Ogni giorno che giungeva a conclusione continuavamo ostinatamente a non sapere quello che stavamo facendo. Mentre con costanza addirittura superiore a quella di una tartaruga innamorata, suggevamo il dolce fluido contenuto dentro il cuore dei distributori. Rosso, verde, bianco ed arancione, dal sapore variegato quanto quello dei logotipi stampati sull’involucro metallico di un tale dono delle corporations nei confronti della sete umana. E neanche giungevamo al punto di essere abbastanza soddisfatti, quando al suono irato dei gabbiani, gettavamo dall’estremità del molo l’indesiderata e dura risultanza del ristoro; semplice metallo scricchiolante, inutile, troppo leggero per poter prendere il volo. Troppo pesante per riuscire a galleggiare. E che a causa di questo, sprofondava in mezzo ai flutti per posarsi sulla sabbia soffice priva di alcuna aspettativa. Accarezzata dalle onde, orribile, inquinante, inutile lattina. Quindi due, poi tre ed infine una decina. Abbastanza per riuscire a seppellire anemoni e coralli, a meno che il granchio eremita, piccolo paguro delle circostanze, non giungesse per eleggerne una a propria umile dimora. Prima che un diverso diavolo venuto dallo stesso mondo, serpeggiando silenzioso fino a simili recessi, pronunciasse la segreta formula che può restituire dignità e la vita a tutto quello che a rigore non dovrebbe mai averne possedute. Cos’è, in fondo, un robot? Se non la manifestazione semovente ed automatica dei più segreti impulsi elettrici sperimentati dalle pratiche sinapsi interconnesse sul trascorrere dei giorni? Colui o coloro che, facendo un buon viso dall’integrazione di elementi frutto di un’ingegneria ed intento, si aggirano e producono e gioiscono fino alla fine della propria non-vita tra recessi di questa non-Terra. Mentre altri nascono per pura convergenza quasi accidentale, di una serie d’atomi portati assieme dai potenti flussi delle nanomacchine, che si uniscono a formare organi, cuore, cervello. Tutti uguali l’uno all’altro, eppur così diversi dalla convenzione! Spaventosi a volerla dire con sincerità, nella completa risultanza dei loro intenti. Poiché l’uomo artificiale, oppure omuncolo che dir si voglia, non agisce in base ai crismi ereditati dalla collettività educata. Ma danzando canta e si agita, sobbalza, grida a pieni polmoni la ragione meno chiara della sua esistenza. Ovvero ricordarci, con i gesti, che non sappiamo assolutamente quello che stiamo facendo.
C’è una possibile associazione sinistra, nell’amichevole e morbida mascotte antropomorfa della Michelin, per coloro che sono nati e cresciuti nella terza maggiore metropoli africana, quella Kinshasa/Brazzaville che un tempo era stata nota con il nome di Léopoldville, in onore di uno dei più spietati sfruttatori a cui il mondo abbia mai avuto la sfortuna di dare i natali. Quel Re Leopoldo II dei Belgi, che in una sorta d’inimmaginabile esperimento sociale, aveva creato alla fine del XIX secolo una fiorente industria dell’albero della gomma, mentre i suoi carcerieri punivano e mutilavano tutti coloro che non raggiungevano la propria quota di raccolto secondo l’opinione dei supervisori. Esseri umani trasformati in macchine e quindi alla stregua di rottami biologici, non più utili a quel punto della prototipica e ingombrante lattina ormai svuotata del suo ambrato nettare divino. E se soltanto in base alle credenze ereditarie dello Nkisi, il golem dei chiodi o feticcio vendicativo di quelle terre, il materiale per pneumatici in eccesso avesse preso la forma di un essere di configurazione vagamente antropomorfa, allora il mondo avrebbe conosciuto la reale portata universale della legge del karma. Come quello messo in mostra, in modo certamente più incruento, dal moderno sciamano Eddy Ekete, l’evocatore del mostruoso Homme Canette, per metà uomo, per metà lattina e per la terza metà, farsesco clown che accende la rumorosa luce dell’evidenza…
Difficilmente d’altra parte siamo soliti notare i nostri simili che soffrono, ed ancor più arduo sarebbe per noi capire chi paga il conto dell’accumulo di materiali inutili entro gli spiacevoli recessi delle circostanze. Pesci? Uccelli? Scolopendre? Se costoro avessero una voce, forse le cose sarebbero alquanto diverse. O magari, se soltanto qualcuno trovasse il modo di esprimere coi gesti le loro idee… Ekete, artista nato nel 1978 presso la doppia capitale congolese, racconta di aver avuto l’idea durante una delle sue trasferte come autore di quadri e sculture presso la città di Strasburgo, sede secondaria del Parlamento Europeo. Uno dei luoghi più puliti e meglio tenuti del Vecchio Continente, dove