Un utile tragitto esplorativo nel sublime giardino dei bonsai volanti

Disse il ranger Gandalf all’antico Dio della Foresta: “Possiamo ricostruirla, abbiamo la tecnologia”. Un fruscio tra gli alberi sembrò accentuarne le parole, mentre uccelli decollavano portando in alto il sentimento situato verso il perno dell’idea. “E come, uomo dal grande cappello che proviene dai terreni oltre l’Interstatale, intendi perseguire un simile obiettivo?” Chiese perplesso il grande cervo parlante, chinando la sua testa lievemente in un segno di selvaggia minaccia gestuale. “Facendo fluttuare monadi nel lattice reticolare, ripetizione bio-ispirata ed effimera delle perdute circostanze. Partendo dalla cima, affinché tutti possano vedere in che modo le cose sono cambiate. Con soltanto uno scheletro quadratico a sostenere il fondamento delle intricate radici fluttuanti. Osserva.” Disse lui, per mettere in pratica il sublime gesto che riassume l’intera esecuzione di una procedura, racchiudendo l’angolo prospettico del suo punto di vista tra il pollice e l’indice dal punto di vista del suo occhio sinistro. Mentre l’antistante quercia, proiettata nella sesta dimensione e liberatosi del manto del suo muschio secolare, diventava piccola e iniziava ad allungarsi. Ma c’era un po’ di terra sotto il tronco gravitazionale. E fango nella forma di una sfera planetaria, presupposto e simbolo dell’uomo primordiale dell’Esistenza.
Una soluzione interessante messa in opera con la potenza del linguaggio visuale. Questo è un senso, tra i molti possibili, dell’installazione inizialmente temporanea della Kokedama Forest di William E. Roberts e Laura Santín, alias Nomad Studio, coppia di artisti, architetti e progettisti d’ambienti con sede a Brooklyn, le cui opere costruite a partire dal 2009 hanno avuto modo di stupire ed affascinare molti appassionati di botanica, e non soltanto quella. Come i visitatori dell’edizione 2021 della Philadelphia Flower Fair, prima della storia ad essere stata tenuta all’aperto presso il parco FDR (Franklin Delano Roosevelt) dove una serie di esposizioni concettuali hanno tentato di far breccia nel senso comune, sollevando idee e questioni d’importanza assolutamente significativa. E forse nessuna con la forza espressiva che caratterizza questa strana opera, fusione di concetti occidentali ed orientali, edificata con un’evidente perizia tecnica difficile da trasferire in secondo piano. Presentandosi sostanzialmente, agli occhi dei suoi fruitori, come una sorta di arena digradante o panopticon convesso, attraversato da un sentiero angolare immerso molto prevedibilmente nel verde. Le cui fronde appartengono, d’altra parte, a qualcosa che esula in maniera strabiliante dalle convenzioni delle aspettative del mattino, pomeriggio e sera: ovvero circa 1.200 sfere verde oliva, sormontate da una serie di autoctoni seedlings (alberelli) gentilmente forniti a tal fine dalla Pinelands Nursery, tutti appartenenti a vari arbusti nativi dello stato della Pennsylvania. Ciascuno posto in corrispondenza dell’incrocio tra una serie di cubi metallici, fragili e svettanti come la struttura dell’ecosistema vigente…

Una composizione attentamente studiata che determina i confini e logiche di un vero e proprio meccanismo. Nella ripetizione di quel modulo, che tende fondamentalmente all’infinito.

