Il pilastro che fluttua nel tempio dei giganti

Ci sono luoghi, dall’antica e importante vicenda storica, presso i quali la principale attrazione turistica finisce per essere un singolo gesto, eternamente ripetuto dai visitatori curiosi, secondo un rituale che di ben poco è cambiato attraverso i secoli. Così come i fotografi della torre di Pisa, che cercano d’inquadrare i propri compagni di viaggi mentre ne falsano la prospettiva sulla pubblica piazza, nel territorio d’India dello stato dell’Andhra Pradesh, ben pochi varcherebbero queste sacre mura senza portare con se una tovaglia, un canovaccio, oppure qualcosa di oblungo da far penetrare al di SOTTO. Del blocco granitico da svariate tonnellate, che costituisce una delle molte colonne riccamente ornate del sancta sanctorum del tempio dedicato all’Avatar di Shiva Veerabhadra, presso la cittadina di Lepakshi, non troppo distante da Bangalore. Il quale, in maniera piuttosto insolita, non sembrerebbe poggiare sul pavimento. O almeno non completamente, come ci spiega con precisione l’autore di questo video Dong Trieu, che sembra aver dedicato alla questione una lunga sequenza di pensieri, giungendo infine alla conclusione che nonostante l’esistenza di un “trucco” (la pietra poggia in corrispondenza di un angolo) esso costituisca cionondimeno una delle meraviglie architettoniche della sua intera nazione. Eventualità condivisa, a quanto sembrerebbe, dai precedenti funzionari del governo coloniale inglese, che tentarono di svelarne il funzionamento danneggiandolo e lasciandolo in posizione parzialmente inclinata: un altro punto di contatto, se vogliamo, con il campanile della cattedrale di Santa Maria. L’epoca di completamento per una mera coincidenza poi, non è così distante, visto come le possenti mura di un simile luogo di culto furono messe assieme, con una tecnica delle pietre cesellate ed incastrate fra di loro non dissimile da quella dei edifici Maya di Machu Picchu, durante la dinastia coéva dei re Vijayanagara (1336-1646) per volere dei due governatori e fratelli Virupanna Nayaka e Viranna, affinché al suo interno abitasse in totale ascesi il saggio vedico Agastya. Benché esistano leggende locali che fanno risalire, almeno alcuni degli elementi, ad un’epoca molto più antica. E alla situazione che venne a crearsi per l’amore smodato nei confronti di due donne.
Sita era la diretta discendente della dea della Terra Bhūmi, che scelse di vivere tra gli umani come figlia adottiva del re Janaka di Videha. Riuscendo ad affascinare, con la sua naturale bellezza e l’aura straordinaria, niente meno che il principe Rama, il settimo avatar del dio Vishnu. Se non che i due, scelto di vivere in esilio assieme al fratello di lui nel territorio di Lakshmana, finirono per attrarre l’attenzione del potente Ravana, il sovrano demoniaco del regno di Lanka, che senza la benché minima esitazione, la portò via con la forza. Questa vicenda, alla base della principale guerra del lungo poema epico Mahābhārata, fu alla base d’innumerevoli battaglie, gesta eroiche e sacrifici, tra cui il primo fu quello di Jatayu, l’uccello magico simile ad un’aquila che faceva parte del vasto seguito di Vishnu. Il quale, assistendo dall’alto all’efferato rapimento, si lanciò subito all’inseguimento del re, se non che questi, proprio nel mezzo delle lande desolate, non rivelò il suo vero e possente aspetto. Allora Ravana, nella sua guisa di vero appartenente alla schiatta dei demoni Rakshasa, si sollevò in piedi sul suo carro, con dieci teste e centinaia di braccia, ciascuna delle quali impugnava un’arma terrificante, il ventre rigonfio per effetto del nettare dell’immortalità. I due combatterono nei cieli del mondo, finché inevitabilmente, l’imprudente Jatayu si vide strappare le ali e precipitò rovinosamente al suolo. Mentre il malvagio riprendeva la sua fuga, quindi, Rama giunse sulla scena, trovando l’amico volatile morente. Così dandogli l’estremo saluto pronunciò le famose parole “Le, Pakshi” ovvero in lingua telugu: “Alzati, uccello”. Gli umani, che avevano sentito il suo grido di dolore, decisero quindi di scegliere questo nome per l’intera città, e il luogo di culto che sarebbero sorti sulla scena di un simile tragico evento. Ma il tempio di Lepakshi, che come dicevamo è anche associato al nome di Veerabhadra, ospita al suo interno una statua in pieno armamento bellico di uno spaventoso guerriero, che aveva amato, anch’egli, una leggiadra fanciulla e che se l’era vista sottrarre per un crudele scherzo del fato. Si trattava di una delle personificazioni terrene più terribili del dio Shiva, che dopo un lungo periodo d’impegno spirituale da parte di lei, aveva scelto di lasciarsi conquistare da Sati, la figlia del re che era figlio di Brahma, Daksha. Se non che quest’ultimo, circondato dai maggiori lussi terreni, provava disprezzo per la vita condotta dal genero, che abitava tra i poveri, portava la barba lunga e ricopriva la sua pelle di cenere come i guru itineranti, circondato dall’ordine dei suoi devoti Bhutagana. Così che un giorno, invitata sua figlia a palazzo con la scusa di uno yajna (sacrificio) a Brahma, prese a criticarla di fronte a tutta la corte, ricoprendola di insulti così terribili che la spinse a suicidarsi, gettandosi nel fuoco. Questo fu un terribile errore. Quando Shiva venne a conoscenza della notizia, subito si tagliò un capello e lo divise in due. Da tali frammenti, quindi, scaturirono i due avatara Veerabhadra e Bhadrakali, tra i più pericolosi guerrieri che fossero mai vissuti. Questi si posero alla guida dell’armata dei Bhutagana, e presero d’assalto il palazzo di Daksha.

