E se davvero le termiti fossero il motore dietro i cerchi delle fate australiani?

Creature invisibili ed onnipresenti, nascoste sotto il suolo impenetrabile della brughiera. Proprietarie del segreto labirinto dove, per un attimo di distrazione o il canto psicologico delle sirene, udibili presso allarmanti cerchi di funghetti prataioli, erano soliti smarrirsi i bambini. Poiché non c’era nulla nel vecchio folklore inglese che potesse dirsi più affascinante, ed al tempo stesso pericoloso, delle fate. Trasferendo lo scenario analizzato al territorio degli antipodi, d’altronde, popoli diversi ed un sistema di credenze derivante dall’osservazione del proprio contesto avevano creato alternative alle ragioni del mito. Per cui si pensava, con una base fortemente radicata nel bisogno, che lo spirito fondamentale del sottosuolo potesse risiedere all’interno dei brulicanti, operosi esponenti dell’ordine Blattoidea: le termiti delle cattedrali o Nasutitermes triodiae altrettanto inclini, all’insaputa di molti, alla costruzione di un diverso tipo di città sepolte. Quelle interamente al di sotto del suolo, che generazioni successive di scienziati hanno studiato ormai da decadi, in associazione ad un’annosa questione. Sto parlando, per essere maggiormente specifici, della regione di Pilbara nello stato dell’Australia Occidentale e dei suoi cerchi disegnati nel paesaggio, dalla forma assai variabile che assomiglia vagamente ad un esagono irregolare. Forme misuranti tra i 2 e i 24 metri cadauna, ben visibili per la mancanza pressoché totale di vegetazione all’interno, sostituita da un terreno particolarmente solido e per nulla permeabile da parte delle rare piogge locali. Interrogandosi sui quali l’ecologa del Centro di Ricerca Scientifico del Commonwealth, Fiona Walsh, ha pensato finalmente di fare qualcosa a cui, piuttosto stranamente, nessuno aveva mai pensato prima di questo momento: chiedere ai nativi di questi stessi luoghi, ovvero gli aborigeni, la loro opinione. Ma cosa può effettivamente offrire un popolo che ha tramandato la sua conoscenza in modo per lo più orale attraverso secoli o millenni, alla puntuale ed oggettiva ricerca scientifica moderna, avente a che vedere con qualcosa di così sterile e remoto? A quanto pare, moltissimo. O comunque abbastanza da cambiare, potenzialmente, le carte in tavola per la diatriba in oggetto. Vedi l’idea, originariamente proposta dallo studioso dei deserti Stephan Getzin dell’Università di Göttingen nel 2016, che questa particolare versione della circonferenza fatata, presente incidentalmente anche tra le sabbie del deserto della Namibia, potesse costituire l’effettiva derivazione di un fenomeno per lo più idrologico connesso alle dinamiche del clima. Conseguente dall’instaurazione di un feedback positivo nell’assorbimento dell’acqua troppo rapido nelle sabbie semi-solide non-newtoniane (Namibia) oppure impossibile da parte del suolo eccessivamente compatto (Australia) in ciascun caso agevolato proprio dalla presenza dei canali conduttivi delle radici di piante pre-esistenti…

I cerchi delle fate possono assumere molti aspetti, frequentemente paragonati ad antiche impronte divine o il segno dei sigari spenti dai giganti. Naturalmente le leggende abbondano, sebbene subordinate alle tipiche notazioni pragmatiche di chi vive nel contesto di aride circostanze.

