L’eroica vicenda della più grande statua di uccello al mondo

Enorme creatura del tutto immobile, gli artigli rivolti in direzione dell’azzurro cielo fino all’altezza vertiginosa di un palazzo di 5 piani. Un’ala distesa a terra, l’altra misteriosamente terminante in un moncone a 46 metri di distanza, mentre la coda allargata perpendicolarmente agisce come una sorta di scalinata, permettendo ai minuscoli turisti di salire sul ventre della spaventosa creatura, per conoscere più da vicino la sua espressione di rabbia feroce e immancabilmente, scattarsi una foto con lei. Davvero si tratta, come potrebbe sembrare, di un monumento appartenuto all’epoca del Treta Yuga, quando gli antichi re sconvolgevano i loro confini in drammatiche guerre, mentre creature immense osservavano dai cieli distanti? E per quale ragione l’immenso volatile viene venerato nel suo stato ferito e morente, piuttosto che all’apice della sua gloria pennuta? Chi l’ha costruito, perché?
Assai più semplice è la vita di colui che conosce il significato della benevolenza, poiché nel più duro nucleo delle sue avversità, potrà sempre contare sull’assistenza e il sostegno di amici, per aiutarlo a raggiungere l’altra sponda di quell’impetuoso mare in tempesta. Personaggi o figure storiche ricche d’insegnamenti, come la più importante reincarnazione del divino Visnù indiano, che dopo aver sperimentato l’onniscenza e il potere supremo attraverso infiniti millenni come componente della somma Trimurti, scelse di trasferire parte della sua essenza sulla Terra, all’interno dell’avatar che nacque principe, crebbe guerriero e diventò il difensore degli umani contro il più grande male che avesse mai calcato il palcoscenico della storia. Giusto dopo essere stato scacciato in esilio, così narra il racconto, per via della crudeltà della sua matrigna, per andare a vivere nella foresta di Dandaka assieme all’amata moglie Sita e il fratello Lakshmana. Dove, nel momento in cui gli uomini si trovavano a caccia di un cervo dorato, un mendicante all’apparenza innocuo si avvicinò alla donna, distraendola con il apparente bisogno di aiuto. Soltanto per rivelare, in un fatale momento, la sua reale identità: nient’altro che Ravana in persona, gran demone e sommo sovrano del Siam! Con una missione malefica: rapirla e riportarla nel suo distante palazzo, per costringerla a sposarlo su un’altare di fiamma e tremendi rimpianti. Ora, in condizioni normali, c’era ben poco che un infame bandito potesse fare per contrastare la rapidità e la probità in battaglia di Rama, armato del temibile Narayanastra, l’arco magico in grado di scagliare dardi esplosivi all’indirizzo dei suoi nemici. Se non che anche il malefico individuo destinato a diventare il suo principale antagonista nelle storie future possedeva un manufatto sovrannaturale: il carro alato Pushpaka Vimana, capace di sollevarlo in cielo assieme all’impotente fanciulla, per scomparire con fulminea rapidità in mezzo alle nubi distanti. Così avendo scelto attentamente il momento in cui marito e cognato erano assenti, il maligno era certo che non sarebbe stato scoperto. Se non che alle grida disperate di Sita, sulla sommità degli alberi della foresta si risvegliò qualcuno che di sua spontanea iniziativa, per pura e assoluta ammirazione, aveva giurato fedeltà a Rama: nient’altro che Jatayu figlio di Aruna, il “Bagliore del rosso Sole nascente” la cui forma fisica si presentava come quella di un poderoso e antico avvoltoio. L’uccello decollò quindi ad intercettare Ravana, combattendo fieramente con lui per molte ore. Ma le sue piume ormai anziane, non avendo più la forza di un tempo, non gli permisero di mantenere il passo con il terribile potere del demone, finché a un certo punto, con un colpo rapido della sua spada, egli riuscì a recidergli un’ala, costringendolo a precipitare verso il distante suolo. Dove assai lentamente, morì. Ma non prima di aver visto di nuovo, ancora una volta, il suo signore con il fratello, ai quali ebbe il tempo di spiegare chi fosse stato, esattamente, a rapire la bella Sita, ed in che direzione avesse orientato la parte anteriore del suo mezzo volante dorato. Dando inizio alla guerra più terribile che l’umanità avesse mai conosciuto…

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Il pilastro che fluttua nel tempio dei giganti

