cui veniva fatto ardere il minerale ferroso assieme a legna, carbone, erbe aromatiche ed altri ingredienti mistici. Fonti, in maniera assolutamente non prevista, di una significativa componente carbonifera nel prodotto finale. Il che non è d’altronde lo stesso esatto processo sperimentato dalla colonna di Chandragupta, benché i fattori contingenti possano essere nei fatti comparabili per quanto concerne l’effetto finale. Allorché risultò possibile constatare, grazie alle tecniche di spettrografia moderna, uno strato considerevole di idrati fosforosi sulla “pelle” esterna del pilastro, risultanti da probabili contaminazioni al momento della sua forgiatura originale. Tanto pervasivi da impedire, nei fatti, l’ulteriore attivazione e conseguente ruggine sul monumento. Così del tutto indistruttibile, indefesso.
Ed è in ultima analisi proprio questo ultimo aspetto, più di ogni altro, a colpire la fantasia dei visitatori, alcuni di loro inclini come di consueto a dare meriti ad eventuali alieni o esseri venuti fuori dal contesto, piuttosto che i nostri scaltri, certamente non meno ingegnosi predecessori umani. Finché non veniva tradizionalmente il momento, oggi impedito dall’installazione di un essenziale recinto, di mettersi con la schiena a ridosso della colonna, nel tentativo di circondarla con le proprie braccia. Un’impresa ritenuta conduttiva, a seconda dei casi, all’opportunità di esprimere un desiderio o dimostrare la propria fedeltà alla consorte. E viene da chiedersi in quanti, nel pregresso di una così lunga presenza architettonica, siano effettivamente riusciti a farlo.

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