nonostante tutto un occhio esperto poteva riuscire a scorgere l’occasionale accumulo di cose-che-non-avrebbero-dovuto-esistere. Rifiuti e scarti, orribili lattine ormai prive di qualsiasi scintilla del desiderio. Un volo pindarico dalla portata niente affatto indifferente, a partire dal quale la deriva di concatenate cause ed effetti fu comprensibilmente piuttosto breve. Poiché una volta notato, era possibile ignorarlo? Ed una volta considerato, chi avrebbe potuto resistere all’opportunità di dargli un senso? E quale senso migliore possiamo concepire, che la vita stessa? Fast-forward fino all’ora di sera quindi, poco fuori la galleria che avrebbe ospitato nei prossimi giorni le sue opere assieme a quelle di altri giovani artisti africani, e ritroviamo il nostro amico Eddie agghindato come soltanto uno sciamano avrebbe potuto esserlo. Con il manto tintinnante ed implacabile del cumulo di scartato alluminio. Il redivivo ammasso delle cellule dimenticate, assieme ancora una volta, cucite e legate assieme alla maniera di un costume aziendale per il mondo scintillante della pubblicità. Ciò che cambia tra la creatura delle ruote veicolari frutto di un’epoca relativamente civilizzata e colui che nasce e cresce dalla laguna nera di una discarica informale, è tuttavia l’assenza di un chiaro e rassicurante intento. Mentre sobbalzando e scampanando fragorosamente alla stregua di un tradizionale mamuthone sardo, ricorda insistentemente il semplice fatto della sua esistenza. Che possa esserci e agire, laddove niente e nessuno si sarebbe normalmente preoccupato neppure dei suoi atomi costitutivi accartocciati ed eminenti.
Facendo giustamente scuola con il suo messaggio e metodo espressivo, ritornato quindi in Congo, Eddie Ekete diventò un’ispirazione per i suoi colleghi studenti d’arte dell’Accademia di Kinshasa. Che in un giorno propizio situato circa cinque anni fa, formarono il collettivo d’assalto Kinact, fermamente intenzionato ad espandere e far conoscere il concetto elaborato per la prima volta dall’evocatore dell’intera inconcepibile questione. Così frequentando, e disturbando i fiumi di persone intente a frequentare le affollate strade della capitale, lo sciamano ed i suoi sgherri hanno moltiplicato le creature frutto della propria creatività, come altrettanti indesiderabili supereroi: Patrick Kitete è diventato l’uomo flip-flop, fatto di ciabatte intrise della polvere della strada; Shaka Fumu Kabaka invece l’essere lametta, un cavaliere medievaleggiante con tanto di astro solare dipinto al centro esatto della sua pericolosa corazza; Jaled Kalenga si è coperto di pezzi di vecchie radio, richiamando il mondo fuori controllo delle fake news. Altri colleghi, in modo persino più pregno, hanno evocato le esperienze terribili della loro giovane esistenza: così Falonne Mambu, vestita di fili elettrici, ha voluto sollevare il discorso della violenza sulle donne nelle strade insufficientemente illuminate della metropoli. Shaka Fumu Kabaka, con teste, torsi ed arti di bambole, ha rappresentato le vittime senza nome della guerra dei sei giorni tra Uganda e Ruanda, che nel giugno del 2000 costò la vita a circa 3.000 abitanti dell’incolpevole cittadina congolese di Kisangani.
È indubbio dunque come la provenienza da un paese francofono rappresenti senz’altro un vantaggio per chi pur essendo in Africa, vorrebbe riuscire a comunicare i contenuti del suo importante messaggio. Ed agendo come una sorta di ambasciatore del mondo dell’arte, Eddie Ekete si è più volte dimostrato a suo agio in questo difficile ruolo, come con l’opera del 2021, La maison du chef/Ndaku ya mokonzi, installazione itinerante per la Francia costruita come la residenza tradizionale di un capo villaggio, tanto spesso visitata all’inizio dell’epoca moderna da sedicenti “esploratori” e “diplomatici” pronti a fare dono di oggetti insignificanti come ninnoli o specchietti lucenti. Così l’angusta casetta, ricoperta della spazzatura proveniente dal suo paese, restituisce idealmente il favore a qualche secolo di distanza, conformandosi ancora una volta alla legittima legge di azione e reazione delle internazionali convergenze.
Ed è davvero un qualche tipo di robot privo di sentimenti, ciò che agisce per un fine tanto nobile, quanto agevolare la divina e imprescindibile legge del karma? Così l’uomo di lattine sorge, rumorosamente, dai recessi del più indesiderabile tra tutti quartieri: la discarica, formatasi come un’infestazione di batteri aerobici di un mondo drammaticamente disordinato. Ove il nostro fato si confonde, e resta saldamente incatenato a quello dell’orribile creatura di spazzatura.