Le storie del Mahābhārata e degli altri canoni mitologici d’India trovano vivace espressione nel tempio di Lakshi, pieno di statue e magnifici affreschi della scuola dei re Vijayanagara. Talmente vivide sono queste rappresentazioni, da sembrare talvolta pronte a muoversi da un momento all’altro.

Ora non credo che sia necessario sottolineare quanto fosse terribile l’ira di Shiva, il dio che figura nella Trimurti col ruolo di Distruttore, in grado di porre termine a ciascun grande ciclo della ruota delle Ere. La battaglia fu orribilmente sanguinosa e più simile in effetti a un massacro, con l’esito finale di Daksha che, poco prima di essere decapitato, si appella al grande principio generativo Para Brahman, che lo perdona e porta via dal mondo dei viventi. Solo in questo modo era possibile far uscire di scena, a lungo termine, il figlio immortale di Brahma.
Questa storia è doppiamente rilevante per un’analisi del tempio di Lepakshi vista la presenza, a circa 200 metri dalla principale sala delle statue, di una massiccia scultura monolitica di Nandi, il toro leggendario che fu la cavalcatura di Shiva in battaglia. Un’affascinante scultura, ricavata incredibilmente da un singolo gigantesco macigno, che costituisce la più imponente rappresentazione della creatura nell’intero territorio indiano. E la cui stessa realizzazione, nell’opinione della nostra guida in questo fantastico luogo, Dong Trieu, potrebbe costituire la chiave di un’interpretazione importantissima del tempio di Veerabhadra. Ogni rappresentazione di Nandi infatti, secondo la tradizione indiana, dovrebbe essere accompagnata dalla struttura vagamente fallica del Linga, l’oggetto ovale che si richiama al culto di Shiva e che trasse probabilmente l’origine dai rituali delle più antiche civiltà della valle dell’Indo. Il quale, nel presente caso, potrebbe sembrare assente, finché non si elimina con la mente la presenza del muro perimetrale del tempio, immaginando una linea diretta fino all’elemento architettonico situato nel suo cortile centrale. Un gigantesco Linga tenuto in ombra da un’altra svettante scultura monolitica, nella forma un Naga (dio-serpente) a sette teste. L’autore del video, quindi, ci spiega come secondo la tradizione induista, lo scopo delle rappresentazioni di Nandi sarebbe disporre le dita ad arco sulle corna del toro, per osservare attraverso lo spazio creatisi la figura divina del Linga. Se non che, in questo caso e vista l’altezza della statua di almeno tre metri, come sarebbe mai stato possibile farlo? A meno di essere molto… Più grandi. Tramite ciò, quindi, ci si ricollega ad una particolare visione tipicamente indiana della storia remota, secondo cui gli umani erano, un tempo, molto più alti di come si presentano al giorno d’oggi. Nel cortile del tempio ad esempio è presente una grande impronta scolpita (secondo il mito, da una precedente realmente presente al suolo) che si dice appartenere alla bella Sita, la quale per produrla avrebbe dovuto misurare oltre 7 metri di altezza. E tenete conto che lei veniva considerata, secondo i canoni di allora, una donna piuttosto minuta. Quindi, proseguono le leggende degli abitanti di Lepakshi, le successive generazioni si sarebbero progressivamente abbassate, fino all’attuale statura che raramente supera i due metri di distanza dal suolo. Dong Trieu afferma quindi che le prove della storicità di un simile fatto erano ovunque grazie al ritrovamento di scheletri sovradimensionati un po’ ovunque, fino a circa 50 anni fa, quando un gruppo di società segrete (viene mostrato il triangolo degli Illuminati) non iniziò a fare di tutto per insabbiare la verità. Un’insolita teoria che, consultando i vasti cataloghi del Web, ha saputo catturare l’attenzione di più di un appassionato del mondo dei complotti.

Qualunque sia l’opinione sulle teorie del gigantismo originario, è indubbio che le due sculture monolitiche del tempio di Lepakshi colpiscano con la fantasia con la loro maestosa imponenza. Di certo trasportarle fino a quei luoghi deve aver comportato uno sforzo logistico molto più che significativo.

Una visita al tempio di Veerabhadra viene considerato un passo importante nella vita di tutti i devoti al culto di Shiva, che qui potranno prendere atto delle sue leggendarie gesta compiute nella forma di essere umano e percepire per almeno qualche estatico momento, nelle parole del documentario di India Ghoomo incluso poco più sopra “La sensazione illusoria di aver raggiunto il Nirvana.”
Ciononostante, la sua origine sembra essere legata a svariate sanguinose battaglie ed almeno un fatto orribilmente truculento. Quello del ministro reale Virupanna, che accusato dinnanzi ai re Vijayanagara di aver sottratto indebitamente i fondi dell’erario per portarne a termine la costruzione, si cavò senza esitazione gli occhi per dimostrare la sua innocenza, gettandoli con impeto su una parete del tempio, dove ancora campeggiano due vistose macchie marroni. Assolutamente magnifico. Ma l’attrazione principale per tutti i turisti continuerà ancora per lungo tempo ad essere l’enorme pilastro “fluttuante”. Finché qualcuno di molto scaltro, livella alla mano, non arriverà per spiegarci il suo misterioso  ed insolito funzionamento.

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