Il tema fondamentale dell’opera appare dunque rintracciabile nel concetto della terra (soil) o sostrato, il più basico bioma da cui trae sostegno ogni forma di vita animale e vegetale del nostro fin troppo affollato pianeta. Una materia ricca di opportunità e sostanze nutritive, tanto spesso trascurata e irruentemente “bonificata” tramite l’impiego di additivi chimici, modifiche al paesaggio ed alte dolorose interferenze opera delle mani umane. Finché ogni luogo ricco di vegetazione, non importa quanto magnifico ed affascinante, non finisce per essere sostenuto da una fragile rete invisibile, facile soggetto di disquisizioni filosofiche in merito all’impermanenza di ogni cosa. Ma soltanto raramente, il bersaglio di sincere opere di ripristino e ritorno allo stato di grazia dell’altro ieri. Un messaggio di suo conto elaborato tramite l’impiego di un approccio che potremmo definire tradizionale, benché nato in epoca moderna nell’arcipelago situato più a sinistra nelle mappe della geografia corrente. Il Giappone, niente meno, nell’accezione veicolata dal Sig. Isao Umiji della prefettura di Kochi, il fabbricante di bonsai che nel 2014 all’età di 70 anni è riportato aver scoperto un nuovo modo di elevare l’arte pratica dei suoi insigni predecessori. Quello di prendere la pianta oggetto delle proprie attenzioni e piuttosto che metterla in un vaso, intrappolarne le radici in una palla (玉 – tama) di muschio (苔 – koke) da appendere in appartamento, idealmente nello spazio sacro e meditativo del tokonoma. La metodologia operante per la creazione di kokedama è dunque di un tipo piuttosto semplice, benché richieda precisione manuale ed una certa dedizione all’idea. A partire dall’ottenimento e macinazione preventiva del giusto tipo di terra, idealmente prelevata dal fondo fangoso della risaia o appartenente al genere dell’akadama (argilla rossa granulosa). Per poi aggiungere uno strato di muschio compattatore come l’arahashiragagoke, lo shiragagoke o il sunagoke mentre si appallottola nella maniera più perfetta l’ammasso color marrone. Benché sia importante specificarlo, qualsiasi altra specie originaria dei nostri lidi possa andare altrettanto bene. Per poi aggiungere immancabilmente la pianta, appartenente in genere a specie palustri amanti dei climi umidi, come acorus gramineus, juncus spiralis, ophiopogon etc. A coronamento finale, si procede talvolta ad avvolgere la sfera sottostante in una rete di spaghi sottili al fine di massimizzare l’integrità strutturale, con una tecnica che ricorda quella per la creazione delle palle temari, tradizionali giocattoli per bambini creati dall’avvolgimento di molteplici fili colorati. Una volta ottenuto il prodotto finale, si dovrà quindi continuare ad immergerlo periodicamente in acqua, al trascorrere di ogni periodo di 3-4 giorni, al fine di mantenere umida e in salute la propria kokedama.
Una moda nascente che vede attualmente la proliferazione di siti e portali dedicati alla vendita di kit o piante già cresciute, con prezzi per tutte le tasche, sebbene si tratti anche di un’attività praticabile in casa, senz’altro più semplice e percepita come maggiormente moderna rispetto alla realizzazione del classico bonsai. Così efficientemente sfruttata dai creativi del Nomad Studio, per sollevare il tipo d’interrogativi di cui la nostra epoca sembra avere la maggior necessità presente e futura.

Molti sono i video tutorial su YouTube per la creazione dei kokedama, prassi forse nata in patria dall’idea della lucidatura della “sfera di fango” dorodango (泥だんご) uno strano passatempo fondato sulla continuità e ripetizione dei gesti (vedi articolo).

Originariamente smantellata alla fine della fiera di Philadelphia, l’installazione Kokedama Forest è stata quindi conservata in vita e soltanto recentemente trasferita presso il Tyler Arboretum del Delaware, dove potrà continuare ad essere visitata all’interno di un percorso permanente d’introspezione ed approfondimento sull’ambiente. Così come agevolato dalle precedenti opere della coppia d’artisti, vedi il doppio monolito Exculpatio partecipante alla Biennale di Venezia del 2022, consistente di uno spazio angusto costruito un blocco dopo l’altro con blocchi “digitali” di legno, ciascuno marchiato a fuoco con l’immagine di un QR Code. O ancora l’interessante iScape di Chinatown a New York, uno spartitraffico triangolare sormontato dalla svettante “lanterna” di metallo semitrasparente per la realtà aumentata, capace di trasportare i visitatori in un mondo fantastico mediante l’utilizzo dei propri telefoni cellulari.
Congiunzioni conturbanti degli antichi sentimentalismi e la vertiginosa caduta “verso l’alto” dell’odierna tecnologia applicata. Che d’altronde non potrà continuare esistere, senza l’impiego di un sistema di valori appropriato. Come quello preservato dall’antico Dio della Foresta, con le corna, zoccoli e tutto il resto. La cui nobile presenza non potrà mai realmente prescindere dalla vulnerabile natura della sua artiodattile genìa. A meno che si elevi, pochi centimetri alla volta, dalla tenue quotidianità dell’evidenza.

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