Ci sono luoghi, dall’antica e importante vicenda storica, presso i quali la principale attrazione turistica finisce per essere un singolo gesto, eternamente ripetuto dai visitatori curiosi, secondo un rituale che di ben poco è cambiato attraverso i secoli. Così come i fotografi della torre di Pisa, che cercano d’inquadrare i propri compagni di viaggi mentre ne falsano la prospettiva sulla pubblica piazza, nel territorio d’India dello stato dell’Andhra Pradesh, ben pochi varcherebbero queste sacre mura senza portare con se una tovaglia, un canovaccio, oppure qualcosa di oblungo da far penetrare al di SOTTO. Del blocco granitico da svariate tonnellate, che costituisce una delle molte colonne riccamente ornate del sancta sanctorum del tempio dedicato all’Avatar di Shiva Veerabhadra, presso la cittadina di Lepakshi, non troppo distante da Bangalore. Il quale, in maniera piuttosto insolita, non sembrerebbe poggiare sul pavimento. O almeno non completamente, come ci spiega con precisione l’autore di questo video Dong Trieu, che sembra aver dedicato alla questione una lunga sequenza di pensieri, giungendo infine alla conclusione che nonostante l’esistenza di un “trucco” (la pietra poggia in corrispondenza di un angolo) esso costituisca cionondimeno una delle meraviglie architettoniche della sua intera nazione. Eventualità condivisa, a quanto sembrerebbe, dai precedenti funzionari del governo coloniale inglese, che tentarono di svelarne il funzionamento danneggiandolo e lasciandolo in posizione parzialmente inclinata: un altro punto di contatto, se vogliamo, con il campanile della cattedrale di Santa Maria. L’epoca di completamento per una mera coincidenza poi, non è così distante, visto come le possenti mura di un simile luogo di culto furono messe assieme, con una tecnica delle pietre cesellate ed incastrate fra di loro non dissimile da quella dei edifici Maya di Machu Picchu, durante la dinastia coéva dei re Vijayanagara (1336-1646) per volere dei due governatori e fratelli Virupanna Nayaka e Viranna, affinché al suo interno abitasse in totale ascesi il saggio vedico Agastya. Benché esistano leggende locali che fanno risalire, almeno alcuni degli elementi, ad un’epoca molto più antica. E alla situazione che venne a crearsi per l’amore smodato nei confronti di due donne.
Sita era la diretta discendente della dea della Terra Bhūmi, che scelse di vivere tra gli umani come figlia adottiva del re Janaka di Videha. Riuscendo ad affascinare, con la sua naturale bellezza e l’aura straordinaria, niente meno che il principe Rama, il settimo avatar del dio Vishnu. Se non che i due, scelto di vivere in esilio assieme al fratello di lui nel territorio di Lakshmana, finirono per attrarre l’attenzione del potente Ravana, il sovrano demoniaco del regno di Lanka, che senza la benché minima esitazione, la portò via con la forza. Questa vicenda, alla base della principale guerra del lungo poema epico Mahābhārata, fu alla base d’innumerevoli battaglie, gesta eroiche e sacrifici, tra cui il primo fu quello di Jatayu, l’uccello magico simile ad un’aquila che faceva parte del vasto seguito di Vishnu. Il quale, assistendo dall’alto all’efferato rapimento, si lanciò subito all’inseguimento del re, se non che questi, proprio nel mezzo delle lande desolate, non rivelò il suo vero e possente aspetto. Allora Ravana, nella sua guisa di vero appartenente alla schiatta dei demoni Rakshasa, si sollevò in piedi sul suo carro, con dieci teste e centinaia di braccia, ciascuna delle quali impugnava un’arma terrificante, il ventre rigonfio per effetto del nettare dell’immortalità. I due combatterono nei cieli del mondo, finché inevitabilmente, l’imprudente Jatayu si vide strappare le ali e precipitò rovinosamente al suolo. Mentre il malvagio riprendeva la sua fuga, quindi, Rama giunse sulla scena, trovando l’amico volatile morente. Così dandogli l’estremo saluto pronunciò le famose parole “Le, Pakshi” ovvero in lingua telugu: “Alzati, uccello”. Gli umani, che avevano sentito il suo grido di dolore, decisero quindi di scegliere questo nome per l’intera città, e il luogo di culto che sarebbero sorti sulla scena di un simile tragico evento. Ma il tempio di Lepakshi, che come dicevamo è anche associato al nome di Veerabhadra, ospita al suo interno una statua in pieno armamento bellico di uno spaventoso guerriero, che aveva amato, anch’egli, una leggiadra fanciulla e che se l’era vista sottrarre per un crudele scherzo del fato. Si trattava di una delle personificazioni terrene più terribili del dio Shiva, che dopo un lungo periodo d’impegno spirituale da parte di lei, aveva scelto di lasciarsi conquistare da Sati, la figlia del re che era figlio di Brahma, Daksha. Se non che quest’ultimo, circondato dai maggiori lussi terreni, provava disprezzo per la vita condotta dal genero, che abitava tra i poveri, portava la barba lunga e ricopriva la sua pelle di cenere come i guru itineranti, circondato dall’ordine dei suoi devoti Bhutagana. Così che un giorno, invitata sua figlia a palazzo con la scusa di uno yajna (sacrificio) a Brahma, prese a criticarla di fronte a tutta la corte, ricoprendola di insulti così terribili che la spinse a suicidarsi, gettandosi nel fuoco. Questo fu un terribile errore. Quando Shiva venne a conoscenza della notizia, subito si tagliò un capello e lo divise in due. Da tali frammenti, quindi, scaturirono i due avatara Veerabhadra e Bhadrakali, tra i più pericolosi guerrieri che fossero mai vissuti. Questi si posero alla guida dell’armata dei Bhutagana, e presero d’assalto il palazzo di Daksha.

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