Sto parlando a questo punto della stessa erba spinifex, imprescindibile abitante vegetale delle dune di sabbia, che costituisce la parte verde o netto confine dei reiterati cerchi della zona di Pilbara. Laddove l’argomentazione contrapposta proveniente dal diverso approccio, particolarmente associata al biologo Norbert Juergens dell’Università di Amburgo grazie ad un suo studio del 2013, vedeva piuttosto quel fenomeno come una dimostrazione diretta della tendenza delle sopracitate Nasutitermes triodiae a rosicchiare e fagocitare con trasporto vaste quantità di radici, fino all’uccisione sistematica delle piante tanto coraggiose da tentare di crescere in un simile ambiente. Il che in effetti non sembrava aver convinto del tutto il mondo accademico, con diversi studi statistici condotti nel corso degli anni proprio al fine di evidenziare come l’associazione alla presenza di termitai sotterranei non fosse poi così coerente con quella dei misteriosi cerchi fatati. Almeno fino alla ricerca pubblicata proprio all’inizio da aprile, in cui Fiona Wash ha finalmente individuato il nome in lingua aborigena Manjilyjarra di tali piccole radure, linyji, connotandole con una serie d’importanti nozioni prese in prestito dal sapere delle antiche comunità locali. Indissolubilmente legate ad essi soprattutto durante le proprie escursioni solitarie o nomadiche, proprio per la natura eccezionalmente compatta e non permeabile del terreno presente al loro interno, considerato una sorta di “tavolo da lavoro” naturale, dove si praticava ad esempio la trebbiatura dei semi commestibili raccolti nel bush e la preparazione di altre fonti di cibo. Quando non piuttosto, questione assai più rilevante, la cattura diretta di ampie quantità delle termiti volanti chiamate Warturnuma, durante una pregressa età di estrema abbondanza chiamata “epoca grassa” in base alle storie tramandate dalle ancestrali tribù di Pilbara. Da qui l’idea della ricercatrice di approfondire, in un lungo periodo iniziato dall’ormai remoto 2016, il ricco repertorio di canzoni, immagini tradizionali e “sogni” posseduti da queste genti in apparenza primitive, ma in realtà ultime depositarie di un remoto canone di conoscenza pregressa in merito alle strategie di sopravvivenza e sostentamento in un ambiente climaticamente ostile come l’entroterra australiano. Altrettanto interessante, nel frattempo, la notazione registrata in merito alla lucertola Mulyamiji (Liopholis kintorei) dai nativi associata ai linyji per la tendenza a deporvi le uova dopo i rari periodi di pioggia, sfruttando la naturale impermeabilità del suolo per poter continuare a garantire l’idratazione dei nuovi nati. Nient’altro che un esempio ulteriore da tenere in considerazione per la quantità di nozioni oggettive, potenzialmente desumibili in materia dell’ecologia corrente. Per poter tentare una via della notazione scientifica successiva, mediante l’applicazione di metodi ed osservazioni capaci di fornire la conferma finale.

I cerchi delle fate, nella loro accezione idrologica non necessariamente connessa alle termiti, figurano nella topografia di diverse località nel mondo, tra cui l’Australia, la Namibia e la Cina (Shanghai). Costituendo l’effettiva risultanza di un gradiente, piuttosto che fattori universali, essi possono anche prescindere da un clima secco e privo di piogge. Benché ciò sembri favorirne l’occorrenza, in grandi e ininterrotte matrici di punti.

Che il “mistero degli antichi cerchi” possa essere effettivamente ed inconfutabilmente “risolto” allo stato dei fatti attuali, come hanno affermato diverse testate online, resta ragionevolmente opinabile sulla base dei fatti a nostra disposizione. Anche l’idea della competizione reciproca delle piante verso acqua ed altre risorse limitate può essere, del resto, una concausa collaterale o primaria, sulla base delle mere notazioni matematiche a nostra disposizione. Ma l’idea che i linyji possano essere il residuo rimanente, di termitai un tempo ancor più vasti e svettanti sul paesaggio locale, sembra oggi acquisire un fondamento logico più solido e riconducibile all’effettiva verità dei fatti.
Un’ulteriore e valida lezione, estremamente utile, sull’importanza di mantenere una mente aperta verso chi potrebbe aver ereditato la conoscenza. Pur non disponendo di prestigiose certificazioni o un evidente curriculum pregresso di pubblicazioni internazionali. Che d’altronde non interessano affatto, e mai hanno suscitato il fascino naturalmente imperituro, delle fate.

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